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Anteprima. «La belle Roumaine» di Dumitru Ţepeneag
Dumitru Ţepeneag (conosciuto anche come Tsepeneag), prosatore, pubblicista e traduttore nato a Bucarest nel 1937, è lo scrittore romeno vivente più conosciuto in Francia, uno dei più studiati e apprezzati in Romania e tra i più tradotti all’estero.
Negli anni Sessanta, insieme al poeta Leonid Dimov, è l'esponente di spicco dell'onirismo, l'unica corrente letteraria che ha il coraggio di opporsi al realismo socialista imperante. Nel 1975 il regime di Ceauşescu gli ritira la cittadinanza rendendo la sua creazione letteraria, le opinioni culturali e civiche inaccessibili al pubblico romeno. Nei lunghi anni di esilio a Parigi scrive solo in francese e traduce autori come Malraux, Robbe-Grillet e Derrida. Ricomincia a scrivere in romeno solo dopo la rivoluzione del 1989.
Il 19 maggio 2008 riceve il Premio Unione Latina di Letterature Romanze (XVIII edizione) per l’eccellente qualità artistica dei suoi romanzi, saggi e memorie, ma anche per il suo impegno a favore della difesa delle forme letterarie e della libertà di espressione.
Introduzione al romanzo La belle Roumaine
«La vita non dev’essere un romanzo impostoci, bensì un romanzo fatto da noi». Con queste parole di Novalis, Dumitru Ţepeneag ci catapulta nella tormentata storia di Ana, la belle Roumaine che fa della sua vita un romanzo, un opera d’arte.
Sullo sfondo di un’Europa in cui i fratelli dell’ovest e dell’est si possono finalmente riabbracciare, una famme fatale che somiglia alle attrici del cinema d’anteguerra, presumibilmente una spia romena della Securitate «dimenticata» in Occidente dopo gli eventi del 1989, attende istruzioni dall’alto nella speranza di poter tornare a casa.
Hannah Silbermann vive a Berlino, è castana e dice di essere figlia di un deportato ucciso ad Auschwitz. Frequenta due amici filosofi – Johannes e Dieter – che la iniziano alla loro disciplina e fanno di lei la loro amante e protetta. Nonostante si trovi bene nel ménage à trois, Hannah è costretta a lasciare la capitale tedesca in seguito alla comunicazione di un «collega» che la informa circa la sua prossima destinazione: Parigi. Uno dei due amici tedeschi le regala un piccolo di avvoltoio come regalo d’addio.
Arrivata a Parigi cambia colore di capelli – sceglie il biondo platino – e anche identità. Un giorno entra in un caffè parigino qualunque (così esordisce il romanzo), il locale di Jean-Jacques, che nota subito la somiglianza tra la bella misteriosa dall’accento esotico e l’attrice di origine romena Elvire Popesco. L’uomo le riserva il tavolo nella speranza che ritorni tutti i giorni e inizia a sognare di poter entrare in intimità con lei. Iegor, russo naturalizzato francese gran bevitore di vodka, cliente fisso nonché amico di Jean-Jacques, riesce nell’impresa di conquistarla e scopre che si chiama Ana, è infermiera e viene dalla Romania: paese che lui ha sempre disprezzato perché covo di zingari e impostori; è la figlia di un uomo che fu perseguitato dal regime comunista di Georghe Gheorghiu-Dej (predecessore di Ceauşescu) e rinchiuso in un gulag stalinista. La donna vive in un appartamento di lusso e nasconde più di un segreto: attende paziente il ritorno di Mihai (che sembra essere il capo nonché l’amante della belle Roumaine), possiede un avvoltoio in gabbia che chiude nello sgabuzzino ogniqualvolta Iegor si presenta a casa sua e un piccolo registratore che tiene vicino al letto, e per di più appare misteriosamente in posti che si suppone non dovrebbe avere motivo di frequentare. È una spia? È una prostituta? Cosa succede esattamente quando viene ritrovata in un lago di sangue nella vasca da bagno?
