Tra immagini e autobiografia, il fantastico viaggio letterario di Mariana Gorczyca

Nel nostro Focus dedicato al tema della scrittura negli autori romeni figura Mariana Gorczyca (n. 1956), scrittrice e poetessa. Si è laureata presso la Facoltà di Lettere dell’Università «Babeş-Bolyai» di Cluj-Napoca nel 1983 e presso la Facoltà di Filosofia, in «Comunicazione e Giornalismo» dell’Università «Lucian Blaga» di Sibiu nel 2002. È Dottoressa in Filologia dal 2007. Ha pubblicato per le riviste Napoca universitară, Vatra, Discobolul, Familia România literară, Observator cultural, Tribuna, Contemporanul, Suplimentul de cultură, Matrix, Verso, Apostrof, Bucureştiul cultural, Cetatea culturală.
Ha debuttato come poetessa con il volume Versuri pentru pauza mare (2003), tuttavia in seguito si è concentrata sulla narrativa pubblicando i romanzi Cheful nu se organizează, vine de la sine (Polirom, 2005), romanzo in chiave postmoderna e uno dei pochissimi in cui si parla apertamente di omosessualità, Cadenţă pentru marş erotic (2010, 2016), tradotto in francese nel 2013, Parcurs (2013), Premio della Filiale di Cluj dell’Unione degli Scrittori Romeni, tradotto in ungherese nel 2015,  Dincoace și dincolo de tunel - 1945 (Polirom, 2019), tradotto in tedesco nel 2020, e Rubla, locul fără umbră (Ed. Școala Ardeleană, 2022) – inframezzati dal volume di racconti Să iau cuvintele cu mine (Tracus Arte, 2016), di cui riproponiamo qui un brano.

Sorprendenti e accattivanti le sette prose che Mariana Gorczyca ha saputo fondere nel suo ultimo volume Să iau cuvintele cu mine - 7 povești, 7 zile, 7 locuri (Tracus Arte, București 2016, pp. 155), la cui immagine di copertina offre già al lettore un anticipo di ciò che vi troverà narrato: itinerari tra l’immaginario, il fantastico e il verosimile e l’autobiografico possibile condensati in esperienze di viaggio, da un paese all’altro dell’Europa – dall’Islanda alla Romania passando per Francia e Italia –, nelle quali il dato oggettivo è filtrato da quello personale, il “qui e ora” reinventato, riformulato, trasfigurato in sequenze di lucida introspezione, che si fanno dialogo interiore, proposizione personale, scambio di identità, libera fantasia, quasi una fiaba. Sette racconti, disposti in un ideale spazio fisico e cronologico recante i nomi dei giorni della settimana, che nel loro svolgimento narrativo non vanno però per compartimenti stagni ma si tengono l’un l’altro per mano, dal primo all’ultimo, attraverso anche sottili richiami interni, segnali luminosi che si accendono come spie narrative sparsi in vari punti, dei Leitmotiv punteggianti la partitura scritta.
Il protagonista, l’alter ego che ci fa qua e là da apripista e guida, è Pi, sigla-nomignolo – “blasone” impostogli dal professore di matematica ai tempi del liceo per elevarlo dalla sua banale patronimicità – dietro il quale si cela Popescu Ioan, giornalista, che si alterna ora alla voce narrante femminile, ora alle voci degli altri protagonisti (lo scandinavo Gylfi, immaginifico compratore di domande, sbucato come da una saga islandese; la coppia Andrei e Olga, diretti in aereo a Bali da Amsterdam, un racconto nel racconto, allusivo e terribile (lascio al lettore scoprirlo); l’altra coppia, o meglio il triangolo composto da George, Maria e un altro Pj/Pi, lo svedese Peter Johansson, con la loro storia che oscilla fra presente e passato; la borsista in Italia che insegue a Bologna il suo idolo letterario, Umberto Eco, e finisce in un intreccio amoroso; e Pi ancora, nell’ultimo racconto, che ci scaraventa in faccia l’orrenda realtà di questi ultimi tempi). In questo modo si crea una sorta di transfer da una psicologia all’altra, da un sentire all’altro, come se l’autrice, facendo così, volesse sdoppiarsi per non dover rinunciare a tutto quello che le preme dire, prestandosi a un sottile artificio che le permette di tenere insieme frammenti di vita non tanto sparsi e incoerenti quanto, invece, a lungo incubati, facendoli ora erompere sulla pagina.
Con uno stile tondo e insinuante, Mariana Gorczyca ci cattura e ci convince con questo volume, cimentandosi in un genere letterario, il racconto, da cui si riconoscono solo gli scrittori di qualità
           

