Da un Papahagi riformatore allo «scibile marianesco»

Un altro Marian

Italianista e romanista, critico letterario e filologo, traduttore raffinato e versatile, Marian è stato e resta una delle personalità più vivaci e affascinanti nel quadro della cultura rumena di fine ventesimo secolo. Oggi, però vorrei parlare del Marian organizzatore e riformatore, della sua immensa attività nel campo della ri-organizzazione culturale del suo paese. La sua vocazione di autentico fondatore, o meglio come si direbbe in rumeno, de ctitor, ha cominciato a manifestarla presto, quando ancora studente a Cluj è tra i fondatori del cenacolo Echinox e della rivista Echinox, tuttora presenza di rilievo nella cultura rumena odierna.
Questa sua capacità non solo di impegnarsi personalmente in modo appassionato, ma anche di catalizzare intorno a sé le energie e gli entusiasmi di compagni di studio dapprima e giovani collaboratori poi, resta il suo tratto distintivo. Negli anni tristi e bui che precedono l’esplosione del 1989, la sua vis organizzativa si manifesta nel campo accademico: lo troviamo giovanissimo coordinatore  - con Zaciu e Sasu - del Dizionario degli Scrittori Rumeni apparso nel 1978, ma lo troviamo soprattutto come ideatore e ispiratore del grande Dizionario degli Scrittori Rumeni che solo dopo il cambiamento di regime potrà essere faticosamente pubblicato. Anche in questo caso la sua energia e la sua straordinaria capacità di organizzatore si impongono nel 1982 quando con Zaciu, suo professore, e Aurel Sasu, suo collega,  insieme a un manipolo di collaboratori progetta il grande dizionario destinato a presentare «nella sua integralità la letteratura rumena». Per anni, Marian, vero motore e ideatore dell’impresa, dirige un autentico cantiere critico-scientifico ospitato principalmente a casa sua che diventa così la sede quasi clandestina dell’opera gigantesca. Un’opera che, inutile dirlo, trova in lui l’artefice primo, l’organizzatore pratico e infine il realizzatore.
L’atmosfera sempre più pesante non ferma l’energia di Marian, anzi! Quando il dicembre ’89 viene a travolgere  e stravolgere il mondo rumeno, come primo risultato Marian diventa vice ministro dell’insegnamento e prorettore dell’Università di Cluj. Le cariche sono per lui non solo un riconoscimento del suo valore e della sua attività nel corso degli anni, ma anche e soprattutto uno stimolo a realizzare piani e progetti che dentro di sé covava da molto tempo. Così, ha tentato una riforma della vita universitaria rumena, elaborando un innovatore progetto di legge sull’autonomia universitaria. Ma era un innovatore troppo avanzato per il suo tempo e soprattutto per l’ambiente in cui doveva operare. Così, dopo pochi mesi, deluso si arrende alle opposizioni e lascia la carica, per pensare ora innanzi tutto alla sua Università. Come prorettore è non meno attivo e rivoluzionario, capace, questa volta sì, di dare una scossa fondamentale al suo ateneo. Per prima cosa, trasforma l’italianistica di Cluj, creando un dipartimento di lingue e letterature romanze, sul modello di quello in cui aveva studiato e si era laureato alla Sapienza; ha dato una svolta europeistica all’insegnamento e alla ricerca , aprendo e coordinando numerosi programmi scientifici internazionali di ricerca e di didattica Tempus  grazie a cui si è intessuta una fitta rete di scambi con i più importanti atenei europei. Ha così dato il via a un nuovo modo di concepire didattica e ricerca, consentendo ai docenti e agli studenti rumeni di frequentare le università europee e fare l’esperienza di nuovi sistemi di insegnamento; ai nostri studenti di venire a contatto con colleghi per i quali l’accesso all’università prevedeva un’ammissione duramente selettiva, da noi del tutto sconosciuta! Si è creato un intreccio di relazioni e amicizie che hanno segnato i rapporti fra docenti e studenti, caratterizzandoli sulla base di esperienze che hanno cambiato per sempre il reciproco modo di rapportarsi gli uni agli altri. E anche questa intensa attività internazionale deve a Marian il suo motore pieno di entusiasmo e la diffusione della cultura rumena in ambiti sempre più ampi e ricercati.
Questa immensa attività prioritariamente didattica si abbina ad un altro incredibile numero di “imprese” che si ricollegano alle attività più giovanili. Così, nel 1990, muovendo dalla rivista, fonda e dirige la casa editrice Echinox tuttora di primo piano nel mondo clujeano; la riorganizzazione della cattedra in dipartimento di lingue e letterature romanze viene accompagnata dalla creazione di un interessante e promettente Centro di Analisi del Testo, nato dalle sue esperienze scientifiche in  Francia; nel 1997  dirige la rivista di Studi italo-romeni che si affianca al progetto di Enciclopedia delle relazioni culturali italo-romene, iniziative  queste rimaste purtroppo ai primi passi. E mentre riesce a organizzare e a far girare come in un vortice tutte queste sue attività, continua la “normale” attività didattica, quella di critico ed esegeta, lasciandosi fra tutto questo il tempo di tradurre la Divina Commedia!
Nell’autunno del 1997, la sua portentosa e febbrile capacità di “fare” giunge al suo acme: viene nominato direttore dell’Accademia di Romania a Roma. La possibilità di riattivare la gloriosa istituzione creata da Pârvan dopo i decenni di silenzio o di attività scadente piegata alla politica più deteriore gli consente di dare un’altra prova delle sue straordinarie capacità organizzative. Finalmente di nuovo e stabilmente a Roma, in pochi mesi recupera un pubblico qualificato che attrae alle iniziative dell’Accademia grazie al suo carisma non meno che alle sue straordinarie competenze come italianista, critico letterario e filologo, traduttore. Ancora una volta, la sua straordinaria capacità organizzativa dà i frutti sperati: la riapertura dell’Accademia si completa con la riattualizzazione della Scuola grazie all’invio dei primi borsisti che rinnovano i fasti dei grandi borsisti del passato. Ma la lotta contro la burocrazia questa volta ha il sopravvento e nello scontro con le autorità per riuscire ad attivare effettivamente i corsi, Marian è vinto, lasciando però un’eredità che prosegue nel suo nome.