La struttura frammentata del romanzo non permette di capire esattamente quale sia l’ordine degli avvenimenti, né di fare chiarezza sul destino della protagonista. La vicenda principale si intreccia con innumerevoli flashback e flashforward, intermezzi dalla durata variabile per mezzo dei quali l’autore ci mette al corrente di fatti più o meno importanti e attinenti allo svolgimento della vicenda. Attraverso queste piccole rivoluzioni temporali abbiamo modo di ascoltare le lunghe conversazioni di Hannah con i due filosofi, assistere mentre il pittore Edouard la ritrae con indosso una ie, camicetta tradizionale romena, entrare nella sua frequentata e movimentata camera da letto, accompagnarla nei suo spostamenti in treno e metropolitana ed essere testimoni del ritrovamento del suo corpo insanguinato nella vasca da bagno. È davvero morta? Se sì, è stato suicidio oppure omicidio? Per mano di chi? E perché? Queste domande rimarranno insolute: al lettore l’arduo compito di ricomporre la realtà.
La belle Roumanie è un esempio inconfutabile di polifonia narrativa in cui finzione e realtà sono così bene intrecciate da non poter essere più districate neanche dall’autore in persona. Il narratore onnisciente dosa le informazioni con il contagocce, creando un’atmosfera di suspense che obbliga il lettore a finire la lettura prima di poter trarre qualunque tipo di conclusione.
Con i suoi innumerevoli salti in avanti e indietro nel tempo, gli intermezzi che tradiscono gli interessi e i pensieri non solo dei personaggi ma anche dell’autore stesso (da notare soprattutto le pagine spese in difesa della traduzione come mezzo di comunicazione interculturale e le digressioni sulla situazione politica romena in particolare ed europea in generale all’epoca della caduta del muro di Berlino) e la sua molteplicità di piani narrativi, il romanzo di Ţepeneag sembra costruito con il rigore strategico dello scacchista. Il risultato è simile a una composizione musicale complessa, con temi e variazioni contrappuntistiche, con Leitmotive che si ricorrono e si intrecciano lungo la narrazione. Chi si aspetta che a una struttura così complessa corrisponda un linguaggio altrettanto elaborato non potrebbe essere più lontano dalla verità: l’autore si muove con agilità tra i vari registri, destreggiandosi in modo impeccabile nelle scene di sesso che hanno per protagonista la bella esule e i suoi vari amanti, parlando di filosofia e di politica, e perfino nei dialoghi.
Temi
La condizione dell’esule romeno è indubbiamente il tema che più preme all’autore. La trattazione di questo argomento, così come l’intero romanzo del resto, è tuttavia molto sui generis: avviene in via del tutto indiretta, prendendo di petto i luoghi comuni legati alla Romania che più circolano in Europa. La protagonista è sospettata di essere una spia o una prostituta e le sue relazioni amorose hanno un sostrato simbolico non casuale: a Iegor, russo che odia la Romania, racconta di essere una romena il cui padre è stato torturato in un gulag stalinista; a Johannes e Dieter, filosofi tedeschi, dice di essere un’ebrea rimasta orfana di padre a causa delle persecuzioni naziste. La donna costruisce la sua biografia in base all’interlocutore, sperando di risvegliare nell’altro un sentimento di vergogna e pentimento nei confronti del suo credo e della propria razza.
Nonostante i continui spostamenti e la relativa indipendenza di cui gode, Ana/Hannah è libera quanto il piccolo di avvoltoio di cui si prende cura: ha lo spazio sufficiente per distendere le ali, ma non la possibilità di spiccare il volo. Ecco un altro simbolo dello status del senzaterra, un’immagine che diviene ricorrente nei punti più importanti della narrazione ed è simbolo dell’oppressione e della mancanza di libertà, di quanto la fuga dal paese d’origine sia vana se prima non si fanno i conti con il proprio passato.
Un altro tema sul quale l’autore si sofferma è un «vecchio amico» che permette di condire la realtà e di evadere dal quotidiano: il sogno. Jean-Jacques sogna di possedere la bella Ana e sceglie di vivere in segreto questa realtà parallela, convinto che svanirebbe se solo provasse a descriverla e raccontarla.
Da sottolineare anche le lunghe digressioni su temi linguistici e traduttologici, il peso dell’accento sulla formazione dell’identità personale e l’importanza della traduzione come tramite interculturale.
