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Ai confini del reale. I racconti fantastici di Mircea Eliade
Mircea Eliade (1907-1986) ha saputo coniugare una intensa attività scientifica, in veste di storico delle religioni, con una altrettanto feconda vena letteraria, che lo ha portato ad essere considerato «il più importante scrittore fantastico della prosa romena moderna, paragonabile a Lovecraft e Tolkien» [1]. Tra la produzione scientifica e quella letteraria, che possono essere considerate alla stregua di due emisferi della medesima opera (correlati a due atteggiamenti autonomi o complementari: uno scientifico-razionale, l’altro artistico-immaginativo, oppure, per usare la metafora usata dallo stesso autore, l’uomo “diurno” e quello “notturno”), vi sono vari nessi, collegamenti e interdipendenze, avvalorate dallo stesso autore [2]. Nei romanzi, racconti e opere teatrali di Eliade emergono infatti tematiche affini ai suoi interessi di studio e di ricerca, come il folclore, la magia, il misticismo, il principio della coincidentia oppositorum, l’uscita dallo spazio e dal tempo, e soprattutto l’idea che la dimensione sacra o mitica si possa manifestare anche negli aspetti comuni e banali dell’esistenza dell’uomo; ciò vale soprattutto per l’individuo della società moderna, spiritualmente “spaesato”. Si tratta di un filo rosso che percorre, declinato di volta in volta in forme specifiche, la narrativa fantastica di Mircea Eliade, finora solo in parte conosciuta in Italia [3].
Prima di illustrare succintamente la struttura e il contenuto del primo dei volumi di Racconti fantastici, appena pubblicato, vorremmo mettere a disposizione dei lettori che hanno meno familiarità con l’autore (o il narratore) Eliade alcuni cenni per un orientamento generale.
A differenza di quanto è avvenuto e avviene in molti Paesi, dove il Nostro è noto principalmente come storico delle religioni, in Romania egli è stato a lungo letto, studiato e commentato come scrittore. Ciò è dovuto a vari fattori, tra i quali vanno menzionati: il successo letterario riscosso con alcuni romanzi interbellici (in particolare con Maitreyi, del 1933 [4]); il suo esilio per motivi politici, e la conseguente messa all’indice di quasi tutta la sua produzione saggistica durante la dittatura comunista; la scelta di continuare a scrivere in romeno nel suo esilio postbellico a Parigi (1945-1956), e in seguito negli Stati Uniti, le proprie opere letterarie.
Pertanto, il giovane Eliade, pur affermandosi precocemente come brillante ed enciclopedico pubblicista (uno dei suoi ideali sarà sempre il cosiddetto “uomo universale” del Rinascimento), raggiunge la notorietà grazie al successo editoriale dei romanzi che pubblica dopo il ritorno dall’India; i suoi saggi e articoli scientifici, per quanto originali e importanti nel contesto culturale romeno interbellico, hanno una circolazione più ristretta. Allo stesso tempo, con la partenza, nella primavera del 1940, a Londra, dove lavorerà come addetto culturale presso la Legazione del Regno di Romania, e in seguito (1941-1945) a Lisbona e infine (dal 1945 in poi) a Parigi, Eliade si vede strappato dal contesto romeno diventando a tutti gli effetti, come dicevamo, uno scrittore della diaspora. Dopo i primi romanzi e racconti fantastici scritti e pubblicati in Romania – ovvero i libri La signorina Christina (1936), Il serpente (1937, comprensivo di altri due brevi racconti degli anni ‘30, Întâlnire e Aventură), Il segreto del dottor Honigberger (1940, che include anche Notti a Serampore) –, in Portogallo e in Francia la sua attività letteraria procede in modo più lento e meno regolare, per via delle difficoltà esistenziali e degli impegni professionali (scientifici). Inoltre, dal 1945 in poi i suoi scritti romeni vengono pubblicati non più in Romania (dove il regime comunista mette Eliade all’indice per più di vent’anni), bensì presso piccole case editrici e pubblicazioni periodiche degli esuli romeni; talvolta con un notevole scarto temporale rispetto al momento della stesura definitiva. Solo una parte di queste narrazioni sarà tradotta e pubblicata in altre lingue: francese, tedesco, inglese, italiano, spagnolo, giapponese e così via [5]. Nei paesi del socialismo reale, compresa la Romania, la diffusione delle sue opere in generale sarà molto più circoscritta. Ad ogni modo, parallelamente al successo planetario di storico delle religioni di Eliade, riscontrabile soprattutto nei primi due decenni che seguono il suo arrivo all’Università di Chicago (1956), le sue opere letterarie attirano, a più riprese, l’attenzione del pubblico internazionale. A seguito del crollo del comunismo nel 1989, nei paesi dell’Europa centro-orientale il gap viene gradualmente colmato. In Romania, le opere letterarie di Eliade vengono pubblicate e ristampate massicciamente, con tirature, nei primi anni ’90, di decine di migliaia di copie.
