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Una ragazza troppo speciale
Ho la certezza che ogni emigrante porta con sé una storia che spesso non è allegra. Nessuno andrebbe via dal proprio paese, dal luogo dove restano per sempre le proprie radici, se non costretto da qualche cosa, spesso una cosa dolorosa. Tutte le storie degli emigranti hanno una buona dose di tristezza, ma una storia che ho conosciuto cinque anni fa, di una mia ex alunna ormai, sembra superare anche la più fervida immaginazione.
L’ho conosciuta quando aveva 14 anni. Ero appena stata assunta in un progetto di insegnamento di Lingua, cultura e civiltà romena e, con il mio primo gruppo di alunni dell’Istituto di Istruzione Superiore Carlo e Nello Rosselli di Aprilia, avevo fatto un gioco con delle domande che mi dovevano permettere di conoscere gli alunni appena iscritti al corso, ma anche di farli conoscere tra loro, far crollare le barriere che potevano esserci, legate alla timidezza, alle tante insicurezze che un giovane della loro età può avere.
Il gioco doveva essere tranquillo, ma così non è stato, perché ho fatto una domanda sbagliata a una ragazza bellissima, felice e sorridente in apparenza. Le ho fatto una domanda sui genitori, ma lei i genitori non ce li aveva più... Sul suo viso è apparsa un’ombra di tristezza, ma è stata subito nascosta sotto un sorriso carino, senza tracce di rabbia. In realtà, ero me stessa che odiavo in quel momento. Come mai ero stata così insensibile dal non riuscire a leggere nell’animo di questa ragazza e come mai avevo potuto infierire là dove non avrei dovuto nemmeno sfiorare il tema familiare? Non me lo potevo perdonare e continuo ancora oggi a non capire e a rimproverarmi…
Un attimo di imbarazzo e un secondo di silenzio gelido hanno fatto seguito alla mia domanda, dopo di che la ragazza sorridente ha risposto abbastanza naturalmente, affermando semplicemente e senza far notare nessun disagio che lei i genitori non ce li aveva più. E ha finito la risposta con un altro sorriso, ugualmente pieno… di perdono.
Se in quel momento il cielo fosse potuto cadere sulla testa di qualcuno con tutta la pesantezza delle nuvole piene di pioggia, di tuoni e di fulmini atroci, allora sarebbe dovuto cadere sulla mia, ma non è successo. Però quel giorno ho imparato una bella lezione, una lezione che pensavo già di sapere, cioè quella di conoscere una persona solo in base ai sorrisi che sfodera, e di fare delle domande con più cautela. Ho imparato poi, pian piano, conoscendo meglio la ragazza e facendole scaricare il peso del suo crudele destino, che le persone più sorridenti non sono le persone a cui la vita ha sorriso, ma quelle che sono passate nel suo inferno e da lì sono rinate più forti. Ho imparato che le persone che sanno curare le proprie ferite sono le stesse che hanno patito immense sofferenze, riuscendo alla fine a superarle.
Certo, per fortuna il mio corso non si è fermato con la mia domanda inopportuna, e andando avanti mi ha dato la possibilità di rimediare all’errore che avevo commesso. Per la bella ragazza il corso è stato comunque una salvezza e credo proprio di non esagerare dicendo questo perché lei, arrivata in Italia solo alla fine del mese di giugno, non si era ancora impossessata della lingua del paese in cui avrebbe dovuto studiare da settembre.
Era una gioia per Diana poter partecipare a un corso in cui poteva parlare nella sua lingua, ma anche in cui poteva conoscere altri ragazzi della sua nazionalità con cui fare amicizie, a cui chiedere informazioni e consigli così necessari nella sua situazione. Credo anche… che abbia conosciuto un’insegnante che aveva intuito il suo disagio, il suo bisogno di comunicare e di essere ascoltata e capita.
Ogni volta che andavo nella sua scuola per fare il corso, era sempre la prima ad arrivare e, aspettando gli altri, avevamo un po’ di tempo per fare una chiacchierata, per poter ascoltare il racconto della sua vita un pezzetto per volta, che si è composto come un puzzle alla fine. Ho provato a rimettere insieme secondo un ordine cronologico tutte le tessere di questo puzzle, il cui risultato alla fine non smette ancora di sorprendermi. Mi chiedo ancora come sia possibile che la vita di una persona sia così tormentata già a 14 anni, quando non ha ancora messo bene il piede sul cammino della vita…
I problemi sono arrivati nella sua vita come macigni che qualcuno caricava sulle sue spalle senza mai chiedersi se ce l’avrebbe fatta a trasportarli, se non sarebbe crollata sotto il loro peso, se non le avrebbero fatto del male cadendole addosso…
Un’immagine di cui lei si ricordava bene, probabilmente una tra le prime, se non la prima, perché aveva intorno ai tre anni, è stata quella in cui lei, impaurita, aveva aperto la porta di casa perché era sola, i suoi genitori erano spariti, e aveva sentito dei rumori fuori. Vide con orrore il padre che minacciava la madre con un’ascia sul ceppo di legno dove tagliava di solito la legna.
