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Alla memoria del dottore italo-romeno Livio Zanolini
Il 17 dicembre 2022 ci ha lasciato il dottor Livio Zanolini, italo-romeno rimpatriato a Padova nel 1948 dopo tre generazioni d’italiani stabiliti in Romania. Era stato per quasi trent’anni medico «della mutua» a Pontelongo, un comune nei dintorni di Padova, dove ha curato e salvato vite, ma soprattutto ha formato coscienze e forgiato pensieri liberali, ha dato l’esempio di solidarietà verso i profughi romeni, verso gli italiani non assicurati dalla mutua a quel tempo, quando la sanità non era quella di oggi e ha prestato gratuitamente servizi agli zingari o rom che dir si voglia, eterni viandanti di cultura e di spirito, così amati da suo padre e poi da lui.
Livio è stato una memoria vivente, un patrimonio di canzoni interbelliche romene, di un romeno non intasato dalla lingua «di legno» dell’ideologia comunista, è un italiano di nome ma profondamente attaccato alla Romania che amava senza mai odiare e ne aveva i motivi, in quanto hanno perso tutto non rinunciando alla cittadinanza e rimpatriandosi prima che la Cortina di ferro cadesse sull’Est. La porta di Livio era sempre aperta. A me piaceva, caso unico nel mio comportamento e che adoperavo solo con lui, di arrivare all’improvviso, senza telefonare, così, come arrivare in famiglia. Lui mi apriva la porta grande, quella delle macchine e mi invitava in casa per prendere qualcosa e per mangiare se volevo. Sempre, come un padre, mi chiedeva prima di tutto se avessi mangiato, e soltanto dopo di come andassero le cose, la mia vita, i miei sogni. Mi stimava per non aver mollato l’Italia alle prime difficoltà e di non essere ritornata in Romania quando è stato davvero pesante per me; mi ha sempre detto che, se non ce l’avessi fatta, da lui ci sarebbe sempre stato un posto dove stare. Era stato un profugo pure lui, ma non ha mai dimenticato di appoggiare gli altri. Non ho approfittato della sua gentilezza, ma mi ha fatto immensamente bene psicologicamente sapere che, se non ce l’avessi fatta, c’era un tetto lì, da Livio, dove ripararmi.
In passato avevo scritto un articolo su di Livio dove lo descrivevo come «l’ultimo mohicano, figlio di due Patrie sorelle, ma così diverse…» Fu pubblicato in una rivista multiculturale, «Europa», diretta da Pavel Gătăianțu, della Serbia (Voivodina) [1]. L’articolo era in romeno, visto che era il romeno la lingua nella quale appariva la rivista, ma adesso che Livio non c’è più, ho pensato di tradurre in italiano quei pensieri miei e di riportare quella testimonianza del rimpatrio del dottor Livio Zanolini uscita in un libro sull’emigrazione veneta in Romania. Ritorniamo nel passato per risentire Livio e collateralmente anche me, nel 2009.
Era l’autunno del 1999, a ottobre precisamente. La brina aveva macchiato il bosco con ruggine al tramonto, la rugiada dell’umidità e della nebbia si posava sulla bassa pianura padana come un mantello freddo, pesante. Sul cucuzzolo di una collina, vicino a Padova, Livio vive come un patriarca in una bellissima villa circondata da un ampio e bel giardino dove coltiva frutta, l’orto, brolo, ricordi e un grande amore per la Romania. La primavera antecedente gli avevo fatto un’altra visita. Alla partenza mi accompagnò fino alla porta. Con delicatezza, con una mano passata sulla mia spalla, mi parlò della sua mamma rimpatriata nella vecchiaia che vedeva nei fiori abbondanti della primavera il corposo raccolto autunnale e diceva «avremo un ricco raccolto anche quest’autunno» e lo affermava, raccontava Livio della sua amata mamma romena, con malinconia struggente nel cuore per la Romania perduta.