Senza affrontare in questa sede un argomento che richiederebbe ben altro spazio, ci limitiamo a osservare che il Paese dove finora è stato tradotto e pubblicato il maggior numero di opere letterarie di Mircea Eliade è la Francia (soprattutto da Gallimard, seguita da l’Herne e Actes Sud); vari romanzi e racconti fantastici sono stati tradotti in numerosi Paesi.
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Il primo volume, fresco di stampa, dei Racconti fantastici fa parte del progetto editoriale Castelvecchi che prevede la pubblicazione, a cura degli scriventi, dell’intero corpus “canonico” della narrativa fantastica di Eliade, ovvero ventiquattro opere, suddivise per questa edizione in due volumi di oltre seicento pagine ciascuno. Il primo volume comprende due brevi romanzi – La signorina Christina e Il serpente – e dieci racconti: Il segreto del dottor Honigberger, Notti a Serampore, Un uomo grande, Dodicimila capi di bestiame, La figlia del capitano, Il litomante, Una fotografia di quattordici anni, Dalle zingare, Il ponte e Addio!..., per un arco temporale che va dal 1936 al 1964. Nel secondo volume confluiranno le restanti dodici opere, che coprono il periodo successivo fino al 1982, anno in cui Eliade scrive il suo ultimo racconto, All’ombra di un giglio.
Tutte le traduzioni di questo primo volume sono state realizzate ex novo, eccetto il racconto Il segreto del dottor Honigberger, pubblicato quattro anni fa [6]. Delle dodici narrazioni, sei sono inedite al pubblico italiano. Si tratta dei seguenti racconti, scritti tra il 1952 e il 1964: Dodicimila capi di bestiame, La figlia del capitano, Il litomante, Una fotografia di quattordici anni, Il ponte e Addio!... Inedito è anche lo studio introduttivo di Sorin Alexandrescu, dal titolo Un mondo incerto. La narrativa di Mircea Eliade [7].
Per il lavoro di traduzione abbiamo preso a riferimento, tra le varie edizioni esistenti, la recente e ben curata pubblicazione in più volumi della prosa fantastica eliadiana, apparsa presso la casa editrice Cartex 2000 di Bucarest. I volumi utilizzati, tra quelli finora usciti, sono: Domnișoara Christina. Șarpele (2019, prefazione di Sorin Alexandrescu), Secretul doctorului Honigberger. Nopți la Serampore (2022, prefazione di Gabriel Badea) e La țigănci (2022, prefazione di Giovanni Casadio [8]). Abbiamo inoltre consultato le più importanti edizioni precedenti, da quelle degli anni ’60 fino a quelle degli ultimi vent’anni [9], nonché le vecchie traduzioni italiane e, all’occorrenza, le traduzioni esistenti in francese e in inglese [10].
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Il volume Racconti fantastici I si apre con La signorina Christina (1936), romanzo “gotico” di ambientazione romena, legato al tema folclorico dello strigoi (“vampiro”) e all’impossibilità di realizzazione amorosa tra due esseri che appartengono a piani di realtà incompatibili. Donna-vampiro, artefice in vita di indicibili crudeltà, uccisa nel fiore degli anni dal proprio amante durante le rivolte contadine del 1907, Christina esercita la propria malìa – perlopiù in sogno, ma anche attraverso una sua “messaggera” nel mondo fisico – sul protagonista maschile del romanzo, il pittore Egor Pașchievici, ospite insieme all’archeologo Nazarie presso la villa di campagna della famiglia Moscu, tutta al femminile: l’anziana signora, le sue due figlie, Sanda (la maggiore) e Simina (la minore), più un manipolo di donne inservienti. Quanto più Egor subisce il fascino del fantasma di Christina, tanto più le condizioni dell’amata Sanda si aggravano. Nella notte in cui parrebbe realizzarsi l’unione erotica tra Egor e Christina, però, la proprietà dei Moscu va in fiamme. Distruggere il ritratto e uccidere definitivamente il vampiro non varrà comunque a salvare la vita di Sanda, la cui malattia è dovuta, al pari di altri eventi strani che coinvolgono i vari personaggi “in carne ed ossa”, alle azioni e alla presenza scompigliante della zia-vampira. Atipico e insieme innovativo, con riverberi emineschiani espliciti [11], La signorina Christina «è un primo e memorabile romanzo fantastico moderno nella letteratura romena» [12].
