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Matei Vişniec e il suo «Sindrome da panico nella Città dei Lumi»
Con questo romanzo, il suo secondo, pubblicato in Romania nel 2008 dalle edizioni Cartea Românească (Sindromul de panică în Orașul Luminilor),e uscito in Italia 2021 per l’editrice Voland con il titolo Sindrome da panico nella Città dei Lumi (trad. di Mauro Barindi), Matei Vișniec, drammaturgo, scrittore e poeta (1956), rende omaggio da un lato alla città, Parigi, l’urbe cosmopolita e mitica, simbolo dell’Europa moderna, che lo ha accolto in un momento drammatico della sua vita – la fuga nel 1987 dal proprio Paese scegliendo la via dell’esilio in Francia, un distacco sempre drammatico e pieno di incognite – e dall’altro ai fantasmi letterari – nomi internazionali e romeni di primissimo piano – che la popolano e che hanno popolato lo scrittore stesso: «Questo romanzo così divertente e doloroso è la fotografia dell’anima di chi è stato costretto all’esilio, e in esilio insegue i fantasmi gloriosi scappati dalla sua terra (Ionesco, Cioran, Eliade) ...» [1]
Tra questi due poli si inserisce la storia, a sprazzi autobiografica, ma anche «divertente» e «dolorosa», per citare ancora la scrittrice Francesca Manzon, autrice dell’articolo summenzionato, con la sua trama sinuosa e sorprendente, che, pur avendo, come sottofondo, tra le altre mille spie accese, i traumi dei paesi dell’Est-ex blocco sovietico, ci riporta alla memoria quel tragico passato, condito però da una buona dose di sana (auto)ironia, mai futile o fine a sé stessa, impastata a situazioni surrealistiche (dove si riverbera senz’altro l’eco di E. Ionesco...), quale sua chiave di lettura che è poi la cifra stilistica dell’autore.
Ecco, questo è uno dei punti di sorpresa nella lettura di questo romanzo piccolo e sconfinato: il sottile e continuo non prendersi sul serio per dire invece cose assolutamente serie e profonde, anzi, come ha notato la leggivendola del blog letterario «il Bosco Meccanico», è «una grande presa in giro di Matei verso Matei. E un funerale. E un’opera teatrale in cui alla fine tutti si tolgono la maschera e sotto c’è lo stesso viso, ed è lo stesso degli spettatori in tribuna». [2]
In questa ultima osservazione c’è infatti un altro aspetto che si coglie in Sindrome, nel senso che il romanzo può essere letto come una grande commedia di teatrale coralità, ora assurda, come al limite del paradossale sono i suoi tanti personaggi (ecco affiorare di nuovo il richiamo ioneschiano...), ora assertiva, ora malinconica, ora con squarci improvvisi su altre dimensioni – come quella dei sottili giochi erotico-sentimentali tra Faviola, l’esule cecoslovacca, e il protagonista-autore –, dove la trama, scrive ancora leggivendola, «si ramifica, devia, si impenna, anziché percorrere un tracciato unitario, il caro vecchio arco narrativo che parte dall’inizio e si interrompe alla fine». [ivi]
E al termine del suo intreccio, la scrittrice Eva L. Mascolino afferma: «Sono arrivata alla sua conclusione turbata e divertita. Preoccupata per la mia fantasia, per il modo in cui Vișniec se n’era preso cura schiaffeggiandola un po’». [3]
Ma tutto questo brulicante circo felliniano ruota intorno a due grandi totem, evocati e costantemente adulati (e a volte stigmatizzati) nel romanzo: la letteratura e i libri: per Eva L. Mascolino è una dedica d’amore «[...] alla letteratura. O meglio: all’editoria, agli autori, alla scrittura. Ai libri. A tutto quell’apparato di pratiche e di tecniche che se poi non si conosce porta poi centinaia di volumi a urlare in libreria, per lamentarsi se qualcuno non li sfoglia da troppo tempo». [ivi]
Per leggivendola «È una lettera d’amore alla letteratura [...]» [2]
Mentre per Francesca Manzon «[...] è anche un romanzo sul senso della letteratura: come “fa uno a immaginare che la propria voce conti ancora dopo che su questa terra si sono narrate già tante cose? Oppure, come fa uno ad avere l’audacia di scrivere senza aver letto tutto quello che è stato scritto in precedenza?” O più semplicemente: perché le persone scrivono con tanto accanimento invece di vivere? E questo romanzo ne è la magnifica risposta. Mentre ovunque, tra le pagine, si aggira uno scarafaggio nero arrivato chissà come dall’Est, che appare e scompare, veglia sulle parole». [1]