La sua casa era aperta a chiunque da sempre. Un carattere vulcanico, da dottore di campagna. Quello che pensa, lo dice. Livio è uno che assapora la vita come un Dioniso; il vino pregiato – «poco, ma buono» – il cibo sano con le verdure del giardino e condito con l’olio d’oliva miracoloso – dieta mediterranea – e soprattutto, apprezza la gente. Si è circondato come un aristocratico rinascimentale da uomini colti, amici d’una vita che lui ha fatto dimorare a casa sua difendendoli dall’inverno di fuori o dalla solitudine del Mondo. Ha amato le donne: innanzitutto sua madre, che associava alla Patria perduta e alla quale pensa ogni volta quando parla della Romania; ha amato le sue tre mogli e soprattutto l’ultima – la buona e accogliente Rosi, che gli illumina il suo perpetuo presente. Le donne che non ha amato le ha tollerate senza fare alcuna eccezione: le italiane del Nord, biondine e carine, le romene in esilio con le rosse unghie laccate e le teste piene di sogni di un desiderato e prosperoso matrimonio. Il presente è il tempo che Livio vive con saggezza dall’alba, quando ulula come un lupo tra i cipressi e i meli del frutteto intorno alla casa, fino quando il sole tramonta nella generosa vigna. Era autunno, io avevo vinto una borsa di studio che però non arrivava più da Bucarest e stavo presentando al pubblico una mostra d’arte realizzata da alcuni amici miei all’Istituto «Nicolae Iorga» di Venezia. Livio, quando sentiva che erano arrivati dei nuovi artisti, veniva all’istituto con prontezza per visitare la mostra, ma soprattutto per invitare tutti nella sua villa in campagna a un ricevimento improvviso. Sono andata anch’io e ho ammirato la sua collezione d’arte contemporanea romena. Tutti i profughi passati da lì hanno lasciato qualcosa. Quella collezione era la sua vita, con ricordi e avventure, con amici, tra i quale alcuni trapassati all’aldilà, nomi importanti come lo storico dell’arte Ion Frunzetti, il grafico Marcel Chirnoagă, amici d’una vita di Livio. Mi ha chiesto dove risiedo. Si è subito offerto di aiutarmi, mi ha invitato a soggiornare preso la sua villa per il tempo che mi serviva. Uno come Livio, che riconosceva i romeni in fuga dalla dittatura soltanto dalla vista dei bidoni con benzina ancorati al tetto delle macchine scassate con le quale prendevano la via dell’esilio, ha capito in un batter d’occhio in che situazione mi trovavo. L’ho ringraziato per l’umanità di cui dava prova, ma avevo tutt’altre intenzioni, di rimanere in Italia un tempo più lungo, alcuni anni pensavo allora, vicino a Venezia che mi avevo rapito il cuore in un aprile pazzesco. Io, che non avevo mai visto i porti, mi sono lasciata sopraffare dall’odore salmastro dell’Adriatico, dalla dolcezza dei frutti di mare, dal fruscio delle vele delle barche con il vento in poppa, dal profondo respiro della Serenissima, dal rosso di Tiziano e dalla luce mistica e spenta del Tiepolo, dalle languide donne bionde con orecchini di perla del Veronese e dalle pesanti sete della città dell’Utopia di Carpaccio, da tutto questo e altro ancora io mi sentivo sedotta. Non potevo vivere nel rifugio di Livio. Mi serviva vivere in città, avere un lavoro, avevo bisogno di un’altra battaglia persa con la Vita. Tra coloro che hanno risposto di «sì» alla medesima umana proposta di Livio è stato il pittore Henry Mavrodin, che raccontava con riconoscenza il fatto in una intervista. Io ringrazio Livio di averlo conosciuto. Lui è l’ultimo dei mohicani che io ho incontrato nel mio andare per il mondo. Mi sento vicino a lui attraverso tanti sentimenti che condividiamo. Lui apparteneva a un gruppo di amici di un’altra portata, giganti che sono estinti uno a uno. Lui era l’oste di Frunzetti quando il grande critico d’arte preparava il padiglione romeno della Biennale di Venezia. Qualche tempo fa il padiglione romeno era ‘vuoto’ mentre si svolgeva una delle edizioni della Biennale. Era scritto sulla didascalia che si esponeva ‘il nulla’, cioè non c’era proprio niente esposto nello spazio romeno. Mi sono ritornati alla mente i ricordi del triste decennio degli anni ’80 quando nelle macellerie di Bucarest erano esposti nelle vetrine i gancetti per i prosciutti ma senza il prosciutto, cioè ‘il nulla’ da vendere e da mangiare. Che trovata alla romena da quattro soldi, mi sono detta vedendo ‘la bottega’ vuota del padiglione romeno di Venezia. Se fosse vissuto ancora Frunzetti, ‘il nulla’ avrebbero fatto un giro in più nel parco Cișmigiu, senza stancarsi invano di venire fino a Venezia.