Il romanzo Il serpente (1937) riprende la stessa linea epica dell’esperienza fantastica (e amorosa) ispirata a motivi folclorico-mitologici e alla letteratura di Eminescu, ma questa volta, anzi a partire da quest’opera in poi, non più attraverso lo scontro tra le forze contrapposte – la vita contro la morte, l’umano contro il non umano, il maschile contro il femminile ecc. – impersonate dai protagonisti della Signorina Christina, bensì attorno a un’esperienza magica in forma di ierofania, con funzione però “iniziatica”, cioè trasformativa. Qui, il fantastico è «meno angosciante e in fondo più poetico» [13]. Una comitiva di borghesi organizza una gita in campagna nei pressi di un monastero, ma l’incontro imprevisto con Sergiu Andronic, una sorta di genio della natura nelle sembianze di un giovane aitante, risveglierà nel gruppo, attraverso il gioco dei pegni che si svolge di sera, nel bosco, pulsioni erotiche e di libertà. Andronic slatentizza la coscienza dei suoi ospiti, poi, dopo averli intimoriti con la storia della vergine Arghira, morta più di un secolo prima in circostanze poco chiare, invoca un serpente la cui presenza nei dintorni è il solo a percepire e lo incanta al cospetto degli altri, che sprofondano in uno stato di trance, preludio alle “nozze mistiche” che avranno luogo la notte stessa sull’isola in mezzo al lago che costeggia il monastero. Ricco di simbolismi (il serpente, la luna, la scala, le acque, l’isola) e abilmente costruito attorno al rito magico celebrato da Andronic, Il serpente si presta a numerose riflessioni e interpretazioni [14], per quanto, pur sempre di un’opera letteraria si tratti, non di un saggio; in proposito, Geno Pampaloni ritiene che, «nell’intenzione dell’autore, tutti gli elementi simbolici e archetipici» presenti nel racconto siano «complementari e subordinati al disegno artistico». Inoltre, «si ha l’impressione che il romanzo nasca per decantazione del materiale culturale che l’ha ispirato, e che l’atteggiamento del narratore sia piuttosto la ricerca del valore ludico della sua favola che non quella del valore pedagogico, etico, ammonitivo» [15].
Le due narrazioni seguenti, pubblicate insieme nel 1940, hanno al loro centro temi filosofici indiani. Il racconto Il segreto del dottor Honigberger – scritto nell’inverno 1939-40 e uscito dapprima sulla «Revista Fundațiilor Regale» col titolo Tărâmul nevăzut (Il Regno invisibile) – presenta uno dei motivi più caratteristici e ricorrenti di tutta la narrativa fantastica eliadiana, quello dell’uscita dallo spazio e dal tempo ordinari. Nella sterminata biblioteca del dottor Zerlendi, misteriosamente scomparso mentre era alle prese con una ricerca sul dottore transilvano J.M. Honigberger, che nel secolo precedente aveva imboccato, mediante pratiche yoga occulte, la via di Shambala (il misterioso centro iniziatico ubicato nel remoto oriente), il protagonista-narratore ne rinviene il diario. Scopre così che Zerlendi ha acquisito livelli avanzati di pratica yoga e che la sua sparizione fisica è da ricondursi proprio a un viaggio spirituale senza possibilità di ritorno. Ma proprio quando sta per rivelare alla signora Zerlendi il segreto del marito medico, un evento imprevisto rimescola le carte dell’intera vicenda, gettandola nelle nebbie dell’incertezza fantastica: alla fine della storia, il narratore «si assenta lasciando dietro di sé un segreto solitario: nessun senso può essere esaurito, nessun destino narrato fino in fondo» [16]. Notti a Serampore (1940) offre una altrettanto suggestiva declinazione del motivo dell’abolizione dei confini spazio-temporali. Tre studiosi europei di stanza a Calcutta, perdono inspiegabilmente la rotta nei pressi di Serampore e, smarritisi nel cuore della giungla, odono alcune grida strazianti di donna per poi imbattersi in uno strano uomo anziano, dalla lingua arcaizzante, che piange la perdita della moglie o della figlia. Di ritorno, apprendono che i fatti di cui sono stati involontari testimoni risalgono in realtà a centocinquant’anni prima. Mentre uno dei personaggi, voce narrante del racconto, si interroga se non sia stato un misterioso rito tantrico la causa della loro proiezione nel tempo, il guru himalayano da lui consultato “risolve” il mistero, rivelandogli la natura illusoria della realtà logico-esperienziale.