Non a caso a troneggiare nel dipanarsi del romanzo c’è un editore parigino, il signor Cambreleng, un editore molto particolare perché non ha una casa editrice, «uno pseudo-editore/santone» [3] che, al caffè Saint-Médard, «l’unico posto a Parigi in cui tutto è possibile», una sorta di suo quartier generale, istruisce, smistandoli come fossero pacchi o redarguendoli come fossero dei mocciosi insolenti, scrittori o aspiranti tali, «una masnada di scrittori disperati perché incompresi e impubblicabili» [2] provenienti per lo più da paesi dell’Est ma anche dal lontano oriente, e che pone loro una domanda fondamentale: «“Lei è autore o personaggio?” Cambreleng riunisce autori mancati o abbandonati dall’ispirazione e va in cerca di personaggi nuovi per farli incontrare. Animato dalla preoccupazione che la letteratura rimanga viva, non un cimitero di “io” morti». [ivi]
In questo fortino in cui Cambreleng decide o disfa i destini letterari di tali sedicenti scrittori, e per le vie o nei luoghi della Ville Lumière impregnati delle ombre dei grandi della letteratura universale che vi transitarono, c’è di tutto, come in una Wunderkammer, un gabinetto delle meraviglie: «c’è un capitolo scritto in prima persona dalla prospettiva di una gobba, ed è una chiave di lettura per un capitolo più avanti che racconta una favola che non sembra c’entrare nulla; c’è un personaggio secondario consapevole di essere un personaggio secondario; c’è […] una rivolta di parole, […] un cane che ascolta i notiziari, lunghe passeggiate, riflessioni su chi scrive, perché scrive, su quanto sia folle scrivere pensando – davvero, dopo Kafka, dopo Balzac, dopo Hugo – di avere qualcosa di significativo da dire. Ma non è una trattazione pomposa, è un carnevale». [2]
E alla fine di questo vertiginoso periplo, metafora e folgorante riflessione della e sulla scrittura, ce se ne accomiata esterrefatti e felici perché è «è un libro così vivo e così pieno che viene da pensarlo più come un animale domestico che come oggetto» [2] o perché «un libro in cui la lingua può essere una belva feroce, o una parola come tempo fra le più ruffiane del dizionario: segnatevelo. Se vi va. Mirabolante per com’è. E vedrete quanto lui finirà a quel punto per segnare anche voi». [3]
Tradotto anche in francese, russo, bulgaro e ungherese, Sindrome da panico nella Città dei Lumi è un libro poetico, raffinato e pieno di umorismo, irresistibile e godibile a ogni pagina, accolto dalla critica alla sua uscita in Romania con enorme favore.
Di seguito un capitolo estratto dal libro e proposto qui per gentile concessione dell’editrice Voland.
Da «Sindrome da panico nella Città dei Lumi»
Capitolo 26
Dal punto di vista del signor Cambreleng, tutti noi che eravamo stretti attorno a lui avevamo lo status di autori di libri morti. Mai nella storia del mondo si sono scritti tanti libri morti come ai giorni nostri, ci spiegava il signor Cambreleng. Oggi i libri muoiono a una velocità sorprendente. E alcuni nascono, d’altronde, già morti. Sì, sì, ci ripeteva il signor Cambreleng, i libri muoiono, vi dovete abituare a questa idea. I libri agonizzano, come esseri viventi, sugli scaffali delle librerie, aspettano e aspettano e poi cominciano a deperire, a infiacchirsi, si ammalano per l’attesa, soffocano, sentono che nessuno li aprirà, che nessuno li comprerà più… E in un mondo in cui, di fatto, nessuno legge, è normale che tutti scrivano… Chi si sarebbe mai immaginato che l’alfabetizzazione obbligatoria e di massa avrebbe avuto questo effetto perverso, ossia che un bel giorno ogni alfabetizzato avrebbe tentato di scrivere libri? Scrivere un libro è in realtà il tentativo disperato di rimandare la morte, di gabbarla…
Il signor Cambreleng conosceva quasi tutti i piccoli librai di Parigi. Ogni volta che mi portava con sé per fare un giro delle librerie, il rituale era sempre lo stesso. Entravamo, il signor Cambreleng stringeva la mano al libraio e mi presentava succintamente:
– Un amico scrittore.
Non avevo mai un nome quando entravo con il signor Cambreleng nelle librerie, il che non mi dava fastidio, preferivo, infatti, non avere un nome che essere un nome su un libro morto. Il signor Cambreleng cominciava poi a indicarmi, con gesti precisi, svariati libri in punto di morte. Le sue affermazioni non potevano essere verificate in nessun modo, ma io sentivo che aveva ragione. Mi mostrava, per esempio, libri di cui si era venduta un’unica copia.