Livio è un italo-romeno. Uno tra gli ultimi in vita. Una minoranza assimilata oppure scappata dalla Romania nello stesso modo in cui sono andati via i sassoni e gli svevi dalla Transilvania. Figlio di emigranti italiani in Romania, dove suo padre faceva l’impresario edile, Livio ha avuto pure lui, a sua volta, come i suoi antenati e come me, il destino dell’esule volente nolente. Ma do la parola a Livio:
«Sono nato a Bucarest il 18 gennaio 1925. Mia madre era romena e mio padre italiano, nato anche lui in Romania a Medgidia, secondo figlio di Luigi Zanolini di Aviano, in Friuli, sposato con Eugenia Gentilini di Feltre. Papà nacque nel 1895; Umberto, il fratello maggiore, nato a Cernavoda nel 1893, fu mandato a Vienna poi rientrò all’inizio della guerra a Padova dove si laureò in ingegneria, e infine si stabilì con la famiglia a Verona. Ha avuto tre figli che sono ancora in vita e risiedono a Verona; Alvise ingegnere, Giacomo avvocato e Teresa laureata in lettere. Mio padre rimpatriò per presentarsi volontario nella Prima guerra, nel 1915, con una nave passando per il Bosforo, ‘sfidando i sommergibili nemici’ come diceva un documento del Ministero della Guerra. Gli capitò anche un fatto insolito: mio padre aveva studiato a Bucarest in una scuola tedesca, in Pitar Moș (San Giuseppe), e venne trattenuto al comando dell’esercito di Villa Giusti a Padova per fare traduttore di romeno e tedesco per i prigionieri transilvani e austriaci catturati sul fronte. Dopo la guerra nel 1918 tornò in Romania a Medgidia e poi a Bucarest come impresario edile. Nel 1924 sposò Maria Georgescu e nacqui io, Livio Zanolini, nel 1925.
Ho fatto le scuole elementari alla Moneteria a Bucarest, vicino al Museo di Scienze Naturali Antipa, poi ho fatto il liceo al «San Sava», uno dei licei più prestigiosi di Bucarest. Anche il futuro re di Romania, Michele, era iscritto lì. Ho iniziato la Facoltà di Medicina nel 1943 con un concorso durissimo di ammissione: 3000 partecipanti e 300 posti, ho vinto il concorso e ho studiato fino al 1948, poi ho fatto tirocinio nell’ospedale di Bucarest «Floreasca», dove lavoravo con il professor Dinischiotu, libero docente a Berlino durante la guerra. Ho avuto la fortuna di studiare medicina con grandi professori e a contatto con i malati. Nel 1944, quando il generale Antonescu si è opposto alla consegna degli italiani disertori al Comando Tedesco, ho aiutato con un po’ di soldi, vestiti e cibo un connazionale disertore, ospitato da altri italiani nella sede della Gioventù Universitaria Fascista. Mio padre, nel 1943, a Bucarest, quando dovette rinnovare il passaporto, dovette scegliere tra il Consolato della Repubblica di Salò e quella della Monarchia italiana di Badoglio. Mio padre mi disse: «Ho preso il visto della monarchia perché la guerra finirà con la vittoria degli alleati». Ho ricordato questi due episodi per testimoniare la tolleranza romena di quei tempi verso gli italiani residenti in Romania.
Dopo, le cose sono cambiate. Abbiamo deciso di rientrare in Italia, e all’inizio del 1948 abbiamo chiesto il visto definitivo di espatrio dalla Romania. Dopo sei mesi, sono rientrato in Italia, il 23 agosto del 1948, passando per Venezia, poi sono stato per due mesi a Roma, in attesa della «raccomandazione» di un parente acquisito, Stefan Voitec, Segretario del Partito Socialista Romeno, dal suo omologo, Pietro Nenni, raccomandazione che non è mai arrivata … Mio zio Umberto mi aiutò a finire gli studi di medicina a Padova, studi cominciati in Romania e interrotti al quinto anno. Ero già sposato con una ragazza romena, Rebecca Carol, la madre di mio figlio Edmondo, e per questo motivo ritardò il visto di uscita dalla Romania.