Un uomo grande (1945) offre un esempio di «fantastico anatomico» [17], che riecheggia motivi folclorici e le varie mitologie sui giganti. Eugen Cucoaneș scopre di soffrire di macrantropia, cresce a dismisura finché, persa la speranza di riuscire a comunicare ancora con i propri simili, decide di rifugiarsi tra i monti, aiutato dal personaggio-narratore. Quanto più aumenta la sua altezza, infatti, tanto più le sue parole diventano incomprensibili, condannandolo all’esilio dalla condizione umana. È proprio sul monte che il macrantropo realizza l’ultima “verità”, di cui riesce, in qualche modo, a render partecipi i suoi simili, con frasi sibilline («Tutto c’è»; «Va bene»), prima di ritirarsi definitivamente dalla loro vista. In seguito, diventerà oggetto di avvistamenti sempre più rari e di terrificanti racconti. «Una semplice e misteriosa parabola, forse il racconto più memorabile di Eliade», lo ha definito il critico Matei Călinescu [18].
Il tema della fuoriuscita dallo spazio-tempo è reiterato nel racconto Dodicimila capi di bestiame (1952), ambientato a Bucarest nel 1944. Iancu Gore, giunto in città dalla provincia per vedere di sistemare un affare sfumato, relativo all’esportazione di dodicimila capi di bestiame, è sorpreso dalla sirena antiaerea, corre al rifugio, e qui incontra tre persone, due donne (la padrona e la sua domestica) e un loro inquilino. Nessuno sembra prestare troppa attenzione a Gore che, una volta cessato l’allarme e dopo aver tentato inutilmente di intavolare discorso, si congeda di buon grado. Tornato all’osteria in cui aveva sostato in precedenza, il protagonista scopre che le tre persone incontrate nel bunker risultavano in realtà morte durante un bombardamento quaranta giorni prima. Incredulo e spiazzato, Gore scommette con alcuni operai che si trovano nell’osteria di poter mostrare loro la casa in questione e i suoi abitanti. Ma, giunti sul posto, trovano solo le macerie del bombardamento. Di fronte all’evidenza, e alle beffe che si fanno di lui gli operai, Gore impreca goffamente, («Mandria di pazzi!», «Sentirete parlare di Iancu Gore…»), preparandosi a saldare la scommessa, quando assiste nuovamente alla scena di una madre che chiama a voce alta il figliolo, la stessa nella quale si era imbattuto prima di entrare nel rifugio. Ci troviamo qui in una storia che preannuncia un genere di situazioni paradossali nutrite da una serie di amnesie, ricordi e malintesi che sconfinano nell’onirico, provocando nel lettore una sensazione di assoluta incertezza logica e cronologica circa i fatti narrati. Un fantastico lattiginoso, condito di elementi comici alla Caragiale o Pirandello, che esaltano il rapporto ambiguo tra il “reale” e l’“irreale”. Il protagonista del viaggio temporale è vittima ingenua di una situazione assurda, il cui “regista” resta ignoto. Tra i sei racconti (del periodo 1945-1959) raccolti nel volume Nuvele, pubblicato a Madrid nel 1963, Nicolae Manolescu lo ritiene «probabilmente la più pura narrazione fantastica di Eliade» [19].