Ileana M. Pop
Brani estrapolati da
Dumitru Ţepeneag, La belle Roumaine, Aìsara 2012
1º brano
Si sedeva sempre allo stesso tavolo. Difficile spiegare come mai lo trovasse libero ogni volta. Soprattutto all’inizio, o per l’esattezza i primi tre giorni: nessuno lo occupava mai prima che arrivasse lei. Una semplice coincidenza, diciamo. I giorni successivi, tuttavia, non si trattò più di un caso fortuito, ma di Jean-Jacques, il proprietario del locale, che vegliava sul tavolo perché rimanesse libero, tanto era convinto che la bella bionda sarebbe tornata ancora. Convinzione o speranza, piuttosto: le due si intrecciavano nella sua mente e lo spingevano a comportarsi in un modo che rischiava di sembrare bizzarro agli occhi dei clienti abituali. E poiché era sempre lui a dover stare dietro il bancone, come poteva resistere alla tentazione di sorvegliare i movimenti, il più delle volte aleatori, dei clienti, e in qualche occasione perfino di intervenire?
«Qui non si può sedere. Questo tavolo è riservato».
Il cliente sembrava un po’ sconcertato. Teneva in mano un giornale arrotolato: no, non era «Le Monde», era il «Paris-Turf», su cui si distingueva solamente la testa di un cavallo con i paraocchi, quelle protezioni in pelle necessarie ai cavalli da corsa più paurosi che corrono malvolentieri in plotone; i paraocchi li obbligano a guardare esclusivamente davanti, e mai ai lati. Jean-Jacques annuiva, segno che capiva perfettamente il trucco; in questo modo il cavallo crede di essere solo sul manto erboso della pista, vivace e libero, non è stressato dall’idea della competizione. Le spiegazioni del cliente furono abbastanza convincenti. Anche se, pensò più tardi il bistrotier, durante la corsa all’ippodromo il cavallo non può non sentire l’umanoide che gli si agita sulla groppa come un diavolo e che, per di più, di tanto in tanto lo colpisce con quella specie di verga elastica rivestita in pelle. Non può non percepire quella volontà estranea che si manifesta con percosse una più dolorosa dell’altra…
Jean-Jacques era un uomo corpulento che, si potrebbe dire, dimostrava più anni di quanti ne avesse in realtà. In altre parole, il suo aspetto non poteva non incutere un certo rispetto nei clienti. Perciò l’altro, il cliente del «Paris-Turf», lo guardò con attenzione per cercare di capire se per caso non lo stesse prendendo per il naso. Ma no, Jean-Jacques sfoggiava un’espressione piena di gravità, non sembrava aver voglia di scherzare.
«Riservato?!» si meravigliò il «turfista».
«Sì, sì, il tavolo è riservato. Non insista».
«Ma allora ci metta un cartellino, un’etichetta, qualcosa perché si capisca» borbottò il cliente, che qualche volta si sarebbe seduto volentieri a quel tavolo per leggere il giornale.
Bisogna ammettere che il tavolo si trovava in un’ottima posizione: né troppo vicino alla vetrata del piccolo bistrot che Jean-Jacques chiamava pomposamente caffè e nemmeno troppo lontano, bensì in disparte, all’ombra dell’attaccapanni a cui la bella sconosciuta appendeva la pelliccia, ancora necessaria in quei giorni di febbraio più freddi del solito. Si dice che le donne impazziscano per i visoni, ma certe considerano la volpe argentata ben più chic. Probabilmente la pelliccia realizzata con code di volpe argentata aveva contribuito in certa misura all’ammirazione del ristoratore per la donna che somigliava, a suo parere, alle attrici dei film d’anteguerra. Donne vere, come Dio comanda! Belle, eleganti e con ogni cosa al posto giusto…
Bella, era bella! I lineamenti perfettamente regolari del viso componevano una fisionomia gradevole e intelligente, sebbene a volte i suoi occhi turchesi si perdessero nel vuoto e le labbra si contraessero in una leggera smorfia. Si sarebbe potuto dire che soffrisse o che rimuginasse pensieri non precisamente rosei. Chissà quali ricordi difficili da sopportare si trascinava dietro, chissà di quale crudele passato era tuttora prigioniera… Per questa ragione non sembrava tanto giovane quanto bella! Fortunatamente per lei e per tutti i clienti del locale, questa sua smorfia appariva abbastanza di rado e scompariva seduta stante.
