|
|
Genova, La Superba e il Superbarocco
«Con quella faccia un po’così/ Quell’espressione un po’così/ Che abbiamo noi/ Che abbiamo noi visto Genova». La canzone di Paolo Conte mi risuona nella testa mentre il treno lascia la pianura e s’avventa nelle viscere delle colline con una meta precisa – il mare, lo sbocco, il sole tra gli ulivi. Se ci penso a Genova mi viene in mente la Lanterna, simbolo della città, punto fisso nella geografia reale e immaginaria della Superba. L’ultimo tunnel ed ecco Genova: una buganvillea color fucsia si arrampica sul muretto che delimita la stazione di Genova alta, che si vede lì, sempre più verso il cielo blu. Davanti alla stazione un’edicola, le palme, un sole che picchia duro dritto in faccia e l’amico che mi aspetta, Lauro Grassi, ricercatore dell’Università Statale di Milano e storico dell’Europa Orientale, conosciuto all’inizio degli anni Novanta all’Università di Bucarest, dove era presente come invitato ai corsi di storia moderna per arricchire i contenuti con la sua vasta cultura. Accanto alla stazione si trova l’albergo «Vittoria», punto stabile e pied-à-terre del professor Grassi a Genova. Si prosegue su via Balbi e butto un occhio di sfuggita al Palazzo Reale, ma solo così come un salutino per andare poi dritta verso il Palazzo Ducale. Una doverosa entrata alla chiesa dell’Annunziata, sfarzosa, con una scalinata degna di un tempio antico, uno sguardo fugace al Palazzo Lauro (in memoria a Lauro Sauri), dopodiché imbocco via Cairoli, seguo la strada verso via Garibaldi, passo tra alcuni Palazzi dei Rolli e vado verso la cattedrale di San Lorenzo e arrivo al Palazzo Ducale.
Dentro c’è la mostra La forma della meraviglia (1600-1750) – catalogo di Jonathan Bober, Pietro Boccardo, Franco Boggero (SAGEP editori, marzo 2022), tappa necessaria e doverosa della mia visita a Genova. La maraviglia, come dicevano gli antichi toscani. Il barocco genovese è tutto lì. Cinquanta opere tra le più significative in una mostra tra 27 marzo al 10 luglio. La prima sala mi accoglie con le opere di Giovanni Battista Paggi – la Madonna col Bambino e san Giovannino, di certa influenza raffaellesca, ma con un secondo piano dove s’intravede una capanna contadina che ricorda i quadri di Jacopo Da Ponte detto Jacopo Bassano e il realismo caravaggesco. Segue l’Approntamento delle frecce di Cupido (Figura 1) tratto da Virgilio e l’Eneide. Quest’ultima opera è un sapiente incrocio di diagonali che focalizzano il centro del quadro – la punta della freccia di Cupido. L’armonia è data dalla mano sinistra della Madonna in parallelismo con il piede sinistro di Cupido, dalla luce che cade dall’alto, materializza le carni e dà vita alle figure.
Approntamento delle frecce di Cupido (Figura 1)
L’ambiente genovese entra in contatto economico e artistico con i fiamminghi. Pieter Paul Rubens è uno dei grandi artisti del Nord che si soffermò a Genova. Ne è prova la Circoncisione (Figura 2) della Chiesa di Gesù opera di grande patos che influenzò il mondo italico. Il rabbino a destra con la sua figura serpentinata ricorda il manierismo e il «furore divino»; Gesù è un bimbo batuffoloso, Madonna gira la testa per non vedere il taglio con premurosità materna; al centro dell’opera c’è lei, la bionda rubensiana, con le guance rossicce con la testa rivolta in alto in estasi, guardando a un groviglio d’angioletti inquadrati da altre due figure angeliche con gesti pieni di fervore teatrale che indicano la luce divina discesa dall’alto per illuminare il quadro e non per ultimo noi, gli spettatori che lo ammirano. L’unico che ci guarda è un bimbo (forse San Giovanni Battista da bambino) in basso a sinistra, con riccioli dorati che gli scorrono dalla testa e occhi da cerbiatto che ricordano certe figure del Parmigianino. Tra il registro divino, in alto e il mondo in basso, spunta un cielo al tramonto dalle nuvole inquietanti che richiamano i cristiani alla penitenza.