Nel racconto La figlia del capitano (1955) entra per la prima volta in gioco il fattore divinatorio. Brânduș è un ragazzino disposto a sopportare ogni genere di sofferenza e umiliazione pur di temprare la propria volontà e diventare grande, «più grande di Alessandro il Macedone». L’unico elemento “fantastico” sembra essere quello di aver indovinato il segreto della figlia del capitano, Agripina, che è stata bocciata a scuola. In preda a una fantasia libresca, Agripina vorrebbe coltivare l’intelligenza di Brânduș, insegnargli la poesia, le letture, a parlare con parole difficili, ma Brânduș annoiato dalla petulanza della giovane, si dice pago di quel che sa e sul far della notte ascende la cima del monte. Il racconto, che «pare indicare il “momento zero” della dialettica del fantastico», è unico nel suo genere per la sua «notevole delicatezza miniaturistica, quasi mozartianamente musicale, priva dell’intensità tragica di altre narrazioni di Mircea Eliade» [20].
Ambientato presso una località balneare sul Mar Nero, Il litomante (marzo 1959) è costruito intorno al tema della predizione del futuro. Un anziano ex-marinaio, il litomante Beldiman, incontrato per caso sul litorale, dà prova delle proprie capacità divinatorie, leggendo nelle pietre e rivelando al protagonista Emanuel alcuni fatti di “forza maggiore” che puntualmente si verificano ma, prima di congedarsi, gli raccomanda di fuggire due giovani donne che gli porteranno sfortuna. L’incontro con le due donne sembra però inevitabile, e una delle due si rivela addirittura essere la figlia dello stesso Beldiman. Ma, proprio quando questa lo incrocia, fingerà di non riconoscerlo. Anche in questo caso, il fatto centrale del racconto – la precisa predizione ad opera del litomante (che vanta una tradizione ancestrale in tale vocazione) – riguarda, in senso molto lato, la sfera del sacro. Tuttavia, osserva Giovanni Casadio, molti critici si sono frettolosamente «affaccendati a scoprire ierofanie, trascendenze, magie e simboli di ogni tipo (a cominciare dai nomi) e soprattutto riti iniziatici», là dove la litomanzia di Beldiman, «che non è solo un chiaroveggente ma un uomo di mondo (benché si definisca misantropo)» [21], è opera di un “dilettante”, quasi un hobby di un attento osservatore della natura e delle abitudini umane, priva però di elementi iniziatici veri e propri; del resto, egli dichiara ad Emanuel di «non avere alcun diritto» di interferire con le vite di coloro il cui futuro predice guardando le pietre del luogo dove sono stati seduti. Indubbiamente, la figura misteriosa di Beldiman amplifica l’ambiguità generale del racconto, nel cui finale è sospeso ogni “chiarimento”. In questo senso, Il litomante può essere visto come «un modello in nuce dell’intera opera successiva di Eliade» [22].
Il motivo della manifestazione del sacro miracoloso negli aspetti banali dell’esistenza è il tratto specifico in Una fotografia di quattordici anni (aprile 1959), l’unica narrazione di Eliade ambientata negli Stati Uniti. Il protagonista, però, è un emigrato romeno di nome Dumitru. Costui si reca presso una tale chiesa della Salvezza per ringraziare, a distanza di quattro anni, il Dottor Martin responsabile, a suo dire, della guarigione e del ringiovanimento miracoloso della moglie, avvenuto attraverso una fotografia. Scopre tuttavia che il taumaturgo è in realtà un ciarlatano di nome Dugay, che è stato smascherato e, uscito di prigione, si mantiene facendo il cameriere in un bar. È lì che i due si incontreranno, finendo per intavolare una discussione teologica sul senso del credere, sulla morte di Dio, sull’escatologia. La fede ingenua ma incrollabile di Dumitru saprà risvegliare in Dugay lo spirito profetico che lo aveva animato in passato. Come ha osservato Casadio, in questo racconto, più filosofico che fantastico, in cui è dato riconoscere alcuni motivi cari allo storico delle religioni romeno (dal motivo della morte di Dio al tema del deus otiosus), «la contrapposizione anche geografica dei due mondi fa spiccare la differenza tra le due visioni del mondo, quella romena (ortodossa e orientale) e quella americana (protestante e secolare)» [23].
