«Che tu sia il benvenuto, qui il futuro è quasi passato». Alla memoria di Ioan Es. Pop (1958-2024)

Alcuni anni fa, durante un colloquio letterario in occasione dell’uscita del suo ultimo volume, Un somn pe scaunul electric (Sonno sulla sedia elettrica, Ed. Tracus Arte 2020), Ioan Es. Pop raccontava di come il tempo poetico della sua esistenza fosse passato più agevolmente di quello del vivere reale, e che i 26 anni trascorsi dal suo debutto (nel 1994, con il volume Ieud fără ieșire) sarebbero stati molto più semplici se avesse avuto la possibilità di viverli nel tempo delle sue poesie. «La vita nel tempo poetico è più semplice […] mentre nel tempo della vita, si vive più duramente».
Ioan Es. Pop adesso non è più tra noi e forse è lecito pensare a quanto duramente abbia vissuto lui che, a dispetto di qualsiasi sofferenza, con o senza il bicchiere in mano, aveva sempre un sorriso timido e accogliente sulle labbra, un sorriso incredibilmente puro, come se la sua risposta alla durezza dell’esistere fosse stata la gentilezza, scelta e usata come strumento di sopravvivenza, misura di umanità. E la sua scomparsa è una grande perdita umana che lascia un terribile vuoto anche nel mondo culturale, romeno e non.
Nel 2016 ho tradotto Ieud fără ieșire (pubblicata dalla casa editrice livornese Valigie Rosse, con il sostegno dell'Istituto Culturale Romeno di Bucarest, con il titolo Un giorno ci svegliamo vivi. Ieud senza uscita e altre poesie) ma la poesia di Ioan Es. Pop per me è stata fin dall’inizio una materia molto speciale, che mi ha accompagnata per anni e che ha funzionato come una lente sul mondo e sulla fragilità dell’individuo, sul postcomunismo e sulla poesia. E non potrei immaginare un inizio più dirompente e fondamentale perché, ne sono certa, senza quell’incontro non sarei diventata traduttrice di poesia. È stato un colpo di fulmine poetico, immediato, paradossale. Un percorso di crescita umana e letteraria, costantemente nutrito e arricchito dalle sue risposte alle mie domande, mentre cercavo la via d’accesso alle «stanze del poeta», al mondo del suo immaginario, al suo inferno personale che certe volte guardavamo insieme, io più o meno sbigottita, lui sorridente e calmo.

E tuttavia, rimane la sua eredità poetica, nella teoria e nella pratica della scrittura, e Ieud fără ieșire in particolare entreràstabilmentenell’immaginario collettivo di chi ha vissuto la transizione degli anni ’90. Ho partecipato a letture in cui i famosi versi aici nu stau decât doar cei ca noi. aici / viața se bea și moartea se uită (qui non ci sono che quelli come noi. qui / la vita si beve e la morte si dimentica) erano pronunciati all’unisono dal pubblico come un ritornello, e ancora oggi non è difficile ritrovarli scritti sul muro di una qualche strada secondaria o ironicamente impressi sul bancone di un qualche bar di Bucarest. Versi indimenticabili, come un monito che parla di fragilità e umana disperazione, un’eredità raccolta dalle generazioni poetiche successive, soprattutto dei douămiiști (poeti che debuttano appunto all’inizio degli anni duemila) che partiranno spesso dalla lezione di Ioan Es. Pop sul cammino della loro formazione artistica.

Concludo questo mio piccolo contributo, in ricordo di un grande poeta e di un caro amico dall’anima bella, con le parole del poeta italiano Andrea Inglese che, nella prefazione a Un giorno ci svegliamo vivi. Ieud senza uscita e altre poesie, scrive:

«L’evocazione di questo sfondo storico [quello del comunismo N.d.r.] non ha come scopo quello di fornire delle chiavi di lettura introduttive, in quanto è semmai la poesia che apre, in quello sfondo, squarci che la parola storica non può dire. Questo vale particolarmente per l’opera di Ioan Es. Pop: la sua è una poesia del fondo, di ciò che rimane sul fondo, di quel che resta dell’umano, quando lo si sia liberato delle sue parti migliori. Da questo punto di vista, il nichilismo che pervade i suoi testi potrebbe costituire un esperimento formativo per tanta parte della poesia che si scrive e si legge oggi in Italia […]. Nelle poesie qui raccolte non si coglieranno preziosi sforzi per salvaguardare qualche zona della vita integra e ben illuminata, racchiusa in versi scritti bene, con perizia lessicale e metrica. I versi di Pop escono come a sprazzi, intontiti, a volte lacunosi, con parole elementari e dure, a martellare alcune immagini ossessive, certi ritornelli destabilizzanti, dove in questione non è la parte migliore dell’essere umano, ma la sua sorprendete capacità di fare il morto e di trascinarsi in uno stato di prigionia o sepoltura mentale, che sembra costituire l’unica forma tollerabile di esistenza.»

