Nae Ionescu, il seduttore di una generazione È uscito in libreria, per la collana «Storie» dell’editore Castelvecchi di Roma, la traduzione italiana della biografia di Tatiana Niculescu, Nae Ionescu. Il seduttore di una generazione (edizione originale: Seducătorul Domn Nae, Humanitas, București 2020), a cura di Horia Corneliu Cicortaș e dello scrivente. Igor Tavilla
Il Professore è sempre di una puntualità teutonica. Nessuno osa entrare dopo di lui. Una volta che la porta dell’anfiteatro si chiude, al ritardatario non resta che origliare, oppure, sbirciando attraverso il buco della serratura, cercare di cogliere frammenti dello spettacolo grandioso che comincia all’interno. Le parole, l’argomentazione, la presenza del maestro si concentrano quindi nell’unico dettaglio che può comunque essere seguito dall’esterno, dal momento che il Professore ha l’abitudine di sedere immobile alla cattedra: la sua mano destra.
Nella coreografia della mano, lo studente ritardatario Mircea Vulcănescu, rimasto nel corridoio, segue la cadenza di un pensiero di cui gli studenti non sarebbero mai stati in grado di dire se fosse il pensiero del professore oppure il loro. È un incontro tra la maieutica socratica e il fascino esercitato su di loro dalla messa in scena trepidante e aleatoria delle idee, praticata dal Professore con consumata arte. Il buco della serratura diventa una lente d’ingrandimento che convoglia sulla retina dell’occhio insaziabile l’unico movimento di un corpo immobilizzato dalla trance della comunicazione: la mano «ora palpitante come una fiamma accesa, ora divenuta improvvisamente una freccia puntata, ora sbocciando come un fiore vorticoso, ora infrangendo gli slanci di netto come una pietra di confine – mentre egli spiegava agli studenti il senso della “rivelazione”» [1]. In un corso sul Problema della salvezza in Faust, nell’anfiteatro dove si faceva «un silenzio innaturale» non appena entrava quell’«uomo bruno, pallido, con le tempie scoperte, le sopracciglia nere, folte, arcuate, che gli davano una certa aria mefistofelica, e grandi occhi di un azzurro intenso e metallico, straordinariamente brillanti», vestito «con elegante trascuratezza», le mani del Professore sono seguite da altri occhi incantati, come in una seduta di ipnosi, poiché egli «aveva le mani più belle ed espressive che io abbia mai visto, con dita lunghe, affusolate e nervose. Quando parlava, sembrava che plasmassero il suo pensiero, sottolineando le sfumature, anticipando le difficoltà, e i punti di domanda» [2]. La mano destra a volte cessa il suo battito d’ali in aria per prendere tra le dita uno dei fogli sul tavolo, su cui il Professore era solito annotare il filo, solo a lui noto, della lezione. I corsi di Nae Ionescu sembrano una continua improvvisazione, magia e miracolo, un dialogo con se stesso, cosparso di dubbi e passaggi da un’idea all’altra, da un autore all’altro, interrotto da piccole osservazioni quotidiane, come un’irruzione del palpito della vita nel campo del pensiero speculativo. Chiunque riesca a intrufolarsi nell’anfiteatro strapieno è tutt’occhi e tutt’orecchi per il modo in cui il Professore articola il suo discorso. Dopo un breve silenzio, in cui sembra raccogliere tutti i suoi pensieri e le sue energie, la sua presenza si impadronisce del pubblico, folgorandolo ironicamente con lo sguardo: «Come, voi siete tutti filosofi?» [3]. Poi l’eloquio «succinto, scarno, grezzo, zeppo di digressioni, lancia una parola qui, dischiude dall’altro lato una porta segreta, colpisce da qua una pietra incontrata lungo il cammino. È tutta improvvisazione, per certi versi tutto in balia del caso. E poi, alla fine dell’ora, quando guardi sconsolato il campo di pensiero che ha devastato in questo modo, di colpo le cose cominciano a trovare un loro ordine, non so come, non so sotto quale impulso. Le idee gettate a destra e a manca in tre quarti d’ora, senza nesso alcuno, nell’ultimo quarto d’ora ritornano a casa, tranquille, chiare, necessarie, seguendo un sorprendente rigore logico che pone fine a un ciclo di ragionamento come se si trattasse di una composizione sinfonica» [4]. Nae dice agli studenti che solo «ciò che accade» ha valore, e questa non è solo una frase ben trovata, dal sapore filosofico, ma un programma di vita. Quando, nel pieno di una lezione carica di enfasi sui sistemi economici, ode il suono di una fanfara proveniente dalla strada, si alza immediatamente dalla cattedra, apre la finestra e, con stupore del pubblico, inizia a muovere il capo al ritmo del tamburo che accompagna una marcia militare. Poi, come una volta il grande Wedekind di Monaco, si rivolge agli studenti con una domanda a trabocchetto con la quale li lascia a vedersela da soli: «A voi non piace la strada?». Il corso diventa improvvisamente un avvenimento, un’avventura senza certezze, un tuffo nell’ignoto. La «tecnica dell’inquietudine», come la chiama un altro studente, insinua in coloro che presenziano ai suoi corsi una vasta notte oscura dell’anima, un totale disorientamento: «per poter sperare di capire qualcosa nella vita, devi renderti conto per sette anni che non capisci niente», dice socraticamente il Professore, insegnando loro a non credere nei libri, nelle astrazioni, nelle teorie generali, nei filosofi e nei sistemi filosofici. La filosofia non è altro che una finzione ben congegnata. Siano invece disperati, stupiti, spaventati dalla libertà, assetati di realtà, sinceri nella loro ignoranza. Lo studente annota le parole del Professore come un motto della sua stessa vita: «Sai solo ciò di cui tu fai esperienza; porti frutto solo nella misura in cui scopri te stesso. Ogni via è buona, se conduce nell’intimo del tuo essere, ma soprattutto le vie sotterranee, le grandi esperienze organiche, i rischi, l’avventura. Una sola cosa è essenziale: che tu rimanga te stesso, che tu sia autentico, che tu non tradisca il tuo uomo spirituale» [5]. (frammento tratto dal volume di Tatiana Niculescu, Nae Ionescu. Il seduttore di una generazione,
(n. 9, settembre 2021, anno XI)
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