Giudicato da Eugen Simion, ma non solo, un «capolavoro del fantastico romeno» [24], Dalle zingare (giugno 1959) può essere visto come un’allegoria della morte o del passaggio tra la vita e la morte. Ambientato in una «Bucarest quotidiana», nel pieno della canicola estiva, in cui è possibile cogliere echi di Gran caldo di Caragiale, il racconto ha per protagonista il maestro di pianoforte Gavrilescu, il quale in cerca di un po’ di refrigerio, viene adescato nei pressi del giardino delle zingare e una volta condotto all’interno della casina (che è di fatto una “casa chiusa”), gli viene proposto un indovinello: di indicare fra le tre ragazze che lo intrattengono chi sia la zingara. Gavrilescu fallisce entrambi i tentativi, per poi smarrire goffamente se stesso tra i paraventi e i drappi della casina. Alla sua memoria affettiva riaffiora infine il ricordo di Hildegard, l’amore della giovinezza, lasciato per sposare Elsa. La sosta presso le zingare avrà però conseguenze impreviste. Una volta uscito di lì, infatti, Gavrilescu scoprirà, suo malgrado, che le banconote che tiene nel portafogli non sono più in corso, e messosi sulla via del ritorno non troverà più né casa né moglie. Tornato dalle zingare in cerca di una spiegazione dell’accaduto, e dopo essersi smarrito nuovamente nei meandri della casina, incontrerà finalmente Hildegard. Insieme a lei, Gavrilescu compirà un ultimo viaggio, sulla carrozza del vetturino ex-becchino, verso il bosco, luogo presumibile delle loro “nozze postume”. Basato su una “epica doppia” in cui gli eventi possono essere giustificati tanto dal caldo torrenziale che opprime la città quanto dalla smemoratezza del personaggio, il racconto appare suddiviso in otto episodi simmetrici, in cui la soglia che separa il reale e l’irreale viene attraversata per ben due volte, in entrambe le direzioni, la seconda volta definitivamente. Il testo, la cui polivalenza di significati si apre a un ventaglio di interpretazioni pressoché infinito, pone in evidenza tra gli altri il simbolismo del labirinto, particolarmente caro a Eliade.
Il racconto Il ponte (1963) è indubbiamente il più frammentario fra quelli raccolti nel volume, giacché racchiude e intreccia vari micro-racconti – tutti introdotti dalla frase «capitano cose di ogni genere» – che alcuni viaggiatori scambiano conversando tra loro, mentre condividono lo stesso scompartimento in treno: il motociclista Emanuel che tenta di risvegliare nel proprio interlocutore amnesico il ricordo di Giosafat (uno strano copione che serve a dare significato alla propria vita); il tenente di cavalleria, cultore delle Upaniṣad, che mette in scena ogni sera un rituale a prima vista “orgiastico”, coinvolgendo una pletora di donne tra le quali si cela però, all’insaputa di tutti, la “Grande madre”; un’anziana donna e la giovane che l’accompagna, le quali intraprendono un lungo viaggio verso il luogo di origine dove l’anziana vuole andare a morire, guidate da un misterioso libro in cui la giovane legge la rotta, destando lo stupore e l’ammirazione di chiunque si imbatta in loro; gli ospiti di Stavroghin dell’emporio di coloniali, i quali non sanno spiegare come siano potuti salire di piano senza aver preso le scale né l’ascensore. Tutto questo mentre il treno si avvicina al ponte di Cernavodă, e i personaggi si interrogano se esista una via d’uscita, se, cioè, alla luce del principio della coincidenza degli opposti, un reale insignificante possa celare in sé un significato più profondo. Il racconto, in cui «il verosimile e l’inverosimile s’intersecano e si avvicendano reciprocamente di continuo» [24], invita il lettore a riflettere «sull’ambivalenza dell’evento, sulla possibilità della coesistenza di due fatti, due universi contrari (“coincidentia oppositorum”) nello stesso essere, nella stessa cosa», e sul mistero della ripetizione, in virtù del quale qualcosa si modifica per il semplice fatto di venire ripetuto, giacché la seconda volta rappresenta la nascita nello spirito [25].