Mauro Barindi



Brano da «Să iau cuvintele cu mine»

Domenica


Era sceso dall’aereo a passo spedito, felice di poter finalmente rimettere il corpo in movimento. Davanti ai banchi del controllo passaporti c’era già la fila. Nessun problema, avrebbe riacceso il cellulare e letto i messaggi, non prima però di essersi sistemato lo zaino passandolo da una spalla a entrambe. Selezionò Impostazioni e disinserì il comando Modalità volo. Aspettò la connessione, ma il suo livello di concentrazione era al minimo. Un coacervo di sensazioni lo attanagliava ogni volta che ritornava in Romania e non erano di quelle in cui entrassero parole chiare come “gioia” o “tristezza”. Ciò che si stratificava nel suo stato emotivo poteva essere definito ogni volta con tante parole. Sfumature di nostalgia, di angoscia, di frustrazione, di indignazione, di scontentezza, di pacificazione, di attesa, di impazienza. Se ritornava in Romania in macchina, il suo stato si complicava coagulandosi in nubi di malumore. Gli sarebbe piaciuto rientrare in patria in modo rapido, rettilineo, su strade a doppia carreggiata per ogni senso, senza incontrare carretti ingombranti, trattori, né restringimenti o tante altre sinuosità. Poter raggiungere il più rapidamente possibile il proprio letto. La patria ti doveva aspettare con semplicità, aperta, diritta, contenta di riaccoglierti di nuovo a casa. Se ritornava in aereo, passare la frontiera veniva semplificato a livello percettivo, dato che l’infrastruttura aerea era impeccabile.
Ma perché tutto procedeva così a rilento? Lo zaino con dentro il portatile si era fatto più pesante per via di due bottiglie di vino, comprate all’aeroporto di Vienna. Gli sembrava di essersi incolonnato proprio nella fila più lenta. Si alzò sulle punte dei piedi e vide che davanti c’era una famiglia con bambini. I genitori li alzavano uno a uno per farli vedere al funzionario. Ma poi toccò solo ad adulti e il controllo di ogni passaporto era altrettanto scrupoloso. O si trattava di un nuovo agente oppure era accaduto qualcosa e il controllo dei dati sui documenti era più severo. E intanto lo zaino diventava sempre più pesante. Si era scordato dei libri, già, si era comprato anche due libri in aeroporto. Entrambi di Alessandro Baricco, uno dei suoi scrittori preferiti. Gli aveva creato anche un nomignolo, Abi. Quando parlava con i suoi amici di narrativa e del suo ruolo, tirava in ballo Abi. La narrativa è il vuoto della nostra esistenza che deve essere colmato. La vita di ognuno è un puzzle in cui mancano, qua e là, delle tessere. Affinché il puzzle abbia un bell’aspetto, lo si completa incastrandoci la narrativa. Se così non fosse, a che servirebbero il cinema, la letteratura? Non era Abi ad affermare questo, bensì lui, il cittadino romeno Popescu Ioan, noto fra i suoi amici come Pi, soprannome affibbiatogli dal suo professore di matematica il primo giorno di scuola del penultimo anno di liceo. Quindi Pi non citava Abi quando parlava della necessità della narrativa e del suo ruolo. Con brani tratti da Alessandro Baricco esemplificava, argomentava, garantiva che ciò che affermava non aveva limiti di tempo. Gli piaceva come l’autore svelava eventi e personaggi, come sviscerava cause e motivi, proprio nel momento in cui il lettore neppure si aspetta di saperlo dall’autore, e intanto costruiva un proprio scenario, riempendo da solo gli interstizi per mezzo degli occhi della mente, ricorrendo alle risorse della propria immaginazione.
I libri, sempre più pesanti sulle sue spalle, avevano titoli vaghi: uno Tre volte all’alba e l’altro Questa storia. Che se ne faceva? Li aveva già letti. Non era proprio sua abitudine spuntare sulla lista le spese da fare negli aeroporti, ma questa volta ci era stato spinto per via delle imminenti feste natalizie. Per di più, lo scalo a Vienna era durato tre ore, aveva avuto tutto il tempo per ispezionare con pazienza gli scaffali. E c’erano anche quelle due scatole di cioccolatini Mozartkuegeln. Una l’aveva pure aperta, sorrise sornione, perché di cioccolato ne era ghiotto tanto quanto lo era da bambino, quando, dopo le lezioni di pianoforte, la professoressa gli regalava una pallina di cioccolato, avvolta nella stagnola dorata con sopra impresso il volto di Mozart. In Polonia una volta si era comprato una bottiglia di vodka con sopra il volto di Chopin; gli austriaci invece sfruttavano il salisburghese Mozart per le cose dolci… Da loro si creano prodotti culinari associandoli alla cultura; da noi, invece, non si vende ancora miele di salice o di tiglio con il volto di Eminescu, né qualcos’altro che scivoli giù per la gola con il volto di Enescu intento a suonare il violino. E le etichette appiccicate sulle bottiglie di vino, che ora le sue spalle sentivano in tutto il loro peso, mostravano il volto di Haydn incoronato dal logo dell’enoteca Esterházy, fondata nel 1750… Le avrebbe tirate fuori dal sacchetto sigillato su cui era scritto Duty free e l’avvertimento a non aprirlo until final destination. A volte gli veniva una voglia pazza di bersi un bel bicchiere di vino, o due, tre… non di più. Anche in aereo ne aveva chiesto una bottiglietta. Red? White? (in aereo, in Economy, la scelta è limita al colore). White, please, ordinò all’assistente di volo, un po’ impettito e dai modi gentili forzati. Ma perché stava pensando a tutte queste cose in quel momento?
Finalmente arrivò anche lui davanti alla striscia gialla adesiva, della larghezza di 7 cm circa, prima dello sportello. Ai piedi aveva le scarpe marroni fin da quel mattino quando se le infilò per scendere a fare colazione. Comode, non c’è che dire, era il primo criterio in base al quale sceglieva le scarpe, poi venivano la qualità e il prezzo, l’aspetto, la moda, l’occasione buona, un eventuale periodo di sconti. Comode, comode, ma quanto tempo può stare uno con indosso le scarpe, anche per chi come lui era in viaggio quasi ogni mese…? Non vedeva l’ora di arrivare a casa e togliersele e coprire con indosso i calzini il tragitto fino al bagno, sentendo sotto i piedi le fessure di 7 millimetri fra una piastrella e l’altra, per la cui posa aveva dato anche lui una mano; poi avrebbe cercato le sue pantofole, che lo avrebbero portato al frigorifero, e poi ai bicchieri sulla scansia in alto…
Con il passaporto in mano, aperto sulla pagina con la foto, mosse qualche passo fino a raggiungere lo sportello. Il tipo dall’altra parte non sembrava essere uno alle prime armi che cincischiasse con ogni passeggero.


