Un classico della letteratura romena: «Mara» di Ioan Slavici. Traduzione inedita

In occasione della Festa della donna, il Museo Nazionale della Letteratura romena, affiancato dal gruppo București Moll, aveva organizzato la mostra «Personaggi e presenze femminili nella letteratura romena». I visitatori erano invitati a riscoprire personaggi femminili «forti, affascinanti, accattivanti, avvolti nel mistero»: Anișoara (Il canto del cigno, Liviu Rebreanu), Chira Chiralina (Panait Istrati), Corina (Il gioco della vacanza, Mihail Sebastian), La Signorina Hus (Ion Barbu), La Signora T. (Camil Petrescu), tanto per citarne qualcuna. Una schiera di donne sconfitte, sfuggenti, misteriose, romantiche. Sorprendentemente, c’è anche Mara, ritenuta «la prima donna capitalista della letteratura romena». Infatti, la definizione di Nicolae Manolescu, che nel volume Arca lui Noe (L’arca di Noè) dedica al romanzo di Slavici il capitolo Săraca văduvă cu doi copii (La povera vedova con due figli), è significativa. Citando l’incipit del romanzo, il critico segnala alcune formule stereotipate: săraca, sărăcuţii de ei, saracuţii mamei (povera, poverelli, poverelli di mamma) che sono espressione sia dell’oralità popolare (tratto distintivo della scrittura di Ion Slavici) sia dell’atteggiamento ironico che l’autore assume di fronte al vittimismo palese della protagonista.
Il passaggio, a quasi trent’anni di distanza, dalla novella Moara cu noroc (1880, Il mulino della fortuna) al romanzo Mara (1906) avviene sia mediante il cambiamento di prospettiva narrativa e, di conseguenza, dei procedimenti stilistici, sia, soprattutto, attraverso il capovolgimento di un concetto in grado di governare le vicende umane: norocul (la fortuna).
Nella novella, le parole della suocera, sopravvissuta al rogo del mulino, formulano l’insegnamento morale che accompagnerà il destino tragico dei protagonisti:
«Che l’uomo sia contento nella sua povertà, perché a renderti felice non è la ricchezza ma la tranquillità della tua capanna».
Ammonimento ignorato da Ghiţă, diventato gestore dell’osteria della fortuna, che guarda con avidità «il mucchio di denaro davanti a sé» e per quel gruzzoloè pronto a sacrificare la vita, sua e di Ana, moglie fragile e vittima sacrificale della volontà altrui.
Diversamente concepita è la fortuna di Mara:
«Era rimasta Mara, poverina, vedova con due figli, poverini, ma era giovane e forte e operosa e Dio volle darle anche fortuna».
La riflessione, in filigrana, dell’io narrante, sottintende l’autoassoluzione della protagonista dal peccato di avarizia: perché il Signore premia chi sa uscire dallo stato di perenne infelicità. La condizione di ‘povera’ vedova non è più motivo di rassegnazione al destino. Nel confronto degli orfanelli, la madre non si scioglie in sentimentalismi. Di fatto, pensa al benessere materiale e, quando può, risparmia sulla retta annuale che deve al convento cattolico dove studia la figlia:
«Mara non si decideva a tirar fuori altri soldi. Li avrebbe potuti dare, li aveva, questo nessuno lo sapeva meglio di lei, ma non si sentiva di strappare nessuna delle tre calze» (nella prima custodisce i risparmi per la vecchiaia, nella seconda la dote destinata a Persida, nella terza i soldi per l’avvenire di Trică).
E Mara sa che la strada dell’affermazione individuale si costruisce con energia, intraprendenza e determinazione, doti che suscitano l’ammirazione della comunità quando si concretizzano nel possesso di denaro. 
«La gente non la guardava più come prima. Va bene che il denaro ti fa sentire importante, nel tuo cuore e nel pensiero altrui, ma il denaro che ti sei guadagnato è segno di laboriosità, e gli ospiti capivano tutti perché Mara stava seduta a tavola come sul trono e parlava con voce pacata ma decisa».
Più della ricchezza fine a sé stessa, il consenso sociale è il principale obiettivo che Mara intende raggiungere e sarà l’insegnamento maggiore che impartirà ai figli. A loro volta, i «poverelli di mamma», nonostante deviazioni e contestazioni, a conti fatti si adegueranno alla volontà materna e ai connotati contradditori di un ordine comunitario in evoluzione, all’interno del quale, la fortuna e il guadagno sono eventi positivi, utili e vantaggiosi.