Per gli italiani rimpatriati dalla Romania erano stati organizzati dei campi di accoglimento, uno era a Catania, dove mio padre scelse di andare, per via dei ricordi dello sbarco del 1915; lì trovarono una grande miseria e dopo un mese vennero a Padova da me. So che c’era un altro campo a Udine. La partenza dalla Romania è stata molto dolorosa; più di 40 persone – amici, parenti, colleghi – che avevano la certezza di vederci per l’ultima volta, sono venuti alla stazione per accompagnarci. Il convoglio era composto da cinque vagoni pieni di italiani, circa 300 persone, che rimpatriavano via Budapest – Vienna – Venezia. Le prime difficoltà le abbiamo avute alla frontiera con l’Ungheria. Dalla Romania non potevamo portare niente, né soldi, né beni in oro. Ci davano il permesso di portare 1000 sigarette che sono servite come varie mance per il viaggio. Io personalmente ho portato un po’ di soldi ungheresi nascosti in un vano della toeletta del treno e ho nascosto 15 monete d’oro nell’intercapedine della cassa già spedita in Italia. Con questi soldi, in seguito, ho pagato sei mesi di affitto a Padova.
A Vienna, nel settore russo, ci hanno dato il visto sul treno senza farci scendere: i soldati ci guardavano con l’odio di quelli che rimanevano dietro la Cortina di ferro che era già scesa sull’Europa dell’Est. Sempre a Vienna sono arrivati un po’ di soldi tramite il rappresentante del Consolato italiano. Tanti italiani sono partiti in tutta fretta con questi convogli, già un anno o due prima del mio rimpatrio, con una certa frequenza, per questo si presuppone che i rimpatriati italiani della Romania siano stati nell’ordine di parecchie decine di migliaia.
A Roma, appena arrivati, siamo stati in affitto preso una famiglia pisana di origine ebrea, i Pontecorvo, la famiglia del famoso regista. Lì alloggiavano anche dei rappresentanti del governo legionario di Horia Sima, tre o quattro persone che aspettavano di andare dai loro amici e conoscenti a Madrid. Anche a Roma c’erano campi profughi ma erano già pieni e inoltre lì rimanevano i più raccomandati. Pensavo che essere un profugo dalla Romania fosse un atto «eroico», ho scoperto che era una miseria. Si avvicinava settembre e scadevano le iscrizioni all’università. Allora ho telefonato disperato allo zio Umberto di Verona e lui mi ha accolto generosamente per un mese finché ho trovato una casa in affitto. All’università ho avuto delle difficoltà con la lingua, io parlavo un italiano maccheronico, e il professor Beretta Anguissola della Clinica medica di Padova si divertiva con i miei sbagli, un giorno gli ho chiesto di stare al «capezzolo» di un ammalato invece di un capezzale. Sempre all’inizio sono stato aiutato, paradossalmente, da due romeni rifugiati in Italia. Erano arrivati ufficialmente per studiare in Italia durante la Seconda guerra, in pratica erano andati via dalla Romania per non fare il servizio militare che significava andare al fronte, poi sono rimasti per non ritornare dietro alla cortina di ferro dove c’era la Romania. Enea Moțiu (emigrato a Chicago) e Sorin Safirescu (che vive tuttora a Vancouver) mi vendevano a buon mercato i pacchi dati gratuitamente dalla UNRA (Associazione Americana per i Rifugiati) che li aiutava in questo modo in attesa di emigrare in America. Con quei pacchi ci siamo sfamati io e mia moglie all’inizio. Tramite il prof. Beretta facevo iniezioni endovenose e da questo ricavavo qualcosa. Ho fatto per due o tre mesi la misurazione delle battute del cronografo per un mulinello della velocità dell’acqua dell’Istituto di idraulica diretto dal prof. Scimemi. Il Comune ci dava un minimo di sussidio sociale, che veniva consegnato preso il cinema Concordia, e lì vicino, dietro il Duomo, alla Caritas, delle suore davano pasta al pomodoro, un «tocchetto» di formaggio Asiago e una michetta di pane, con 40 lire a porzione. Mentre ero tra i «clienti» della sala, un goriziano, profugo anche lui, mi disse: «Oh! Anca lu, dotor, xe qua?»