Il primo volume dei racconti fantastici si chiude infine con Addio!... (1964), un esperimento di scrittura meta-teatrale in cui l’autore ci fa letteralmente entrare in una sua pièce immaginaria, dove va in scena, simbolicamente, la presa di congedo dall’umanità da parte di Dio (tema affrontato in maniera più argomentativa in Una fotografia di quattordici anni), nonché, più in generale, una rassegna concentrata di storia delle religioni, che ruota attorno al mistero della scoperta dell’Assoluto. Il sipario abbassato ci dice che l’atto, cioè la morte di Dio, la sua uscita definitiva dal mondo, si è già compiuto, indicando altresì la separazione del mondo sacro (simboleggiato dagli attori, che una spettatrice chiama, con una punta di rimprovero, «iniziati») da quello profano (rappresentato dagli spettatori). La platea, però, composta da persone colte, preparate, avanza le proprie obiezioni e rimostranze. A nulla servono le rassicurazioni del regista. Alla fine – colpo di scena! – viene chiamato in causa lo stesso narratore (che fino a quel momento non interferiva nei dialoghi), il quale, non sapendo come giustificare la propria scelta, preso dall’imbarazzo, decide di revocare in essere l’intera pièce. Addio!... introduce un tema nuovo rispetto ai racconti composti in precedenza, ovvero quello dello spettacolo, che verrà ripreso in diverse narrazioni successive, ma anche quello del linguaggio: per gli spettatori, infatti, “addio” è un semplice saluto; per il narratore, invece, questo saluto, ripetuto per tre volte, indica il commiato della divinità, sebbene persino lui, incalzato dagli spettatori, non sia in grado di offrirne una spiegazione soddisfacente [26].
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«La realtà parallela del fantastico e indistinguibile dal nostro mondo ordinario. Tuttavia, quando viene scoperta dai personaggi, finisce per offuscare, cambiare, trasformare o dislocare le loro vite secondo modalità assai differenti» [27]. Queste frasi, scritte da Eliade nella sua introduzione alla prima edizione americana (1970) del volume che comprende i due racconti “indiani” del 1940, definiscono in modo esemplare, a nostro avviso, le caratteristiche della narrativa fantastica dell’autore romeno. È una definizione che collima – tra le varie rielaborazioni successive che vanno fino a Tzvetan Todorov e la sua Introduction à la littérature fantastique (1970) – con quella del fantastico «genuino», illustrata dal filosofo Vladimir S. Solov’ëv nella sua prefazione al racconto Il vampiro di Aleksej K. Tolstoj: «La sua manifestazione non deve mai suscitare una fede forzata nel senso mistico dei casi della vita, ma piuttosto deve indicarla, “alludervi”. Nel fantastico genuino rimane sempre una possibilità esteriore, formale, di spiegare in modo semplice il nesso comune, eterno, fra i fenomeni; qui tuttavia una tale spiegazione perde, alla fine, ogni intima verosimiglianza. Tutti gli elementi particolari devono avere un carattere quotidiano, e solo il nesso totale deve mostrare una causalità diversa. Non esistono fenomeni “singoli” e isolati del fantastico, esistono solo fenomeni reali; ma talvolta si delinea, più chiaro del solito, un diverso nesso e senso, più essenziale e più importante, di questi fenomeni» [28].
Incentrata sul tema della temporalità, la narrativa di Eliade ripropone la dialettica del sacro (camuffato nel profano e mediato dal simbolo) nella forma del fantastico (o dell’“irreale”) camuffato nel quotidiano (o nel “reale”), che può evidenziare, come si è visto in questa sintetica presentazione, svariate forme, dalla contrapposizione di due principi, all’interscambiabilità tra il piano reale e quello fantastico, all’ambiguità e all’illusorietà delle nostre certezze “sedimentate”, all’irriconoscibilità del miracolo. Il suo è un fantastico messo a servizio della letteratura come strumento di “rimitologizzazione” della coscienza dell’uomo contemporaneo, tale da restituire alla narrazione una «dignità metafisica»: un fantastico, come osserva Sorin Alexandrescu, «benigno, una rivincita della Vita, della sua bellezza e inesauribile fecondità» [29].
Horia Corneliu Cicortaș e Igor Tavilla
(n. 11, novembre 2023, anno XIII)
NOTE
[1] Eugen Simion, Scriitori români de azi, vol. 1, Editura Litera, București-Chișinău 2002, pp. 224-225.