Celestina Fanella






Da «Mara» di Ioan Slavici


1. Poverelli di mamma

Era rimasta Mara, povera donna, vedova con due figlioli, poverelli anche loro, ma era giovane e vigorosa e il lavoro non la spaventava, e il buon Dio fece che avesse anche un po’ di fortuna.
Manco a dirlo, la buonanima di Bârzovanu era, parlandone da vivo, più un abborraccione che un calzolaio, e stava più di buon grado all’osteria che a casa sua; ma ai figlioli erano rimasti lo stesso un duecento pruni sulle rive del Mureş, la vignuola sulla collina verso Păuliş e la casa, che la madre aveva portato in dote. E poi, gran cosa per chi fa mercato, Radna è Radna, Lipova è appena qui oltre il Mureş, e ad Arad ci si arriva in un paio d’ore.
Martedì mattina Mara porta la sua bancarella al mercato sulla riva destra del Mureş, dove si radunano per la fiera settimanale gli abitanti della valle, fin da Sovârşin e Soboteliu, e quelli della collina fin da Cuvin. Giovedì mattina passa il fiume e monta la sua bancarella sulla sponda sinistra, dove si raccolgono le genti del Banato fin da Făget, Căpălnaș e Sân-Miclăuș. Venerdì all’alba, appena dopo il cantar del gallo, Mara si mette in cammino per Arad, sicché il giorno la sorprende con la mercanzia già in bella mostra al mercato grande, che richiama gente da sette contrade.
Ma la gran cosa è che Mara non la trovi mai a mani vuote; vende quel che può e compra quel che trova, porta da Radna ciò che non si trova a Lipova o ad Arad e porta da Arad quel che non trovi a Radna o Lipova. Per lei la cosa più importante è non portare mai indietro la merce con cui è partita, e preferisce vendere con minor ricavo piuttosto che tener la mercanzia lì a covare.
Soltanto i giorni di Santa Maria Mara torna a casa con le ceste vuote.
Lassù, sul versante di una collina sulla riva destra del Mureş, si trova il famoso convento dei frati minori di Maria Radna. Dai campanili della bella e grande chiesa si vedono a valle del fiume le rovine ricoperte di muschio della cittadella di Şoimoş; davanti alla chiesa si stende Radna la bella, e oltre il Mureş c’è Lipova, con il campanile scintillante e pieno di fronzoli della chiesa romena, mentre ancora a valle del fiume si allarga la pianura sconfinata della terra d’Ungheria. Ma a tutto questo Mara non fa alcun caso: per lei non è che uno spiazzo davanti al convento, dove si raduna una grande, grandissima folla.
Dicono che là in quella chiesa ci sia un’icona miracolosa, una Maria Immacolata che piange e alla cui vista i malati si fanno sani, i poveri si sentono ricchi e gli infelici si stimano contenti.
Mara, ancorché vera cristiana, si reca ogni tanto pure lei in quella chiesa, ma si segna secondo l’uso dei buoni cristiani romeni, con tre croci e prostrandosi fino a terra, come si conviene al cospetto di Dio. Che l’icona faccia miracoli, questo non lo crede; sa bene che un’Immacolata tedesca non è una vera Immacolata. Ma c’è dell’altro. I frati, che vanno in giro pelati come un uovo e fanno delle smorfie orribili, possiedono una scienza segreta e sanno fare ogni sorta di scongiuri affinché la malattia trovi rimedio, il povero abbia soccorso e l’infelice incontri la felicità. Quindi fan bene quelli che vengono a pregare a Maria Radna, e a Mara ride il cuore in petto quando alle feste di Santa Maria il tempo è bello, perché verrà gente da una settimana di viaggio di distanza, un gruppo dopo l’altro, con i drappi al vento e le croci ornate di fiori, cantando salmi e litanie. Allora, quando arrivano a centinaia e si radunano a migliaia sullo spiazzo antistante il convento, allora è il tempo della messe di Mara, che al mattino esce con le ceste piene e la sera le porta a casa vuote. È per questo che Mara va a segnarsi davanti all’icona, e poi va dai figlioletti, che porta sempre con sé, li sospinge un po’ avanti e dice loro: “Segnatevi anche voi, poverelli di mamma!”