Popescu Ioan?
Sì, sono io,

L’agente allo sportello lo studiava con attenzione, soffermando lo sguardo sugli occhi, sulla fronte, sul mento.
Quanto è alto?
La mattina misuro un metro e diciannove.
Senta, le ricordo che l’aeroporto non è un posto dove fare gli spiritosi con gli agenti. Da dove viene?
Da Parigi, con scalo a Vienna.

L’agente guardava ora lo schermo del computer, ora il passaporto, ora la sua faccia.
Dov’è diretto?
Vorrei arrivare a casa stanotte – frase iniziata con un sorrisetto malizioso e terminata in modo neutro, ufficiale, per non dover più sentirsi infliggere una lezioncina su come ci si deve esprimere in un aeroporto. Ma, a ogni modo, non poteva reprimere la sua curiosità:
È successo qualcosa? Faccio il giornalista, magari informa anche me su quel che è accaduto.

Dopo aver sentito la parola “giornalista”, l’agente fece una faccia schifata. Era provocata da un giornalista in particolare o da tutta la categoria? Non contava. Era un suo diritto fare la faccia schifata.

Non mi ha detto dove è diretto.

Nel tono di colui che era pagato per vegliare sul Paese si potevano distinguere, in qualche modo, due semitoni: quello ufficiale e quello inquisitorio. L’interrogato, impostando con calma le inflessioni della propria voce, come se stesse per prendere un tè, rispose:

Ma gliel’ho detto poco fa. Sono cittadino romeno e sto tornando a casa.