Il suo tavolo era quindi perfettamente visibile dal bancone dietro cui Jean-Jacques sfaccendava senza sosta. Eppure l’uomo non osava guardarla in faccia né fissarla troppo a lungo, come avrebbe tranquillamente potuto fare dal posto strategico in cui si trovava. Si accontentava di lanciarle occhiate rapide, di sbieco, si potrebbe dire che la mangiasse con gli occhi, ma in modo intermittente. Che la sbocconcellasse…
Non si tratteneva mai per più di mezz’ora. Di solito ordinava un caffè con un goccio di latte, occasionalmente accompagnato da un croissant. Aveva una voce grave, e un accento che Jean-Jacques solo con grande sforzo riuscì a identificare.
No, non era italiano: l’accento italiano gli era familiare perché da giovane era andato più volte in Italia e aveva avuto perfino una relazione con una fiorentina che a un certo punto era sparita senza lasciare traccia. […]
La bella sconosciuta, dunque, non parlava con quell’accento italiano così caratteristico, come era stato spinto a credere all’inizio. Del resto non sembrava italiana neanche nei tratti, che avevano piuttosto qualcosa di slavo… E questo non solo perché era bionda con gli occhi azzurri. Perché anche le tedesche sono bionde, e anche loro hanno gli occhi azzurri. Così come le svedesi, le danesi, le nordiche in generale. E non dimentichiamo le inglesi. Poi non era nemmeno sicuro che, in realtà, i suoi capelli dorati non fossero tinti o quantomeno ossigenati. Detto questo, non si trattava solo dei capelli o degli occhi, ma anche di qualcos’altro, difficile da spiegare…
2º brano
Johannes non era molto più grande di lei, forse non lo era affatto. Difficile dire che età avesse questa donna misteriosa venuta dalle bocche del Danubio… Il fascino che esercitava sugli uomini era dovuto, tra le altre cose, anche a una certa ambiguità: la coltivava o si limitava semplicemente a compiacersi dell’atmosfera fumosa delle sue origini? Johannes sorrise, poi si morse le labbra. Si sforzò di convincersi che non fosse il caso di spaccare il capello in quattro. A che pro? Tornò alla scrivania. Si sfilò le pantofole.
Hannah aveva gli occhi azzurri e i capelli neri, così neri e lucidi da sembrare tinti. Questo non significava che fossero necessariamente biondi o castano chiari, ma quel nero ebano non poteva nemmeno essere naturale. In ogni caso il contrasto con la pelle bianchissima era adorabile. Aveva l’aspetto di una geisha. Una di quelle geishe delle stampe erotiche. Johannes ne era davvero colpito.
Hannah esercitava sugli uomini un fascino che il nostro filosofo non riusciva ad analizzare e che non osava nemmeno imputare alle sue origini giudaiche. Le generalizzazioni di questo tipo sono solo la porta che conduce al razzismo. D’altronde i lineamenti di Hannah non erano per niente semiti. Siccome veniva dall’Est, i suoi antenati dovevano per forza essersi mescolati con slavi, ungheresi, romeni. Le razze pure non esistono, o più semplicemente sono le razze a non esistere? In ogni caso questo fascino non aveva che un vago legame col suo aspetto fisico, con la sua bellezza, ed era dovuto più che altro a quel certo suo modo di essere infantile. Il fatto che enfatizzasse la propria ingenuità, il proprio candore, era di sicuro evidente, ma di per sé significava ben poco; era esso stesso una forma di ingenuità, un tratto puerile o un retaggio dell’infanzia risalente al momento in cui aveva scoperto quanto gli adulti amassero l’innocenza dei bambini. Una strategia infantile… Invece di sospettarla di ipocrisia e lasciarsi infastidire dalle pose che assumeva per fargli piacere, fingeva di non vedere; ficcava il naso nei suoi libri di filosofia e talvolta riusciva perfino a non notare quegli atteggiamenti che in altre situazioni avrebbero potuto turbarlo. Quando ce l’aveva di fronte sapeva scegliere esclusivamente ciò che gli andava a genio. Riusciva a non vedere tutto il resto. E questo grazie alla sua forza di carattere, la stessa che gli permetteva di concentrarsi appieno su ogni attività che svolgeva. Era in grado di chiudere molto velocemente ogni parentesi della mente, e dunque, per quanto gli piacesse questa donna, non si poteva concludere che rappresentasse per lui un’ossessione. Almeno così gli piaceva credere…
Si tuffava nella lettura, prendeva appunti con scrupolo, di tanto in tanto si fermava per guardare dalla finestra. Il cielo era azzurro. Sorrise quasi felice…
Dieter fece un salto dall’amico Johannes. Come al solito, l’idea di telefonare per avvisarlo non lo sfiorò minimamente. Entrambi ci avevano fatto l’abitudine già dai tempi della scuola. Tuttavia, da quando Hannah si era trasferita con armi e bagagli da Johannes, le sue visite intempestive rischiavano di rivelarsi imbarazzanti. Fosse come fosse, quella mattina non era questo il caso…
«Dov’è Hannah?»