Sono poveri, sventurati, che non hanno il papà. Ed è povera pure lei, che è rimasta vedova con due figlioletti; a chi mai, santo cielo, potrebbe lasciarli quando va al mercato?, e come potrebbe mai stare da mane a sera senza vederli? Come, quand’è una così gran gioia averli avanti agli occhi?
È sempre in moto, Mara, trotta spedita, mercanteggia e s’accapiglia con la gente, a volte si prende il capo fra le mani e piange e si lamenta che è rimasta vedova, ma poi si guarda attorno e vede i bambini e allora di nuovo ride.
“Figlioli come i miei non li ha nessuno!” si dice Mara, e nessuno può saperlo meglio di lei, che tutto il giorno vede grandi e piccoli e non le può passare innanzi agli occhi un cristiano senza che lo ponga a paragone dei propri figlioli. Sono belli sani e rubizzi, e gagliardi e pieni di vita, e svegli e graziosi. E pure monelli sono, manco a dirlo, ma si sa che i grandi con un po’ di sangue nelle vene vengono fuori dai piccoli monelli.
E sono anche cenciosi e scalzi e scarmigliati e sporchi e impertinenti, poverelli di mamma; ma così è pure la loro mamma, come altro potrebbe essere una povera vedova? Come altro potrebbero essere dei bambini poveri, che passano la vita al mercato, tra le gambe della gente?
Un donnone dalle spalle larghe, pesante e col volto segnato dal sole, dalla pioggia e dal vento, Mara sta tutto il giorno sotto la sua tenda, dietro alla bancarella carica di frutti e pan dolce. A sinistra, la cesta piena di pesce, mentre a destra bolle l’acqua per le salamelle, per le quali ogni tanto grattugia del rafano sul tavolaccio. I bambini corrono in cerca di qualcosa da fare, tornano quando hanno fame e di nuovo ripartono dopo essersi riempiti il pancino, ora giocano allegri, ora s’azzuffano, a volte tra loro e a volte con altri, e la giornata passa senza che te ne accorgi.
La sera, il più delle volte, Mara mangia da sola, perché i figlioli, stanchi, s’addormentano mentre lei prepara la cena. Ma ci pensa la mamma a mangiare anche per loro, che sarebbe peccato avanzare la roba per l’indomani.
Poi, dopo aver bevuto un ultimo orciolo d’acqua fresca, Mara tira fuori la scarsella, per fare i conti. Ma non li fa mai solo per il giorno appena trascorso, bensì per la vita intera. Togliendo le spese dai ricavi, Mara mette da parte i soldi per il domani, si reca al capezzale del letto e torna indietro con tre calze: una per la vecchiaia e per la sepoltura, un’altra per Persida e la terza per Trică. Non lascia passare giorno senza mettere almeno un centesimo in ciascuna delle tre calze, e se non ne ha, piuttosto chiede a prestito. Quando riesce a metterci un fiorino intero, lo bacia e poi resta così, sola, con i denari in bella mostra sul tavolo, e pensa, e alla fine si mette a piangere.
Non che abbia un qualche peso sul cuore; quando sente il peso della vita, Mara non piange, ma spacca pentole o rovescia ceste e tavoli. È che si capacita di ciò che aveva quand’è rimasta vedova, di quanto ha ora e di quanto avrà domani. E persino a essere Mara ti ammorbidisci quando senti che è bello esser vivi a questo mondo, che corri da mattina a sera ma sai che non lo fai per niente.
Durante il giorno le passa davanti agli occhi tanta gente, e se vede una donna che le piace e per carattere e per condizione e per aspetto, allora dice tra sé con segreta soddisfazione: “La mia Persida sarà così!” E se è un uomo che le piace, allora dice: “Il mio Trică sarà così!”
Ce n’era una, la moglie del prete di Pecica, una donna meravigliosa, e dolce, e ricca, e bella: avrebbe spaccato Mara tutte le sue pentole se qualcuno avesse osato dirle che la sua Persida non sarebbe stata così, e anzi meglio ancora. E la moglie del prete era stata quattro anni dalle monache di Oradea-Mare: era quindi cosa certa che anche Persida avrebbe dovuto stare almeno cinque anni dalle suore di Lipova.