Circoncisione (Figura 2)
Un altro fiammingo arriva a Genova e la pittura locale risentì per più d’un secolo la sua influenza. È Antoon Van Dyck, il miglior allievo di Rubens, presente nella mostra con i ritratti di due rampolli genovesi – Filippo Cattaneo (Figura 3) e Maddalena (Figura 4) e frontispizio del catalogo «genovese» del Superbarocco), la sua sorellina. Si potrebbe scrivere un romanzo sui due rampolli per quanto sono belli, realistici e commoventi. Lui, con la manina sull’anca guarda dritto verso il pittore e verso di noi, con l’area spavalda di uno che sa che la fortuna l’ha baciato in fronte dalla nascita e non gli rimane che dimostrarla. La posa a tre quarti, con gli abiti da adulto in miniatura (prova della vita dei bambini dell’aristocrazia privati della loro fanciullezza per adempiere i doveri), le calze lucenti d’orate, il costume prezioso e il colletto da crostata merlettata che si abbina a «meraviglia» con il cagnetto mansueto tenuto al guinzaglio con mano ferma, simbolo di fedeltà, che segue il piccolo padrone. L’oro della trama del damasco, le zampette del cagnetto, la faccia di un bianco fragore e la manina conficcata per la messa in posa del piccolo aristocratico sono le uniche macchie di biancore. Il resto è uno sfondo marrone scuro, grande trovata degli esperti nell’arte del ritratto, per esaltare la figura e farci concentrare su di essa. La bimba è letteralmente una bambola e questo non è sfuggito agli autori del catalogo. Tiene in mano una mela, come una piccola Pomona che fa la promessa di tramandare la stirpe e il casato. I ritratti sono un en pendant e provengono dalla Washington Gallery of Art, collezione Widener. Lei è solo seta lucente e un grembiule di tulle o di lino fine, da cui sbocca una scarpetta bianca da Cenerentola ante literam. Le mani tengono stretto il frutto e gli occhietti neri sgranati guardano un po’ in basso a destra, come si conviene a una signorina docile ed educata. I boccoli biondi inquadrano un viso tondo e dalla carnagione bianca, come il fratellino, ma ha l’aria dimessa, destino delle donne del Settecento, pur se nobili e ricche. La piccola Maddalena è l’immagine dell’innocenza, ma anche un momento massimo della ritrattistica europea.
Ritratto di Filippo Cattaneo (Figura 3)
Ritratto di Maddalena Cattaneo (Figura 4)
Il realismo del ritratto dei piccoli Cattaneo ha lasciato un tratto indelebile a Genova. Giovanni Bernardo Carbone riprende la tradizione di Van Dyck e raffigura Battista Chiavari e Banetta Raggi in un giardino (Figura 5), due bimbi promessi sposi adornati dalla doverosa simbolistica. Lei, dal pappagallo ai piedi per indicare la promessa sposa, con le rose di Venere in ghirlanda accanto e con un fiore d’arancio che dona al suo futuro sposo. Lui, vestito di tutto punto, con la cravatta annodata alla francese, con le calze rosse e il cappello in mano, ma con l’altra manina conficcata nell’anca esattamente uguale a Filippo Cattaneo del ritratto firmato da Van Dyck. Accanto il vaso con i tulipani, fiori estremamente costosi nel Seicento, segno della smisurata ricchezza.
Battista Chiavari e Banetta Raggi in un giardino (Figura 5)
Della mostra, impressionanti sono anche i ritratti dei tre dogi: Gregorio de Ferrari – che ritrae Francesco Maria Sauli (Figura 6) citando Van Dyck e il suo Agostino Pallavicino in veste di ambasciatore presso papa Gregorio XV, Domenico Paradi che raffigura l’omonimo Domenico Maria de Mari in veste di doge e Giovanni Maria delle Pianne che dipinge Francesco Maria Imperiale in veste di doge (Figura 7) che riprende il ritratto del Re Sole fatto da Hyacinthe. Di questi tre ritratti ufficiali dei dogi si possono scrivere tante cose, dall’analisi stilistica dei quadri, ai paragoni con i capolavori di Van Dyck e Rigaud. Spuntano subito due aspetti inediti che li accomunano: i gesti delle mani, femminee, addobbate d’anelli, colte nell’atto dell’arringa di un presunto processo della Storia, mani teatrali e piene di fascino; il secondo elemento che mi incuriosisce assai sono le scarpe, degne di essere studiate dai designer della Riviera del Brenta dell’industria calzaturiera, rosse come le tuniche, imporporate, con tacchi, fiocchi e fibbie, un’esplosione di fantasia. I tre ritratti, a mio modesto parere, sono il simbolo del barocchetto genovese, lontano dal Barocco classico romano, più ancorato nel celebrare le potenze locali legate alla Francia del Settecento che alla Spagna Seicentesca.