I primi guadagni con la professione li ho fatti come sostituto delle condotte mediche a Candiana, in provincia di Padova, due anni dopo il mio arrivo in Italia. Poi sono stato per 28 anni medico di base a Pontelongo, dove, nel 1999. mi hanno nominato cittadino onorario. Il mio rapporto con i romeni non si è mai interrotto. Nel 1966 ospitai per due anni lo scultore Ciuca che poi è finito in America. Nell’anno della morte di mia madre, in nome della sua nostalgia per la Romania, sono ritornato per la prima volta nel paese dove sono nato. A Orăștie mi fermai con mia moglie a pranzare in una trattoria lungo la strada, avevo una Alfa Romeo. Vicino a noi si fermò un autobus pieno di uomini che dicevano ogni tanto «adesso è finita, non importa», un altro diceva «sì, ma io non dimenticherò mai»; a un certo punto alcuni si alzarono, solo uno rimase e disse «a me non comanda più nessuno, io rimango qui”, mi offrì di dargli un passaggio ma fortunatamente lui rifiutò; si trattava di prigionieri politici che erano stati liberati dalle prigioni, mi sarei messo di sicuro nei guai se lo avessi aiutato.
A mio padre piaceva la musica e il divertimento «alla romena»; quando finiva un cantiere, portava lavoratori e amici con le loro signore in una tenuta di campagna e portava con sé dei lăutari zingari che suonavano la musica popolare. Un giorno, in Italia, trovai un’orchestra romena di zingari, con fisarmoniche, violini e un tipo di cembalo, lo țambal: erano 22 persone, abbiamo fatto una bella festicciola e mio padre è stato felice, poi loro sono andati a Lugo di Romagna. Eravamo negli anni ’70. In ricordo di mio padre, come medico davo assistenza gratuita ai nomadi a Pontelongo.
La mia casa è stata un punto di riferimento per tutti gli artisti romeni, pittori e scultori che passavano per il Veneto. Il professore Ion Frunzetti, commissario romeno della Biennale di Venezia, era mio amico e mi favoriva gli incontri con le persone che lui riteneva meritevoli nel campo dell’arte. Rischiava molto, però, a parer mio; quando sapeva che alcuni di loro – ad esempio, H. Mavrodin, Iosif Teodorescu, Valentin Ionescu ecc. – avevano intenzione di rimanere in Occidente come profughi, chiedeva a me di star loro vicino e di aiutarli. Eugen Drăguțescu era già in Italia. L’ho conosciuto a Padova, dove aveva una mostra. Ho fatto grande amicizia con Marcel Chirnoagă, e anche Frunzetti è stato mio ospite gradito per più di dieci anni.
Sono stato felice di fare il medico della mutua; mi liberava dall’inconveniente di chiedere soldi. Gli zingari mi avevano segnato con la croce sulla carta geografica del loro nomadismo, perché sapevano che da me non dovevano pagare. La stessa cosa faceva, in Romania, il mio amico Romiro Tomescu, italo-romeno anche lui. La sua mamma faceva la minestra di fagioli alla toscana, e io andavo a trovarlo a casa sua a Bucarest. Una volta chiesi per strada a un signore dove abitasse il dottor Tomescu, e la signora mi corresse «lo studioso Tomescu» disse. Lui è rimasto in Romania come medico ortopedico. Negli anni ’70, quando andavo in Romania, passavo a trovarlo, ma capivo che aveva paura di rivedermi…
In generale, devo dire che, quando sono rimpatriato, ho trovato l’Italia in ginocchio dopo i bombardamenti della guerra. A Padova non c’era più la stazione ferroviaria. I biglietti del treno si vendevano in una baracca. A Verona, ho passato l’Adige con la barca perché i bombardamenti avevano fatto saltare tutti i ponti. La Romania si trovava in una situazione incomparabilmente più felice per quanto riguarda le perdite della Seconda guerra mondiale. Per questo non mi aspettavo così tanti aiuti da parte degli enti di assistenza italiani, ma gli aiuti ci sono stati.