E Mara tanto aveva fatto e tanto aveva ha brigato che madre Aegidia, l’economa, le aveva promesso che le avrebbe preso la figliola per soli 60 fiorini all’anno, perché è vedova con due figlioli, poverelli di mamma. Erano passati già due anni da allora, e Persida aveva nove anni compiuti, ma Mara ancora non riusciva a decidersi a tirar fuori tutto quel denaro… per niente. Avrebbe potuto, che aveva ben donde, e nessuno lo sapeva meglio di lei; ma il cuore non le lasciava toglier nulla dalle sue tre calze.
Trică le dava meno pensieri.
C’era un signore a Lipova, Bocioacă, il decano della gilda dei giubbonai, che d’estate lavorava con quattro garzoni e d’inverno con dieci, e portava in giro per tutti i mercati i giubboni migliori, teneva i diritti del macello e aveva preso in moglie Marta, la figlia del prete di Cladova. Che uomo meraviglioso! – così doveva essere anche Trică! E per questo non c’era bisogno di tanta scuola, quanto bastava per andare a bottega.
Madre Aegidia invece chiedeva molto, sei fiorini al mese, e poi c’erano anche tutte le altre spese.
“Mh”, s’era detta Mara, aggrottando le sopracciglia, e aveva cominciato a fare di conto nella sua testa di quante anime avrebbero potuto passare ogni anno il ponte di barche sul Mureş. Nessuno al mondo avrebbe potuto farne il conto meglio di lei, che tanto tempo trascorreva sulle rive del fiume. E se avesse preso dalla calza di Persida i soldi dell’affitto del ponte? Poteva dare più di altri, perché le bastava guadagnare quei 60 fiorini, e magari qualcosina in più. E poi avrebbe acquistato anche il diritto di montare la sua bancarella proprio in testa al ponte, dove dovevano passare tutti quanti.
Mara stava lì e contava e ricontava tra sé i denari, due centesimi a persona e dieci ogni coppia di cavalli o di buoi, e sommando e facendo di conto i soldi si moltiplicavano, tanto che gli occhi le si colmarono di lacrime.
Era possibile essere una povera vedova, e vedere tua figlia sposata a un prete, il figliolo decano dei giubbonai, e non intenerirsi tutta?!
Che le cose sarebbero anche potute andare altrimenti, questo Mara proprio non lo poteva credere, quando vedeva chiaro come la luce del sole che alla fine tutto quanto sarebbe andato per il verso giusto.


2. Madre Aegidia

Madre Aegidia era piccina, camminava a passi piccoli e svelti, era di poche parole ma decise, aveva un naso non proprio minuto e uno sguardo severo e indagatore, ma si ammorbidiva davanti alle lacrime di una vedova: era stata lei a insistere che la madre superiora accogliesse Persida anche solo per cinquanta fiorini l’anno, ed era persino andata dal signor Hubăr, l’economo della città, affinché Mara ottenesse l’affitto del ponte.
Erano tutte azioni cristiane, queste, ma la buona madre non era poi tanto contenta di averle compiute.
Sidi, a dirla tutta, era assai sveglia e dall’attimo in cui si era separata da Trică s’era fatta silenziosa, mansueta, obbediente, quasi mite; non c’era però verso di farle perdere certe cattive abitudini, di tenerla coi capelli a posto e le mani pulite, né di insegnarle le buone maniere. E poi Mara veniva sempre al convento a lamentarsi che la gente non passava più sul ponte, né da Radna verso Lipova, né da Lipova verso Radna, tanto che madre Aegidia, intenerita dalle sue lacrime, era arrivata ad accontentarsi di appena quattro fiorini al mese, e metteva il quinto di tasca sua. D’inverno, poi, quando il Mureş gelava e la gente non aveva più bisogno di pagare i due centesimi per attraversare il fiume sul ponte, la suora dallo sguardo severo metteva di tasca sua tutti e cinque i fiorini e si diceva contenta che Mara contribuisse almeno a vestire la ragazza.
E allora la sera Mara faceva come d’uso i conti, e gli occhi le si riempivano di lacrime come sempre, e anzi ancor più del solito.
Un’unica cosa le dava di quando in quando pensiero. Persida pareva essersi fatta fin troppo composta: guai a che le suore la prendessero all’amo, la incantassero e facessero di lei un’altra suora baciapile. “Meglio morta!” Ma poi no!, non era possibile: mai in famiglia s’eran visti tali baciapile; sempre tutti buoni cristiani! E poi pure Trică aveva messo la testa a posto, obbediente e buono scolaro. Sono cose che vengono con l’età, a quelli che son stati monelli da piccoli.