“A casa” fu pronunciato alzando la spalla sinistra, inclinando simultaneamente la testa nello stesso senso. Poteva significare tutto. Fu trapassato da un altro sguardo indagatore, poi riebbe indietro il passaporto e poté dirigersi verso il nastro trasportatore. Era già passata un’ora abbondante dall’arrivo dell’aereo e il nastro trasportatore non si era ancora messo in moto. Gli altri passeggeri cominciano a dare segni di nervosismo, cercano gli addetti dell’aeroporto per domandare che cosa sia successo, altri parlano al telefono con i parenti che li aspettano di là delle porte. Si infilò subito le cuffie per ascoltare della musica per non dover sentire battute del tipo: Solo in Romania capitano queste cose, oppure Ben mi sta se son tornato in Romania, cancellando con un sol colpo tutte le magagne sopportate all’estero. Ogni volta che cozzava contro simili accuse, condite con una buona dose di autocompatimento, si sentiva fremere dentro. Quel fatalismo espresso con patimento e, in modo automatico, quel voler convogliare da sé delle colpe verso il sé del Paese. Era un complesso romeno che gli dava fastidio. Aveva trovato un libro di barzellette che circolavano sotto il comunismo, pubblicato sotto l’egida dell’Istituto Culturale Romeno. Una di queste diceva più o meno così: “Come fa un muto a interpretare la canzone Sono nato in Romania? Si dà dei cazzotti in testa.” Era diventato insofferente a ogni risentimento basato su ragioni etniche. Fatto salvo quando non fosse tentato anche lui da paragoni del tipo da noi…, da loro…
Ma ecco che le fette di plastica nera cominciano ad aprirsi a ventaglio, lì dove si era scelto un posto privilegiato per ritirare il bagaglio. Sotto i suoi occhi sfilano borse e valigie di ogni genere, alcune avvolte con pellicola protettiva per difenderle da scossoni e graffiature. Quanti fra coloro che caricano e scaricano i bagagli negli aeroporti viaggiano, quanto spesso e quanto lontano? A che cosa pensano mentre sollevano o tirano giù centinaia di valigie, ogni giorno, dalle pance degli aerei? Sul nastro continuano a scorrere i bagagli, alcuni sono simili, quelli made in China, contraddistinti da un portafortuna come un nastro o una cintura tolta da qualche impermeabile. La valigia che viaggia con noi dice molto su quello che siamo, come le scarpe? Ma perché diavolo mi sto ponendo tante domande? Sarà per via del ritardo, o dell’attesa. Si dice che ci poniamo tante domande quando stiamo aspettando. Senza contare quelle che ci travolgono quando veniamo colti di sorpresa. Un pensiero interrotto di colpo nel momento in cui uscì dal tunnel la sua valigia Samsonite, di color grigio dalla doppia sfumatura, personalizzata da un adesivo incollato per bene, con l’immagine della parte superiore del corpo di un giocatore di pallamano che tira in porta, in origine un magnete da frigorifero, trasformato in qualcosa di diverso dal suo scopo, acquistato in occasione di un Campionato Mondiale di Pallamano. Afferrò la valigia, si aprì un varco e si diresse verso l’uscita. Di là delle porte automatiche, le facce di chi era in attesa, normalmente genitori, mariti o mogli, amici, autisti mandati da qualche hotel… ma si scorgevano altre persone, dagli sguardi vigili, indagatori. Per quale motivo si accalcavano lì? Che cosa avrebbe dovuto fare Pi? Fermarsi e informarsi o andare a casa?
“A casa” suonava in modo più allettevole. Se fosse stato un collezionista di parole, di sicuro “a casa” sarebbe stata una di quelle da mettere da parte, da curare e di cui fare sfoggio a quelli che avessero meritato di vedere la sua collezione. Suo padre, Ștefan Popescu, “Steve” per gli amici, per la sua somiglianza a Steve Martin, gli disse questo al suo ritorno da Baltimora, dove era rimasto per circa tre mesi per una opportunità di lavoro: «Ragazzo, la vita è un viaggio la cui meta finale è a casa». Era un modo per dirgli: mi lasci, figlio mio, con il tuo entusiasmo per andare in America? Là non ti sentirai mai come “a casa”