– Davvero? – dicevo – Ma lei come fa a sapere che di questo libro si è venduta solo una copia? Adesso esagera!
– Ma sì, invece… Lo osservi… Provi a prenderlo in mano… Cerchi di tastarne il polso. È mai stato a una mostra (con vendita) di animali abbandonati? Ha mai visto l’espressione di un cane che spera di essere adottato da qualcuno, non importa chi, solo per il desiderio di abbandonare la gabbia e avere un padroncino? Sono esattamente così anche i libri nelle librerie. Tutti sperano di essere tirati fuori da qui. Il peggior posto per un libro è la libreria.
Per il signor Cambreleng tutte le librerie erano una sorta di mattatoi. Sì, sì, insisteva lui, mattatoi, è questa la parola giusta. Noi non abbiamo un udito abbastanza sviluppato per sentire come gridano i libri sugli scaffali. Libri mai sfiorati, libri mai desiderati, libri mai sfogliati da un anno, da due anni, da dieci anni… Ciechi e sordi come siamo non udiamo il pianto dei libri, il loro rantolio, il loro grido di solitudine. Ciechi, sordi, privi di tattilità come siamo non sentiamo come fremono i libri sotto i nostri sguardi, non vediamo la speranza che pulsa in essi quando facciamo scorrere i nostri stanchi e impassibili sguardi su centinaia di metri di scaffali e di bancarelle, o sui volumi esposti dagli antiquari sul Lungosenna a Parigi. Non sentiamo neppure l’orrore sperimentato dai libri nell’essere sistemati gli uni accanto agli altri, obbligati a vivere appiccicati tra loro… Libri pregevoli attaccati a libri scadenti, libri moribondi appiccicati a libri ancora in vita, libri fondamentali appiccicati a libri nati morti. Che orrore, che orrore ordinarli nello spazio in base a criteri alfabetici o in base ai loro autori! Nessuno, nessuno è conscio del fatto che i libri per il 90 per cento dei casi sono ammalati, resi isterici per la goffaggine con cui vengono esposti e venduti, trasportati e immagazzinati.
Di quando in quando vedevo il signor Cambreleng comprare qualche libro esausto, morto, sfinito da tanta attesa.
– È per salvarlo – mi diceva.
Secondo lui, salvare un libro morto significava comprarlo e depositarlo nella cantina del caffè Saint-Médard.
– È meglio tenere i libri tra le bottiglie di vino che lasciare che si divorino tra di loro – opinava il signor Cambreleng.
Mi ci volle parecchio tempo per capire cosa vedesse in realtà il signor Cambreleng quando posava lo sguardo su un libro. Lui non vedeva, in effetti, l’oggetto in sé, quell’oggetto composto di carta e di molte pagine, disciplinate, intrappolate fra due copertine e strette da una rilegatura. No, ciò che vedeva lui era di fatto l’universo di quel libro specifico. E quando faceva scorrere lo sguardo su uno scaffale, lui vedeva universi estremamente distinti, impossibili da abbinare. Come si fa a obbligare un giallo a stare accanto a un romanzo di Alexandre Dumas ed entrambi di fianco a un dizionario? Tre universi così distinti, così commoventi… È come mettere sullo stesso scaffale un cane, un oceano e un treno ad alta velocità. Poco a poco ho abituato anch’io sia gli occhi, sia il cervello a captare, quando guardavo i libri, non tanto l’oggetto quanto l’universo racchiuso in esso, la sua musica interiore, gli sciami fittamente ronzanti di parole.
Il signor Cambreleng era fiero di avere in me un discepolo, un seguace avveduto.
– Pensi, – mi diceva – siamo le uniche persone a Parigi che passeggiano tra i libri vedendo dei mondi, degli universi, e non della carta.
Il che era vero, i libri, anche se non letti, possono proiettare il proprio universo nella mente di chi li guarda, a condizione però che questi si sia sottoposto a esercizi ginnici per l’apertura degli occhi.
Presentazione e traduzione a cura di Mauro Barindi
(n. 5, maggio 2022, anno XII)
NOTE
[1] Francesca Manzon, «Il panico di un esule tra Est e Ovest dalla Romania alle luci di Parigi, in «Il Piccolo - il piccololibri» 04.02.2022
[2] https://laleggivendola.blogspot.com/2021/12/sindrome-da-panico-nella-citta-dei-lumi.html 08.12.2021
[3] Eva Luna Mascolino in: https://www.sicilianpost.it/la-parigi-poetica-che-cercavo-nelle-parole-di-un-autore-rumeno-e-di-un-autista-serbo/ 25.02.2022 |
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