Certo, di tanto in tanto, manco a dirlo, si ricordavano pure loro dei tempi andati.
Un bel giorno di primavera il signor maestro Blăguţă era arrivato a scuola più tardi del solito. Amava molto andare a pesca, e le nevi s’erano sciolte in fretta, il Mureş s’era gonfiato e l’acqua era torbida, che è quanto c’è di meglio per prender pesci. Ed era cosa risaputa che, in mancanza del signor Blăguţă, a metter mano alla verga per mantenere l’ordine era Costi Balcovici, magari non perché fosse il più grande degli scolari, ma studiava sodo ed era il figlio del tortaio di Radna. Una cosa era però Blăguţă, e un’altra Costi, ancorché figlio di tortaio. Davanti al signor Blăguţă, Trică stava sull’attenti, mentre con Costi si era spesso azzuffato al mercato, nei bei giorni andati, quando non era solo, ma insieme a Sida gli saltavano entrambi addosso e di rado Costi ne usciva con la faccia intera, perché Sida aveva le unghie di un gatto e si sarebbe buttata nel fuoco per il suo fratellino.
Proprio per questo, forse, Costi si mostrava assai duro con Trică, che ora sapeva esser rimasto solo.
– Trică, sbraitò, sta’ composto!
Trică si alzò spavaldo in piedi: gli era stato fatto un torto.
– Siediti! gridò Costi.
– Se ho voglia mi siedo; se no, sto in piedi, rispose Trică. Chi sei tu per darmi ordini?!
Gli altri scolari si erano messi a ridere a crepapelle, perché anche i bambini sono persone e gioiscono quando vedono umiliare coloro che s’innalzano troppo in fretta.
– Fuori! strillò Costi con piglio da maestro, in ginocchio! e, proferendo l’ordine, andò ad abbrancare Trică.
Trică, più piccolo di tre anni, non si sentiva in grado di tener testa a Costi. Ma quanto più era piccino, tanto più grande era la sua determinazione, e sapeva mordere, graffiare e menar le gambe, il che mandava Costi tanto più in bestia quanto più gli altri scolari s’erano alzati dai banchi e si sganasciavano dalla risate ogni volta che Trică metteva a segno un colpo. E così la vittoria non poteva essere che di Trică: botte, di certo, ne aveva prese, i capelli erano più radi e il collo graffiato, ma dal suo banco non s’era alzato e in ginocchio lo aveva messo soltanto il signor Blăguţă, che ci teneva a che l’autorità di Costi rimanesse intatta.
All’uscita da scuola Trică s’incamminò, come suo solito, diritto verso il ponte, dove la mamma incassava i suoi centesimi e vendeva la sua mercanzia. Per tutto il tempo in cui s’era azzuffato con Costi ed era rimasto poi in ginocchio, non una lacrima era salita agli occhi di Trică. Soltanto allora, quando si vide solo, prese ad asciugarsi di tanto in tanto una lacrima. Ah, come avrebbe voluto poter mordere ancor una volta Costi, tanto da lasciargli per tutta la vita il segno dei denti! Ma Costi era più forte di lui.
“Lo dirò alla mamma”, si disse il ragazzo, “e vedrai quando passerà dal ponte!” Quando fu però il momento, non ebbe cuore di dirle nulla. Raccontare l’accaduto non sarebbe servito soltanto a farla rammaricare, come altre volte, che è vedova e tutti se la prendono con i suoi figlioli perché non hanno un papà che li protegga.
“Ah! disse sospirando, perché non c’è più Sida qui con me?!”
Sì!, solo lei poteva capire cosa vuol dire essere picchiato da Costi!
Passò quindi il ponte senza farsi vedere, sgattaiolando di soppiatto dietro a un carro, e, giunto sull’altra sponda, corse diritto filato al convento delle suore, tirò la campanella all’entrata e disse, quando gli venne aperto, che la mamma l’aveva mandato a portare una cosa alla sorellina.
Dalle suore di Lipova, però, non si poteva parlare con chiunque quando si voleva e di qualsiasi cosa. Ma Sidi non era chiunque, e la severa madre Aegidia, essendo però anche saggia, aveva cura di non mettere in subbuglio l’intero monastero, cosa che sarebbe accaduta se avesse vietato a Sidi, che aveva preso a vociferare da che le avevano detto che, essendo ora di pranzo, non era possibile, di vedere il fratello. Così, Trică non dovette attendere a lungo.