Ma quanti “a casa” aveva Pi? A casa, nel suo monolocale con vista sul lago. Ma a casa era anche là dove abitavano i genitori, a dire la verità, il suo primo a casa. Si sentiva a casa anche dalla sua compagna. Lì era a casa in modo temporaneo. Tutto predisposto in funzione dei libri, degli esperti, delle energie. Era piacevole per lui farle visita nei fine settimana, condividere il letto con passione, bere un bicchiere di vino, guardare insieme un film, ascoltarla parlare di “x” o di “y”. Solo che lì non poteva ancora gettare i calzini dove voleva.
Andò al parcheggio, girò a vuoto un po’ perché aveva dimenticato la fila esatta in cui aveva lasciato la macchina, si diresse alla cassa automatica per pagare, scaraventò letteralmente sul sedile posteriore la valigia, sistemò lo zaino sul sedile di destra, si tolse le cuffie, accese il motore, lo sbrinatore, si mise la cintura di sicurezza. Dove sono finiti gli inverni di una volta? Neanche un fiocco di neve in Romania! Neppure il suo Paese era stato risparmiato dagli effetti di ogni tipo della globalizzazione, compreso quello del surriscaldamento, negato da alcuni ma che per lui e soprattutto per i genitori e i nonni era un fatto incontrovertibile ogni inverno che passava. Tutti in famiglia praticavano lo sci, ma senza l’invenzione dei cannoni sparaneve non avrebbero più praticato regolarmente questo sport nei Carpazi a loro tanto familiari. Era abitudine che chiamasse per avvisare che era arrivato. Rimandò. A ogni modo il cellulare era scarico. Sua madre, Elisabeta, che i più intimi chiamavano Queenie, lo aveva già assillato, regolarmente, con la pulizia in camera, con i compiti, con i voti ottenuti, con le amicizie che si trovava, solo durante l’infanzia e la prima adolescenza. Dopo di che gli disse che si doveva arrangiare, che era responsabile della propria vita. E riguardo a Iubi, lei tornava dalla montagna solo il giorno dopo, dove la ditta per la quale lavorava aveva organizzato la festa di Natale. Il loro direttore li portava in baite remote, quasi senza copertura, desideroso di staccarli dai loro aggeggi elettronici per tre giorni.
Schiacciò il pulsante a destra del lettore e il cd rimasto inserito riversò dentro la macchina Rapsodia romena, una vecchia registrazione con Yehudi Menuhin. La sua compagna gli aveva regalato quel cd il 1° Dicembre, insieme a un salame di Sibiu e a una bottiglia di Budureasca semisecco, con la testa di Burebista sull’etichetta. Ma perché proprio Burebista? Perché era della zona, una figura storica che sprofondava nei secoli e i vini e le annate stagionate vanno a braccetto. Quindi abbiamo anche noi i nostri marchi, specie sul versante storico. Per Petra – così si chiamava Lei – i regali venivano pensati, personalizzati con ogni tipo di associazioni e donati con un sorriso e un’emozione che coinvolgevano al massimo il destinatario. Era come se non contasse il fatto che lui si scordasse le date importanti e che non sapesse eguagliarla in materia di regali. Sapeva però che avrebbe ascoltato Enescu solo fino a casa (gli avrebbe fatto piacere ascoltarlo discretamente anche negli ascensori dell’aeroporto, perché no?). Dopo di che, avrebbe acceso la tv. Giunto davanti alla porta di casa, Pi si rese conto che, puntualmente, il suono prodotto dalla chiave fatta girare nella serratura gli provocava una sensazione unica e, al pari di ogni sensazione intensa, era difficile da descrivere a parole. Forse sotto forma di note musicali. Agitando un tamburello o forse, meglio, premendo i tasti di un pianoforte. I suoni – le diceva la professoressa – possono essere brevi, come un colpo di martello, o lunghi, come i rintocchi di una campana. Intuiva che ci fossero anche quelli di una terza categoria, quelli riprodotti dai clic di una chiave fatta girare nel meccanismo cifrato delle porte d’ingresso di ogni casa, quelli che si ripetono costantemente a ogni ritorno. Di là di quel clic cloc clac c’è il suo regno conquistato, il suo A Casa.