E soprattutto qui ho trovato una sistemazione lavorativa e materiale per me e la mia famiglia che mi ha permesso di avere una vita decente. Ma la mia gioventù romena, le origini di mia madre, le amicizie romene che non hanno mai cessato di appagarmi in affetto e cortesia, mi sono rimaste nel cuore e, tuttora, mi sento più romeno che italiano, dopo tutti questi anni trascorsi nelle vicinanze di Padova. Mi sento fortunato di avere due patrie, e considero una lezione di vita appartenere a due culture sorelle ma così diverse. [2]
Oggi nessuno parla più degli italo-romeni. La Romania d’una volta fu in buona parte edificata da loro: ville, i sanatori per la cura della tubercolosi, gli edifici dei ministeri moderni della capitale, i sanpietrini delle strade di Bucarest, i milioni di cubetti in basalto li hanno scolpito gli scalpellini del Friuli che li estraevano dalle miniere dello Hațeg e del Măcin. Dalla Romania, a coloro che hanno lasciato il paese dopo tre generazioni nel 1948, non gli si era permesso di portare niente. Tutta la roba accumulata dai nonni ai nipoti è rimasta ed è stata persa per sempre. Ed erano persone laboriose. Oggi, il passo del romeno corre veloce sulle strade dove altri emigranti hanno lasciato il sudore della fronte e gli anni della gioventù. Sempre oggi, altri romeni e moldavi hanno preso la via verso l’Italia, la Spagna e altri posti dell’Occidente. L’emigrazione dell’epoca della globalizzazione è una tempesta senza nome. Di quelle persone che hanno donato una nota d’eleganza, bellezza e umanità si ricorda soltanto Livio Zanolini – italiano di nome e romeno nel cuore – lui, l’ultimo mohicano, tra gli ultimi italiani rimpatriati dopo la Seconda guerra mondiale nel 1948. Risiede sulla cima di una colina vicino a Padova e a casa sua siamo passati tutti.
Chiudo l’ultima delle parentesi dicendo che il 17 dicembre 2022 se n’è andato Livio Zanolini. Gli ho portato i fiori bianchi con un fiocco fatto con il nastro del tricolore romeno pensando che, ancora una volta, Livio mi ha insegnato una cosa. Non avevo mai adoperato il tricolore romeno prima, se non per decorare un mio libro scritto in onore dei 150 anni dell’Unità d’Italia nel 2011 insieme al tricolore italiano. Il libro parlava del rapporto del commissario dell’immigrazione Guglielmo Emanuele di Palma di Castiglione che si recò in Romania nel 1912 [3] per accertarsi delle condizioni degli immigranti italiani allora in Romania. Devo dire che ho sempre conosciuto dentro di me il tormento di cui Emil Cioran parlava quando si riferiva alla patria d’origine: l’amore e il rifiuto. Nessuno lascia la sua patria perché sta bene. Però Livio mi ha fato cancellare, con la sua morte, il malcontento e mi ha riavvicinata, con il gesto di un semplice fiocco rosso, giallo e blu, alle mie origini e alla Romania.
Mi disse un amico comune quando gli raccontai del fatto che Livio non è più tra noi ma che ha sempre parlato bene della sua patria natia: «Ma Livio non ha conosciuto il comunismo romeno, perché se ne andato via prima, ecco perché parlava solo bene della Romania». Gli ho risposto: «Ma ha lasciato in Romania tutto, beni e sentimenti, amici, la formazione al più prestigioso liceo bucarestino, Sf. Sava, i cinque anni di medicina a Bucarest, tutta la sua giovinezza. Non è abbastanza? Eppure non ho mai sentito Livio Zanolini criticare i romeni o la Romania». E aveva perso lì tutti i beni di una famiglia alto borghese. Mai. La faccia gli si illuminava quando parlava romeno o della Romania senza rimpianti, senza rimorsi, con gentilezza e umanità in un romeno pulito, armonioso, interbellico. All’obitorio erano presenti due signori anziani di Pontelongo che dicevano: «Siamo venuti a salutare IL NOSTRO dottore», segno del fatto che non è stato mai percepito come uno straniero, come un emigrante. Con la sua affabilità Livio ha lasciato in ognuno di noi un po’ della sua enorme e inestimabile Memoria, che portava con sé come un bene prezioso, come una medaglia, come quella di cittadino onorario di Pontelongo che il sindaco gli conferì nell’ottobre del 1999 quando si sposò lì con Rosi, la terza e ultima moglie. Ciao Livio e riposa in pace!
Liana Corina Țucu
(n. 1, gennaio 2023, anno XIII)
NOTE
1. In «Europa» - Revistă de știinţă şi artă în tranziţie, diretta da Pavel Gătăianțu, n. 2/4 del 2009, pp. 87-90; ISBN 978-88-8063-606-9.
2. Roberto Scagno, Paolo Tomasella, Corina Tucu, Veneti in Romania, Longo editore, Ravenna, 2008, pp. 175-178; ISBN 978-86-87879-03-4.
3. Corina Tucu, Un document diplomatic italian despre romani; inspectorul emigraţiei G.E. di Palma di Castiglione în Buletinul emigraţiei, Roma, 1912, Editura ProUniversitaria, Bucureşti, 2012, ISBN 978-606-647-161-9.
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