Luisa Valmarin




Il ricordo di una ‘lectoriță’ di lingua e letteratura italiana

A venti anni dalla scomparsa del professor Marian Papahagi, si intitolava l’incontro-omaggio organizzato dall’Accademia di Romania in Roma l’8 marzo di quest’anno per ricordarlo. Seduta tra il pubblico, ho ascoltato persone che conosco da tanti anni, alcune delle quali non solo conoscenti o amici, ma veri e propri punti di riferimento per la mia formazione e ricerca, raccontare momenti, episodi, aspetti, (s)fortune della vita e della figura di colui che sempre più, col passare del tempo, ci appare come un maestro. Non è solo «dell'insigne italianista, professore universitario, critico letterario e traduttore, personalità di spicco del mondo accademico europeo del XX secolo», del «professore ordinario di Letteratura Italiana e di Filologia Romanza (1973-1999) presso la Facoltà di Lettere dell’Università Babeș-Bolyai di Cluj-Napoca, dove ha fondato, nel 1994, la Cattedra di Lingue e Letterature Romanze; Prorettore (1990-1992) dell’Università Babeş-Bolyai; Sottosegretario di Stato (agosto 1990-gennaio 1991) presso il Ministero dell’Educazione Nazionale; Direttore dell’Accademia di Romania in Roma (dicembre 1997-gennaio 1999)» che si è parlato in quella sera di marzo, come recitava l’invito all’incontro, ma di un uomo che ha saputo dare nella sua troppo breve vita frutti fecondi che continuano a germogliare attraverso la sua famiglia, i suoi colleghi, i suoi allievi, i suoi amici e attraverso le importanti iniziative avviate, come le borse «Vasile Pârvan»,  oppure solo progettate ma da altri riprese e portante avanti, perché Marian non aveva fatto in tempo a dar inizio ad esse lui stesso.
Nel corso dell’incontro, si è parlato anche del Marian dantista e della sua precocemente interrotta traduzione dell’Inferno, pubblicata postuma nel 2012 grazie alla cura di Mira Mocan, così come del suo lavoro tenace (una tenacia morale e pragmatica) teso a ricostruire, a (ri)creare quelle istituzioni di stampo europeo che il comunismo di stampo orientale aveva svuotato della loro anima o eliminato, distrutto. Due elementi che, plasticamente, mostrano come in Marian Papahagi si integrassero lo studioso e l’uomo di Stato, quest’ultimo inteso in un senso che oggi – impegnati come siamo a muoverci spesso tra le rovine della politica e della morale – ci rimanda nuovamente e nostalgicamente a una dimensione pratica ed etica dell’essere cittadini, ciascuno con la e nella propria vocazione e opera, di cui continua ad esserci, e sempre più ce n’è, bisogno.