– Che succede? chiese lei, secca.
– Ecco, disse lui a bassa voce, affinché non sentisse sorella Marta, che si trovava sul letto di fianco, è che Costi mi ha picchiato.
– Lui ti ha picchiato, e tu, scimunito, ti sei lasciato picchiare!
– Ma lui è più forte!
Persida rimase un istante a pensare, il fiato sospeso e gli occhi fissi in un angolo.
– Andiamo!, disse poi, e lo afferrò per un braccio conducendolo verso l’uscita, dove la chiave era nell’uscio.
– Sidi, Sidi!, gridò sorella Marta spaventata, cercando di fermarla.
– Andiamo!, ripeté Sidi più forte. Non ha il permesso di venirci dietro!
Usciti in strada, si avviarono verso il ponte. Sì!, ma dall’altra parte c’era Mara, che non doveva vederli né sapere ch’erano passati. Sulla riva verso Lipova, dal ponte verso la collina, c’erano i Magazzini del Sale, un grande deposito d’assi in cui si raccoglieva il sale portato con le barche dalle cave di Ulioara, per essere venduto nei villaggi dei dintorni. Estate e inverno, giorno e notte, davanti ai Magazzini si trova un grande quantità di carri, e da qui in su lungo il corso Mureş si trova un’infilata di mulini natanti. Persida e Trică si incunearono tra i carri, aggirarono i Magazzini e si diressero verso i mulini. Quante volte, d’estate, avevano passato il Mureş sulla barchetta di un qualche mulino!
In quel momento, però, non era estate, ma primavera, e il Mureş era largo, larghissimo, torbido e fangoso, schiumante e pieno di mulinelli. I mulini, che in altri momenti si trovavano nei pressi della riva, alla quale erano collegati da una passerella, ne erano allora lontani, verso il centro del fiume, da dove il loro martellare monotono s’udiva appena. Come fare ad arrivare fin là, per pregare uno dei garzoni dei mugnai di traghettarli dall’altra parte?!
Non c’era modo! E tuttavia i due ragazzetti dai capelli color paglia e le guance rubizze non demordevano: che meraviglia essere lì, davanti alle onde che si precipitavano pesanti verso la piana lontana! Insieme ad esse giungeva anche una brezza primaverile, e sull’altra sponda, sulle pendici di Radna e di Şoimoş, spuntavano qua e là l’erba tenera e il verde del salice e del vinco.
– Aspetta! gridò d’un tratto Persida. Come fanno i mugnai ad arrivare ai mulini? Da qualche parte qui a riva dev’esserci una barca. Non aver paura! Sai che ai remi me la cavo!
– Paura io?!, rispose Trică. Guarda che d’estate ho remato anch’io!
Non sarebbe stata gran cosa se si fosse potuto, come d’estate, dar di remo di buona lena per condurre la barchetta a piacere; ma il quel momento il Mureş non aveva fondo, le onde correvano più rapide di quanto paresse da riva e la barchetta portava i due bambini secondo la volontà del buon Dio.
Gli occhi castani di Persida erano accesi: era uno spasso, e capirai che novità, soprattutto quando arrivavano a un mulinello, e la barchetta prendeva a roteava. Eppure la gente a riva si spaventò, quando vide la barchetta leggera con a bordo due piccoli inermi, e prese ad accorrere, soprattutto dai Magazzini del Sale verso i mulini, per prendere una barca e prestar loro soccorso.
Cosa sarebbe mai potuto accadere, in fondo? Le onde li avrebbero portati quanto li avrebbero portati, ma alla fine li avrebbero dovuti riportare a riva, come sempre fa il fiume con tutto ciò che vi naviga.
Ma sul tragitto si trovava anche il ponte, sul quale non di rado si schiantavano andando in pezzi le chiatte che giungevano dalla Transilvania. La gente correva quindi verso il ponte perché da lì avrebbero cercato di venir loro in qualche modo in aiuto.
Nel frattempo s’era andata spargendo per Lipova la notizia che una fanciulla era scappata dal convento insieme a un giovanotto. Una fanciulla e un giovanotto! Avrebbe forse potuto, nella testa della gente, la fanciulla esser pura, se era fuggita con un giovanotto? Invano le si sarebbe detto che sì, invano le si sarebbero mostrati i due, non vi avrebbe creduto comunque. Ma v’erano però altre persone accanto al ponte, davanti al convento, a render conto di come si fosse svolta la fuga dei ragazzi.