Dopo non tanto tempo, quando Diana aveva soltanto quattro anni, succede una cosa terribile: suo padre accoltella la madre uccidendola, cosa che ancora oggi non ha capito con certezza come sia potuta succedere, né è riuscita mai ad avere una risposta da suo padre.
Cosa può provare una bambina così piccola e indifesa quando le muore la madre, sapendo che non la rivedrà mai più e che non sarà consolata nemmeno dal padre che, come punizione per il delitto commesso, sarebbe stato in prigione per otto lunghi anni? Una domanda a cui solo lei potrebbe provare a rispondere, ma dal momento che non le ho mai voluto fare un’altra domanda che la ferisse in qualche modo, ho soltanto indovinato i dolori e le possibili emozioni dei suoi stati d’animo dai frammenti del suo racconto, dai suoi sguardi, dai suoi silenzi e dai suoi sorrisi.
Gli otto anni in cui il padre è stato in prigione li ha passati con i nonni paterni, ma sono stati lunghi, pieni di interrogativi a cui a volte qualcuno rispondeva, ma le risposte erano molto diverse e raccontavano degli scenari molto contrastanti fra loro legati alla morte della sua cara madre. Le rimaneva la speranza che un giorno, quando il padre sarebbe tornato a casa, le avrebbe chiarito tutto l’accaduto. Se la sarebbe fatta bastare, per il momento.
Otto lunghissimi anni sono passati, Diana è cresciuta con i nonni a cui si era affezionata moltissimo, ma, nel dicembre del 2012, il padre viene scarcerato, e lei torna a vivere con lui. Dopo un po’ di tempo, Diana inizia a sentirsi male e spesso la spostano da un ospedale all’altro, fino a quando, nel dicembre del 2013, subisce un intervento, alla fine si ristabilisce e la riportano a casa. Pensava di avere finito il suo calvario, ma era soltanto l’inizio.
Dopo solo otto giorni dal suo rientro, la nonna paterna a cui lei era molto affezionata muore per un attacco cerebrale. La sua morte, le domande di Diana hanno portato suo padre a commettere ben cinque tentativi di suicidio e alla fine, con l’ultimo, ottiene ciò che si era proposto. Dopo soltanto due settimane dalla morte della nonna, dovrà salutare per l’ultima volta anche il padre, che aveva sulla coscienza qualche domanda di troppo, senza la cui risposta sarebbe vissuto senza grandi problemi, come aveva fatto fino ad allora.
Era nell’ultima classe delle medie quando il papà si è suicidato e siccome la nonna non c’era più, per farle finire l’anno scolastico in tempo, una zia, sorella della madre, la porta con sé, in città, con la promessa che un’altra zia materna l’avrebbe presa con sé una volta finite le medie, per evitare che venisse affidata a una casa-famiglia.
Molto presto, a marzo, Diana soffre per un’altra perdita, muore un’altra persona cara, suo nonno paterno, e lei deve raccogliere tutte le forze che le erano rimaste ancora per poter finire le medie, e superare l’esame che era piuttosto impegnativo e per il quale si doveva preparare più degli altri, visto che per i suoi problemi di salute e per i suoi numerosi problemi familiari era mancata un bel po’ da scuola.
In mezzo a tutti i suoi problemi, la ragazza riesce a superare l’esame delle medie e un’altra zia, sorella della madre, che viveva in Italia, sposata e con un figlio piccolino, le chiede se le sarebbe piaciuto andare vivere da lei. E così Diana arriva in Italia.
L’inizio del liceo sarà ancora abbastanza scioccante, perché si ritrova in un cortile pieno di ragazzi che non conosceva, che parlavano una lingua che lei non riusciva a capire quasi per niente, e tutto ciò, insieme alla marea di cose nuove a cui si doveva abituare in fretta, la spaventava non poco.
Più o meno in queste condizioni ci siamo incrociate nel cammino della nostra vita e spero di avere contribuito in qualche modo alla sua ‘rinascita’. Diana è sempre la stessa ragazza solare, ha finito nel frattempo il liceo senza problemi e ha superato l’esame di maturità, ma ha scelto di lavorare subito, probabilmente per un suo desiderio d’indipendenza economica. Vorrebbe continuare a studiare l’anno prossimo, e spero tanto lo faccia, e le ho promesso di starle vicino e di darle il mio appoggio. Sogna di diventare infermiera. Lei, che ha sofferto e che ha visto soffrire le persone a lei più care, aspira ad aiutare le persone bisognose.
Mi sono sempre detta che nella vita ogni persona riceve un mucchio di belle cose, ma anche di brutte, e siccome a lei erano capitate fin dall’inizio tante cose brutte, per logica gliene dovevano succedere da quel momento in poi altrettante di belle. Lo spero proprio, perché se c’è una ragazza che se lo merita, è certamente lei, Diana, una ragazza che ha affrontato tutto nella vita con il sorriso sulle labbra, che ha perdonato tutto e tutti, una ragazza che non ha altro desiderio se non quello di aiutare gli altri.
Lucia Ileana Pop
(n. 4, aprile 2021, anno XI)
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