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«I confini dell’autofilosofia di Cioran», una dichiarazione e un azzardo
I confini dell’autofilosofia di Cioran di Irina Turcanu, uscito di recente per Rediviva Edizioni, è già una dichiarazione, sin dal titolo. Una dichiarazione e un azzardo. La dichiarazione è quella in merito al desiderio di seguire i confini del pensiero di Cioran. Detto altrimenti: l’invito è a immaginare l’uomo, dietro al pensatore, la sua storia, il suo vissuto, le sue malattie e i suoi silenzi. Una filosofia che si dispiega solo come formula ben formata – per prendere in prestito i termini della logica – non serve a molto, se non all’esercizio. Diceva Cioran. Lo diceva anche Heidegger, a modo suo. Lo pensava lo stesso Nietzsche, sebbene il suo sguardo abbracciasse soprattutto la storia. Il riferimento ai due filosofi non è casuale, nel volume i tre si incontrano, si distanziano, per poi avvicinarsi nuovamente, come in una danza immaginaria in cui a muoversi non sono i corpi, ma le idee, le parole, le riflessioni.
L’azzardo, invece, sta nella definizione. Autofilosofia. Che, sulla falsa riga del genere autofiction, poteva essere detta anche autophilosophy, per chi apprezza le contaminazioni linguistiche. In entrambi i casi, l’idea è la medesima. I critici di Cioran hanno sempre mostrato difficoltà a inserire il pensatore in una categoria, cioè scegliere se sia definibile come filosofo o come letterato. Un confine, anche in questo caso, così fluido da spingermi a proporre una nuova categoria. Con autofilosofia si intende un corpus di pensieri che mantiene uno stretto rapporto con la vita, sia in quanto analisi sia in quanto destinatario. L’insonnia, è inevitabile, segnerà i pensieri di chiunque pensi, e nel silenzio forzato e doloroso della notte si manifesta un mondo che scompare sotto i raggi caldi del sole. Nel buio, ci sono più forme che colore. Cioran poteva sottrarre le sue riflessioni all’insonnia?
Di più: poteva sottrarre i suoi pensieri alla condizione di esule? Questa è un’altra domanda che ci siamo posti in questo breve studio dedicato al pensatore romeno naturalizzato francese. Amici che lo incontravano a Parigi raccontano che Cioran parlava loro in francese perché non voleva guastare la lingua, specie se doveva scrivere da lì a poco: parlare il romeno avrebbe contaminato il francese per diversi giorni. Lui non poteva permetterselo. E questo lo si evince dai suoi testi: a leggerli, si ha la possibilità di apprendere un nuovo vocabolo ogni quindici pagine, circa. Ma qual è il rovescio della medaglia di una simile tensione? Cosa accade al pensiero in quella zona franca, di nessuno, spoglia dagli obblighi imposti dalle tradizioni, dalle radici? Si è liberi o ci si sente persi? In Cioran pare prevalga la libertà. Infatti, in quanto esule, immigrato, sopraggiunto da un altrove problematico e diverso dal luogo di approdo, non teme di perdere qualcosa che non possiede: un posto consacrato e definitivo. Il suo pensiero è, allora, la sua storia, i suoi tormenti, le sue torture notturne. La sua filosofia è un’autofilosofia, perché solo in questa forma può essere utile, può smettere di presentarsi come esercizio e formule astratte.
Irina Francesconi Ţurcanu
(n. 7-8, iulie-agosto 2021, anno XI)
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