1. come un mesto, maestoso uccello marino
la sfortuna plana sugli alloggi degli scapoli
di strada oltețului 15.

qui non ci sono che quelli come noi. qui
la vita si beve e la morte si dimentica.

e non si sa mai chi è contro chi, chi con
chi, né quando né perché.
solo il vento a volte porta odore di fumo e stridore di armi
dai campi di catalaunici.

quando sali da noi, amico, stai attento: alla porta ti accoglieranno
i pidocchi di san josé. c’è il custode qui. ti si butterà ai piedi.
ti dirà dammi cinque lei capo che ti porto sull’altra riva, la porta
è chiusa, questi mi lasciano sempre fuori, mi hanno imprigionato fuori.
tu non credergli, amico, tu non lo sai, ieri è venuto l’amministratore
ha spadroneggiato su tutto il pianerottolo, è lui che comanda ora
in questa camera, su questa nave maledetta sotto cui le acque si sono ritirate
ed è rimasta pietrificata qui, al terzo piano.
allora lo paghi, amico, ha lui il timone e si dondola di continuo,
come una volta quando la nave balzava sulle acque.
e se bestemmia lo ascolti devoto: lui quando bestemmia
prega, come fanno tutti qui.
come farai anche tu presto.

qui non ci sono che quelli come noi.
qui la vita si beve e la morte si dimentica.

solo in rari istanti di pentimento e fede, di notte
i muri si assottigliano, si allungano, si innalzano
come un sudario tremante vestito di un corpo non terreno.
ma non si sveglia nessuno e al mattino l’edificio è di nuovo una
camicia sgualcita, dalle cui tasche usciamo solo noi e basta
solo noi e basta.

qui non ci sono che quelli come noi.
qui la vita di beve e la morte si dimentica.




14. fuggi dalla sua carne perché è carne di sogno.
a ritroso nell’abbazia del corpo e non insistere più
per lasciarla. sfoglia chino a lume di candela
il manoscritto un tempo incandescente di muri,
ma non passare oltre le pagine, queste
pietre di pareti. e lascia più spesso di ora
che il sonno ti vinca.

se ti avanza tempo prendi malta e mattoni
e raddoppia i muri ingrossa le pareti porta giù
il soffitto fino a che non ti rimanga altro posto
se non per dormire. e soprattutto
riempi lì dove c’erano finestre e porte.

non srotolare le parole da nessuna parte. le parole possono
corrodere la calce e macinare la pietra delle pareti:
dall’altra parte non troverai altro che lei ancora una volta.

fuggi dalla sua carne perché è carne di sogno.


in questa solitudine in cui d’inverno non ho più
il coraggio di accendere il fuoco nella stufa perché la stufa
fa più fumo che fuoco

in questa felicità provvisoria da
novembre a marzo
come ieri so che domani non sarà altro domani che
il solito oggi e oggi e oggi e oggi tutto il tempo
e oggi per oggi non si può fare granché.

è giusto, in questa solitudine non qualsiasi uomo solo
durerebbe a lungo. eppure c’è
una gran quantità di sciocchezze che bisogna onorare:
il desiderio di essere ad ogni costo
l’impotenza di amare ancora anche
il giorno di ieri.


4. se la verità ci fosse ancora, amico, per noi
sarebbe meglio rimanesse sconosciuta
perché noi siamo ancora tra chi è capace di accoglierla.
siamo troppo vecchi a questo tavolo, è duro perdere le abitudini,
la strada brulica, i corpi ci irritano –
ci hanno sempre impedito di essere ciò che avremmo voluto.
però amico, non beviamo più come l’anno scorso. non aspettiamo più
uno più solo di noi che venga a sedersi e a
salvarci. ora non l’aspettiamo più.
però ci siamo abituati a questo posto e per abitudine veniamo
a questo tavolo e quando uno di noi un bel giorno, l’altro
non se ne accorgerà neppure e non si meraviglierà
nessuno, perché qui nessuno è superiore agli altri.

dovremmo essere felici, amico, perché non lo siamo?
per di più il padre è assente, possiamo permetterci qualsiasi cosa.

 

12 ottobre 1992
sono un uomo solo. non c’è alcun orgoglio in questo. solo ci sono
orde di infelici che vagano e cercano
altri infelici – solo che tra infelici e infelici
esistono larghe soglie di infelicità,
alcuni hanno molti soldi, altri hanno speranze
vane – non esistono infelici di un solo tipo.

e quando, nonostante tutto, si uniscono,
gli infelici fanno rivoluzioni, dopo di che
gli si porta via tutto

 

perché i tuoi occhi sono grandi e non guardano questo mondo.
per questo ti ho amato così tanto.
perché dalla loro finestra non ha sporto lo sguardo
nessuno mai su questo mondo.

fossi stata solo un velo di erbe galleggianti
e io non fossi stato altro che l’acqua che ti conduce
e dondola mentre scorri, per non farti più svegliare.
fossi stato solo l’acqua che ti conduce.

e quando l’autunno verrà a chiudere
la soglia appassita della tua bocca,
io ti spingerò sotto la riva, per non lasciarti scorrere,
quando verrà l’autunno, su altre acque.

che sia io l’unica lacrima con cui sarai compianta.
ma una lacrima grande, che porti via con sé
anche l’occhio di chi ti compiangeva.


A cura di Clara Mitola
(n. 7-8, luglio-agosto 2024, anno XIV)