«Mhm… è uscita a fare compere.»
«Mi è sembrato di vederla una sera nell’atrio di un cinema. Stavo passando da quelle parti, andavo di fretta. Ho pensato che ci fossi anche tu con lei…»
«E c’ero?»
«No. Non lo so. Non ti ho visto».
Dieter non gli disse di averla vista con un tipo alto, uno sconosciuto con la faccia da turco. Preferì non raccontargli nulla di tutto ciò.
«Be’, invece c’ero… Non mi hai visto, ma c’ero. Forse ero sceso alla toilette. Sì, è per questo che non mi hai visto».
«Sarà…» mugugnò Dieter leggermente a disagio.
Johannes evitò il suo sguardo. Si alzò, andò verso la finestra, e tornò poco dopo strascicando le pantofole e disse come per scusarsi: «Hannah ci teneva da morire a vedere quel film. Mi stava facendo una testa così da giorni. Ne aveva fatto un’ossessione…».
«Che film?»
«All’inizio le ho detto: “Vacci da sola, se ci tieni tanto. Perché devi trascinarci pure me?” Ma lei: “No, vieni anche tu…”».
«E che film avete visto?»
«Che film? Ah, un giallo. Adesso mi sfugge il nome. Aspetta… qualcosa come Hotel Europa… Sì, sì, proprio Hotel Europa». Poi schioccò le labbra in segno di disprezzo.
Dieter si sentiva sempre più a disagio. Si frugò nelle tasche e tirò fuori un pacchetto di sigarette stropicciato. Guardò l’amico con la coda dell’occhio e disse: «Va be’, non ha importanza».
«Un film un po’ scarsino, direi. E per di più pretenzioso! È questo che mi ha dato fastidio più di tutto! Se avesse avuto meno pretese, magari sarebbe stato anche accettabile. Avrei potuto fare un piccolo sforzo. Ma così… A un certo punto stavo quasi per addormentarmi. È inutile che ridi! I film di questo tipo mi annoiano. E per giunta sono pure faticosi».
«Faticosi?»
«Sì, faticosi, perché devi stare attento, devi concentrarti, non puoi pensare ad altro e se non vuoi perdere il filo ti tocca memorizzare ogni dettaglio… E tutta questa fatica per che cosa? Per scoprire che cosa? Me lo vuoi dire?»
«La soluzione dell’enigma» ridacchiò Dieter. «Scopri chi è l’assassino…»
«E cosa me ne frega, a me, di scoprire chi è l’assassino, chi ha commesso il delitto? L’autore l’ha commesso! È lui l’assassino. Insomma, lui è l’autore morale, quello che ha fatto sì che il delitto avesse luogo. Questa è la verità nuda e cruda».
Johannes si era infervorato. Era capace di inveire all’infinito contro i film gialli, che detestava tanto quanto le pellicole americane, con o senza effetti speciali, e quanto tutta la produzione hollywoodiana… Ma in quel momento l’amico non aveva alcuna voglia di discutere né di film gialli né di cinema americano. Soprattutto perché pensava che Johannes non la stesse raccontando proprio giusta circa Hannah e la serata al cinema. C’era qualcosa che non andava. Ci avrebbe pensato con calma più tardi: doveva capire come stavano le cose.
«È tutto artificiale nei gialli, film o romanzi che siano. Sono fatti in serie, basta seguire la ricetta…»
«L’arte della pasticceria…»
«I film sono tutti uguali, visto uno, visti tutti».
«Hai scoperto l’America…» ironizzò Dieter, per poi aggiungere che i film gialli non meritavano un dibattito prolungato. «Stiamo perdendo tempo!» concluse e si alzò in piedi. Si avvicinò al piccolo bar al centro della libreria e si versò un bicchiere di whisky.
In seguito parlarono di tutt’altro.
Traduzione dal romeno di Ileana M. Pop
(n. 5, maggio 2012, anno II)
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