Come non poteva sentirsi a casa Pi una volta entrato nel suo appartamento? Ogni cosa era al suo posto e avrebbe ritrovato tutto, a qualsiasi ora, anche nel buio più fitto, e quando si tolse le scarpe e gettò i calzini che finirono uno sulla scansia dei libri, l’altro sul televisore, e i vessilli svolazzarono sulla cittadella espugnata, la voluttà del Bene Assoluto si propagò in tutto il suo corpo. Bevve un bicchiere di quel vino semisecco con la testa di Burebista sulla bottiglia, andò a recuperare i calzini per buttarli direttamente in lavatrice e, giunto davanti al televisore, premette l’interruttore della prolunga multipresa per collegare l’apparecchio alla corrente elettrica. Rimasto sul canale Digi World, lo schermo si riempì di pulcinella di mare che atterravano in volo direttamente sulle loro pance, e la voce suadente, calda del commentatore… le giovani coppie devono ora scavare un cunicolo dove deporre le uova, anche se, com’è probabile, occuperanno la vecchia tana di un coniglio. Il rapporto tra i membri di una coppia dura di solito per tutta la vita. Sebbene non staranno insieme per tutta la durata dell’anno, ogni anno si danno appuntamento, di nuovo, al nido.
Si tagliò una fetta di telemea e del pane da una pagnotta vecchia di qualche giorno, infilò la fetta di pane nel tostapane e in casa si sprigionò un odore inebriante. Con il piatto lì vicino, sistemato sul tavolino, si sdraiò sul divano e trovò il telecomando sotto il cuscino con le frange, regalatogli sempre da Lei. Pensò di fare un giro per i canali, prima di andare a fare la doccia. Digi Sport 1, 2, 3, Euro Sport, Pro Sport, Fashion Tv, HBO… sequenze, sequenze, spezzoni, Simona Halep – rally – Parigi – Dakar – Perù – Messi che dribbla la Sagrada Familia – Sharapova – Milano – un podio – Sean Connery, con indosso un saio da monaco… La follia o forse la normalità intravista attraverso la quantistica. Mondi paralleli, coesistenti nello Spazio. Lui, con il suo telecomando, poteva scegliere la dimensione su cui voler sostare. Momento in cui la curiosità sorta all’aeroporto si fece di nuovo strada in lui e premette direttamente il 9, il suo canale di notizie preferito, di cui diceva con gli amici che era “la nostra BBC”.
E da quel momento, non scollò più gli occhi dal teleschermo. Sorpresa, choc, sconvolgimento, inquietudine, indignazione, orrore, sollievo (Dio mio, meno male che m’ero già andato) si riversarono in tutto il suo corpo. Era ormai tardissimo – non sapeva più quante ore fossero trascorse –, quando si alzò dal divano per andare in bagno, aveva il corpo irrigidito come quello di un cadavere.
Poco dopo che l’aereo della Tarom, nel quale si trovava, era decollato da Charles de Gaulle, tre individui che si trovavano nell’area imbarchi, a una distanza circa di 14-15 metri l’uno dall’altro, fecero detonare le cinture cariche di esplosivo nascoste sotto gli anorak e forse nei bagagli che avevano con sé. Probabilmente le agenzie stampa erano ancora alla ricerca di alcune fonti attendibili per costruire la notizia e i giornalisti a Parigi si stavano precipitando verso il più grande aeroporto francese, quando da quello di Schiphol, sempre nell’area partenze, altri tre kamikaze si erano fatti esplodere nella stessa identica maniera. Neppure cinque minuti dopo, nella zona di controllo dei bagagli, a Heathrow, un passeggero con un’unica valigia a mano fa esplodere la bomba che ha su di sé. I morti si contano a centinaia, i feriti a migliaia, il caos è indescrivibile, le linee telefoniche intasate, gli aeroporti di tutta Europa chiusi, atterrano solo gli aerei rimasti in volo ma in aeroporti diversi dai tre devastati. Le notizie affluiscono, le informazioni vengono aggiornate, i giornalisti accorsi sul posto trasmettono immagini da incubo. Le parole non bastavano più, espressioni come immagini da incubo, apocalittiche, sconsigliate a un pubblico sensibile, raccapriccianti… parevano già svuotate di senso. Si erano banalizzate a furia di essere usate negli ultimi tempi. Quanto tempo ci vorrà ancora perché simili eventi si banalizzino anch’essi del tutto? Cosa? Un altro attentato? Quanti morti? Solo un centinaio? Cambia canale che guardiamo un film. L’aeroporto… L’impatto emotivo si diffonde come un sisma di magnitudo devastante e si abbatte spietato come uno tsunami. Un aeroporto internazionale da solo somma quanto il globo intero.