Mara, la pontonaia, vide l’insolita agitazione che era partita dai Magazzini e dal convento verso il ponte. Abbandonò quindi il suo posto e si affrettò verso Lipova. Guardando poi in direzione degli sguardi della gente scorse d’un tratto la barchetta portata dalle onde e altre due barchine che la incalzavano, portate da vigorosi rematori.
– Povera me!, gridò allora, colta da sgomento.
Alla morte avrebbe pensato, ma non che ci fossero proprio i suoi i bambini nella barchetta che si dirigeva veloce, sempre più veloce, verso il ponte.
Mara prese a correre e a chiamare la gente affinché aprisse il ponte, come di consueto quanto passavano le chiatte o le barche che portavano il sale.
Dall’altra parte, verso Lipova, cominciava ad accalcarsi sul ponte una folla raccoltasi in un batter d’occhio, in testa alla quale si trovava madre Aegidia, che avanzava di gran carriera, come una marionetta trascinata per i fili, gli occhi rivolti al cielo e le mani strettamente giunte a pregare la Madonna Vergine di Radna, dispensatrice di miracoli, che venisse in aiuto ai pargoli.
Vedendo madre Aegidia, Mara s’arrestò. Dalla suora il pensiero corse subito a Persida, e il suo sguardo riandò ancora più intento ai due fanciulli. Restò immobile, con gli occhi spalancati, le labbra strette e incurvate verso il basso.
– Santissimo Arcangelo!, gridò poi, segnandosi. Santa Maria, Madre Immacolata! Bambini, accidenti a voi! No, disse ancora, consolata, bambini come i miei non li ha nessuno!
E cosa sarebbe potuto capitar loro? Tra i pontoni che reggevano il ponte c’era spazio a sufficienza per far passare cento barchette come quella! Sì!, sì!, non poteva accader loro nulla di male: ne avrebbe avuto sentore, altrimenti, brutti sogni e presagi funesti.
Ma com’era finita Persida dal convento in mezzo al Mureş? Incamminandosi nuovamente verso madre Aegidia, per sapere cosa fosse accaduto, Mara era sempre più angustiata. Una cosa sapeva per certo: che Persida non se n’era scappata via dalle suore così, a ciel sereno. Doveva esserci sotto qualche inghippo!
Ma Mara sapeva bene come va il mondo, e quindi che le cose sarebbero andate più facilmente per il suo verso se avesse preso lei l’iniziativa.
– Ma bene, Madre, gridò, è così che badate Voi ai bambini?
E che poteva ribattere madre Aegidia, quando lei sola era colpevole, lei, e la sua grande debolezza?
Si fregava le mani e riponeva le sue speranze nella misericordia di Dio.
– Lascia andare, ora!, disse affranta. Guarda, la Madre di Dio ci viene in soccorso, la barchetta sta andando nella direzione giusta, va verso lo spazio tra i pontoni, e passa, passa, eccola che passa!
Tutti corsero a vedere la barchetta che scivolava sotto il ponte, e poi si voltarono e corsero ad affollarsi sull’altro lato per vedervela sbucare da sotto. Persida e Trică sedevano muti e angustiati, perché sapevano che annegare non sarebbero annegati, ma che dopo aver scatenato un tale scompiglio non se la sarebbero certo cavata a buon mercato.
Poco dopo li raggiunsero i mugnai che gli si erano messi alle calcagna, uno dei quali afferrò la catena della barchetta e presero a trascinarla a colpi di remo verso la sponda di Lipova.
E anche la folla si diresse verso riva, insieme a Mara e madre Aegidia.
Cosa non avrebbe dato la buona Madre affinché tutta quella ressa smaniosa restasse indietro, lontano, per poter parlare da sola con Persida. Poiché certo la suora era amante della verità, ma più ancora teneva al buon nome del convento, e d’ogni cosa avrebbe assolto la fanciulla se con una fandonia ben detta avesse protetto quel nome dai pettegoli. La calca era però non solo smaniosa, ma anche lesta, e fu madre Aegidia, coi suoi piccoli passi, a restare assai indietro. E Persida non sapeva dire altro che la verità. Scendendo dalla barchetta, passò veloce e impavida, a testa alta, in mezzo alla folla radunata sulla riva e andò diritto filato da madre Aegidia.