Francesco Maria Sauli (Figura 6)
Francesco Maria Imperiale in veste di doge (Figura 7)
E finiamo in bellezza con Alessandro Magnasco e L’imbarco dei galeotti nel porto di Genova (Figura 8). Vi capeggia quale simbolo della città la Lanterna, visibile in alto a destra, con il porto e le navi su cui sono spinti i galeotti (il termine carcerario ha origine in questa condizione di schiavitù). Sotto la maestosità della Lanterna un mondo infernale, dantesco, s’intrecciano i galeotti con drammaticità, tra le catene e gli strumenti della tortura delle carceri (altro soggetto amato alla fine del Settecento da un veneto che soggiornava in pianta stabile a Roma, Gianbattista Piranesi). Un cielo plumbeo sopra i corpi umani nudi e provati, che si tirano, fremono, si azzuffano senza pietà. Una pennellata di bianco esalta qua e là, un braccio, una cerchia d’una catena, una increspatura delle onde (tecnica imparata dai veneti, da Tiziano che colora con tocchi di pennello i merletti delle sue serenissime e dai vedutisti, da Canaletto e da Guardi che usano la stessa tecnica per ricreare il movimento delle onde della Laguna). L’influenza romana di Magnasco è forte e sta nei gesti dei personaggi che lottano come in una scena di bamboccianti, con animale ferocia.
L’imbarco dei galeotti nel porto di Genova (Figura 8)
E mi risuona nelle orecchie la canzone di Paolo Conte: «Macaia, scimmia di, luce e di /follia/Foschia, pesci, Africa, sonno, /Nausea, fantasia/». Esco da Palazzo Ducale come da un mondo delle meraviglie, «con passi tardi e lenti», come direbbe Petrarca e mi incanalo verso la via del Campo per dare il doveroso saluto al cantautore che meglio ha rappresentato Genova – Fabrizio De André. «Via del Campo, c'è una bambina/Con le labbra color rugiada/Gli occhi grigi come la strada/Nascon fiori dove cammina». La strada del via del campo è veramente grigia, fatta con le lastre d’ardesia locale. Il poeta non usava una metafora; un’altra inconfutabile prova del fatto che la realtà supera la finzione, ma non riduce la meraviglia.
A Roma, alle Scuderie del Quirinale, nello stesso arco di tempo c’era un’altra mostra più grande dedicata al Superbarocco, tra il 26 marzo e il 3 luglio, con un catalogo realizzato dagli stessi Jonathan Bober, Piero Boccardo, Franco Boggero (SKIRA National Gallery of Art, 2022). La Capitale è un palcoscenico internazionale anche per il barocco genovese; chi non avrebbe modo di visitare Genova, ma sarebbe interessato al Superbarocco, ne ha la possibilità visitando Roma, caput mundi della grande bellezza. Dovrei ritornare a Genova. Mi sono rimaste da vedere la collezione di Palazzo Spinola e del Palazzo Reale. Sarà un’occasione per ammirare i quadri e le pale d’altare che sono ritornate a casa dopo la mostra alle Scuderie del Quirinale.
Il treno riparte, imbocca subito una galleria e si lascia dietro la città avvolta nella luce del Mar Ligure. Ripasso nella mente i quadri della mostra, le chiese della città, il castello D’Albertis con il Museo etnografico dei popoli del mondo, il Museo Galata (lo stesso nome di un famoso quartiere istanbuliota, segno dei mercanti genovesi presso la Sublime Porta), il più grande museo della Navigazione d’Europa, dove un intero piano è dedicato alla storia dell’emigrazione, che partiva verso le Americhe proprio da lì, da Genova, con le immagini del sogno infranto della nave di lusso «Andrea Doria». Parto da Genova con il ricordo della Villa del Principe, l’ammiraglio Andrea Doria, adornata con gli affreschi di Perin del Vaga, ricoperta da meravigliosi arazzi di Bruxelles che raffigurano scene delle lotte navali più importanti e con il suo bel giardino all’italiana, da dove affiorano minacciose le navi da crociera che attraccano proprio a ridosso delle sue mura.
Genova, nominata nel medioevo La Superba, è Superbarocca, artisticamente parlando, ma possiamo definirla, con una parola internazionale, semplicemente Super!
Liana Corina Tucu
(n. 9, settembre 2022, anno XII)
|
|