Un’ora dopo che erano stati commessi, gli attentati furono rivendicati. Non destò alcuna sorpresa chi li aveva ideati. Mentre guardava le immagini con le ambulanze, i poliziotti, le vittime, i tentativi di rianimazione, lì, per terra, panico, gli inviati collegati in diretta… Pi si domandava quanto ci avrebbero messo ad apparire sui vari canali i politici, i capi di Stato con le loro dichiarazioni, con le prese di posizioni, con quell’ottimismo preconfezionato in finale di discorso: “Non abbiamo paura” e “i colpevoli pagheranno…” Chi gli crederà ancora? Quanto saldi e generosi saranno i legami fra gli ambienti intorno a loro e i fabbricanti di armi che vengono esportate in Medio Oriente sotto gli occhi di tutti o di nascosto? O c’entra solo il petrolio? O sono solo incapaci di gestire queste situazioni? O sono inadatti? Come è possibile che l’Europa sia stata attaccata in casa propria? È stato l’Occidente a sbagliare quando ha voluto mettere il naso in casa d’altri? E che cosa potrà cambiare l’Europa in politica rispetto al mondo arabo, sciita, sunnita, islamico… nella politica di accoglienza dei rifugiati, chi distinguerà più qual è la linea tra la comprensione dei problemi degli altri e la comprensione fin dentro il nocciolo delle cose dei propri problemi? In Medio Oriente, in quel pezzo di terra fra due continenti che i geografi assegnano sia all’Asia, sia all’Africa, si trovano quattro culture principali: quella ebrea, quella persiana, quella araba e quella turca, culture con origini linguistiche ed etniche diverse, con suddivisioni al loro interno – vecchie di centinaia e centinaia di anni – che si accentuano sempre di più e senza fine. Che cosa c’entriamo noi lì? Vogliamo fare da pacieri? Ce l’hanno chiesto loro forse di intrometterci nelle loro beghe di famiglia? Il petrolio non ci basta? Il vento che, grazie a Dio, soffia anche in l’Europa, non potrebbe essere sfruttato di più? E ridurre così gli sprechi? Forse dovremmo imparare di nuovo a vivere solo con ciò che ci circonda.
Voleva darsi uno scossone, si sentiva stremato, ma il sonno non arrivava. Si ricordò del cellulare, di facebook, di yahoo, della sua vita quotidiana. Mise il telefonino sotto carica e solo allora vide le chiamate ricevute. Molte erano di sua madre. Guardò l’ora. Erano già passate le quattro del mattino. Era il caso di chiamarla, ma sentì suonare il campanello della porta. Attraverso lo spioncino vide suo madre, con un indosso un cappotto aperto, un berretto in mano, agitata. Le aprì subito e, prima che potesse richiudere la porta, la sorresse tra le braccia per evitare che cadesse.

Perdonami se ho fatto irruzione così. Era pure possibile che tu l’aereo l’avessi perso… sei sempre quello che arriva all’ultimo minuto… e che fossi rimasto in quell’aeroporto.

La aiutò ad arrivare fino al divano e le chiese, tra i singhiozzi, se voleva un bicchiere d’acqua.

Qualcosa di più forte, un goccio di quella grappa di tuo papà.

Le porse il bicchierino e vide come se lo trangugiò in sol colpo. Le si sedette accanto, sprofondando il mento nel petto, e lei gli posò un braccio sulle spalle, lo tirò verso di sé e lo prese in braccio come quando era piccolo. Farfugliava qualcosa con l’animo sempre più rasserenato, ora posando gli occhi sulla sua testa, ora avvertendo il suo sguardo rivolto al soffitto:

Che bello che sei a casa.




Traduzione e cura di Mauro Barindi
(n. 7-8, luglio-agosto 2022, anno XII)