– L’ha picchiato, disse in fretta, gli ha strappato i capelli, l’ha preso a pugni nelle costole, gli ha strappato il colletto della camicia e l’ha graffiato sul collo.
– Chi l’ha picchiato?, domandò la Madre un poco sollevata.
– Costi Balcovici, rispose Trică, lento e scandito. Il signor maestro è andato a pesca, e Costi Balcovici ha fatto il prepotente, ma io non mi sono fatto mettere i piedi in testa.
– E io, aggiunse Persida, voglio fargli vedere che non creda di poter picchiare mio fratello solo perché è più piccolo e non ha nessuno che lo aiuti.
– Poverelli di mamma!, esclamò Mara commossa. Si voglion bene, gioie mie, continuò asciugandosi le lacrime, si vogliono bene l’uno l’altro come i bambini poveri che sono.
Madre Aegidia era anche lei commossa non solo per le lacrime della vedova, ma anche perché comprendeva lo slancio spontaneo e dabbene della fanciulla, e ancor più perché il buon nome del convento era salvo.
– Ecco, disse con lieta serenità, invece di occuparsi della scuola, il maestro se ne va in giro a pescare, e intanto i bambini s’accoppano tra loro. E quante altre disgrazie sarebbero potute accadere, non fosse per la protezione dell’Altissimo. Da noi queste cose non succedono!
– Si capisce!, disse Rosa, la moglie di Hansler, il calzolaio dall’altra parte della strada. Da noi ci sono delle regole! I romeni invece fanno solo pasticci!
– Proprio così, dissero alcuni, mentre altri ridevano. Tutto sarebbe stato buono e bello se non vi fossero stati tra i presenti anche alcuni romeni, le cui guance si accesero vuoi di rabbia vuoi di vergogna.
– Non intendevo dire questo, riprese madre Aegidia. Anche dai romeni ci sono delle regole, solo che, si vede, non dappertutto.
– Quel Blăguţă è un peccatore, aggiunse Maria di Ciondrea, che non poteva soffrire il maestro di Radna.
Mara stava sulle spine. Sapeva che i papalini sono una razza di gente astiosa, e lei a Blăguţă ci teneva, perché era un apprezzato cantore di chiesa. E poi si sentiva trafitta come da come un ferro rovente a vedere che intanto sul ponte persone e persino carri passavano senza pagare i centesimi che le erano dovuti. Di riffa o di raffa, la suora non poteva avere ragione.
– Ma mia figlia com’è uscita dal convento?, disse Mara scandendo bene le parole. Se i bambini fossero affogati nel Mureş la colpa sarebbe stata sempre del nostro maestro?
Madre Aegidia prese timore e cominciò a tremare. Non era abituata alla folla, in mezzo alla quale si trovava, e sudori freddi la percorsero quanto pensò che tra quella gente avrebbe potuto scatenarsi una zuffa. Si sentiva come se sulle colline di Radna dall’altra parte del fiume si fosse scatenato un furioso temporale che li avrebbe raggiunti in pochi istanti.
– Suvvia, Sidi, ragazza mia!, disse prontamente la Madre. Bacia la mano di tua madre e andiamo!
Mara avrebbe voluto avere sottomano almeno un orciolo, per poterlo spaccare in mille pezzi.
Ma senti un po’!, che arrivi una, si prenda sua figlia e gliela porti via senza che lei possa far nulla, mentre sul ponte cristiani e carri passano senza pagare un soldo!
– La ragazza resta con me!, disse allora, benché soltanto a mezza voce.
– No, mamma!, intervenne Persida, che sarebbe sprofondata per la vergogna se non avesse potuto tornate subito indietro. Cosa avrebbero detto le altre ragazze? Io, continuò, devo tornare a lezione!
Madre Aegidia era la più felice delle suore sulla riva sinistra del fiume.
– Proprio così, disse. Ti prego, aggiunse voltandosi quindi verso Mara, vieni anche tu con noi.
Quattro carri carichi di sale svoltarono in quel momento verso il ponte, per attraversarlo diretti a Radna, mentre altri due arrivavano sul ponte in direzione di Lipova.
– Ora non posso!, rispose Mara, e si incamminò veloce verso il ponte, per riscuotere i suoi centesimi, mentre madre Aegidia si avviava insieme a Persida verso il convento e Trică teneva dietro alla madre in mezzo alla folla che si andava disperdendo.

Traduzione di Roberto Merlo

(n. 7-8, luglio-agosto 2022, anno XII)