Dal 1992 al 1995, nella Romania che si stava riprendendo a fatica dall’incubo ceaușista e dalle sorprese a volte traumatiche della nuova realtà post-‘rivoluzionaria’, per circa tre anni ho lavorato come ‘lectoriță’ di lingua e letteratura italiana presso il Dipartimento di Lingue Romanze di Cluj, Cattedra di Italiano, con Marian Papahagi. Il mio ricordo più personale è quello di uno sguardo dai grandi occhi fisso sull’interlocutore e attento, mentre contemporaneamente (così l’ho sempre immaginato) miriadi di nuovi compiti, progetti, incontri, soluzioni a problemi, problemi nella soluzione si intersecavano nella sua mente. Un uomo pratico che si dava senza risparmiarsi a ciò che lo appassionava e a ciò che riteneva fosse un impegno senza possibili deroghe. Passioni personali come la ricerca, lo studio, la traduzione, impegni senza possibili deroghe spesso destinati in primis ad un interesse collettivo, comunitario – la passione personale e la passione civile.
Marian Papahagi ha sempre rappresentato per me la famosa eccezione che conferma la regola, almeno rispetto a un noto detto rumeno che si riferisce a chi proclama tanto e poi fa poco o nulla, cammina con fatica e tende ad affogare in un bicchier d’acqua. Questo detto («Teoria ca teoria, dar practica ne omoară») ha una forza molto più plastica del nostro italico «Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare». Il mare esistente tra la teoria e la pratica che fa affondare tanti di noi, rumeni e non, Marian sembrava attraversarlo su una barca tutta speciale. Il suo modo di affrontare le cose, di vivere i tanti compiti – alcuni molto impegnativi, pesanti – che si era assunto e continuava ad assumersi era così «leggero» che mi chiedevo se non avesse una valigia nella quale infilava tutte le preoccupazioni, le ansie e le angosce e che tirava fuori solamente quando non c’era nessuno o quand’era con persone a lui profondamente care ed intime. Senz’altro tanta forza gli veniva in gran parte dalla famiglia, da Lucia, una moglie affettuosa e intelligente che si assumeva un sostanzioso carico del quotidiano casalingo e burocratico. La famiglia – almeno dalla luce che gli illuminava lo sguardo quando ne parlava – è stata per Marian una grande fonte di gioia, oltre che delle normali preoccupazioni e responsabilità.
Marian certo non era perfetto, sovrumano, illimitatamente «buono»: ha avuto con me e con altri discussioni anche accese, al termine delle quali ci si sentiva comunque amareggiati. Discussioni che nascevano spesso perché teneva innanzitutto dinanzi a sé l’imperativo categorico della professionalità, della correttezza, dell’otium non ozioso. Talvolta invece perché era umano, e magari gli arrivavano informazioni sbagliate che accendevano la miccia del suo carattere passionale – il lato oscuro della passione! – oppure perché aveva pregiudizi e paure come tutti noi, o infine semplicemente perché era stanco, arrabbiato, scocciato, travolto dalla gigantesca struttura di quanto andava creando e in cui tendeva a coinvolgere chi lavorasse con lui, con il desiderio e nella speranza di intrecciare idealmente e concretamente dalla piccola, grande Cluj la cultura rumena a quella italiana, innanzitutto (un amore non sempre corrisposto da parte italiana, purtroppo, almeno a livello burocratico), e a quella spagnola, portoghese... e chissà quali altre frontiere avrebbe voluto o potuto varcare.
Marian Papahagi era uno studioso e un professore, un profondo filologo e paziente traduttore, un uomo di cultura nel senso vero e amplissimo del termine, dinanzi al quale ci si poteva  rischiare di sentire intellettualmente e scientificamente sempre troppi passi indietro. Il mio ricordo è questo, di una persona la cui semplicità non riusciva a nascondere la grandezza e profondità intellettuale, ma  anche quello del Marian che sapeva sciogliere con una battuta o con un sorriso tutta la sua conoscenza, il suo «scibile marianesco» che diventava così non sterile sapere, buono per arricchire una biblioteca o la bibliografia di un corso universitario, bensì luogo di incontro in cui sentirsi persone e poter crescere.
Quando una persona come Marian scompare troppo presto, si tratta di una perdita che man mano che il tempo passa diventa più netta e acuta, più grande. Una perdita che ci fa sentire molto più poveri e ci fanno chiedere da dove spunterà – se spunterà - qualcuno che abbia la capacità, la forza, il talento e la fantasia per svolgere il lavoro che, fatto da loro, appariva a uno sguardo superficiale «semplice», leggero appunto, e che invece ora sappiamo essere stato puntiglioso, faticoso, continuo e totale. Anche per questo è importante e un po’ ci consola, nella malinconia dell’assenza, vedere come nello speciale «luogo di Marian» dove googlemaps non può arrivare, là, dove la sua immensa cultura e la sua passionale persona sapevano incontrare l’altro, qualcosa, molto rimane e prosegue, oltre il tempo. Continua nei suoi allievi, nei suoi eredi, in tutti coloro che in modo diverso fanno oggi vivere non solo idealmente, bensì molto concretamente le speranze - eredità feconda di un uomo che ha amato la cultura rumena ed europea, il suo Paese, ha seminato idee e realtà che si sono radicate nel tempo attraverso le persone di cui è stato amico, maestro.


Cinzia Franchi











(n. 10, ottobre 2019, anno IX)