[2] Parlando della sua «duplice vocazione» (double vocation), come parte del proprio destino, Mircea Eliade cita casi analoghi (Sartre, Gabriel Marcel, Merleau-Ponty), ai quali potremmo aggiungere quello del suo conterraneo Lucian Blaga (poeta e filosofo), osservando di «appartenere a una tradizione culturale che non accetta l’incompatibilità tra l’indagine scientifica e l’attività artistica, soprattutto letteraria». Literary Imagination and Religious Structure, in D. Carrasco, J.M. Law, a cura di, Waiting for the Dawn. Mircea Eliade in Perspective, University Press of Colorado 1991,p. 18. Nel Frammento autobiografico del 1953, che cerca di spiegare proprio la coesistenza dell’attività scientifico-filosofica e quella artistico-letteraria, l’autore romeno ricorda che, «fin dall’inizio, la letteratura che facevo era e “realista” e “fantastica”». M. Eliade, Le messi del solstizio. Memorie 2 (1937-1960), Jaca Book 1995, p. 216.
[3] Negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, le traduzioni italiane delle opere letterarie di Eliade, ad eccezione della versione italiana dei Fragments d’un journal (Giornale, Bollati Boringhieri, Torino 1976) e di alcune raccolte di brevi saggi letterari, sono state pubblicate da Jaca Book. La maggior parte di esse sono state tradotte dal romeno; in alcuni casi (per es. Il serpente), dal francese. Il “monopolio” della Jaca Book si è sostanzialmente conservato anche negli anni ’90, per essere poi gradualmente eroso dopo il 2000, quando opere come Dalle zingare e Un’altra giovinezza sono state pubblicate presso altri editori. Infine, più recentemente, quattro racconti fantastici di Eliade sono stati pubblicati dalle edizioni Bietti di Milano nella collana «l’Archeometro», nel 2015 (Dayan, La mantella e All’ombra di un giglio) e 2019 (Il segreto del dottor Honigberger).
[4] Maitreyi, romanzo fortemente autobiografico e ambientato in India, ha avuto una prima edizione italiana già nel 1945 (Passione a Calcutta, trad. Giovanna Calvieri Caroncini, La Caravella, Roma 1945).
[5] Un caso del tutto particolare è quello del romanzo Noaptea de Sânziene, scritto negli anni 1949-1954, che Eliade (al pari di alcuni suoi esegeti) considerava la sua opera letteraria più importante: il suo varo, nella versione francese di Allain Guillermou (Forêt interdite, Gallimard, Paris 1955), si rivelò un flop, e la pubblicazione del testo originale romeno, avvenuta nel 1971 presso l’editore Ioan Cușa, anche lui esule in Francia, non cambiò la sostanza delle cose: il libro avrebbe raggiunto il suo pubblico romeno solo dopo la caduta del comunismo. L’unica edizione italiana esistente, che ricalca il titolo francese (M. Eliade, La foresta proibita, trad. Simonetta Falcioni, prefazione di Silvia Tomasi, Jaca Book, Milano 1986), è da tempo fuori commercio.
[6] M. Eliade, Il segreto del dottor Honigberger, traduzione, cura e prefazione di Horia Corneliu Cicortaș, con saggi di Horia Corneliu Cicortaș e Gianfranco de Turris, Bietti, Milano 2019.
[7] Le pagine relative al romanzo Il serpente accompagnavano, come introduzione, la prima edizione italiana dell’opera (M. Eliade, Il serpente, trad. Maria Grazia Prestini, Jaca Book, Milano 1982).
[8] Segnaliamo in particolare il testo, particolarmente acuto e ricco di spunti bibliografici, dello storico delle religioni italiano, già noto per altri contributi su Eliade: G. Casadio, Când povestirea e ca un dans: Mircea Eliade, proză fantastică 1946-1959, trad. di Catrinel Popa, in M. Eliade, La țigănci: nuvele fantastice, Cartex, București 2000, pp. 7-43. Testo originale italiano: Raccontare è come ballare. La prosa fantastica di Mircea Eliade 1946-1959, in «Storia, Antropologia e Scienze del Linguaggio», anno XXXVI, fasc. 1-2-3, 2021, pp. 55-90. Sulla letteratura fantastica di Eliade, si veda, inter alia, il recente volume di Marco Cugno, La narrativa fantastica di Mircea Eliade. Studi e testi, a cura di Federica Cugno e Roberto Merlo, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2022, libro che raccoglie cinque studi pubblicati in precedenza e una traduzione del racconto La țigănci (Dalle zingare).
[9] Si tratta delle raccolte Nuvele (Madrid 1963), La țigănci (studio introduttivo di S. Alexandrescu, Minerva, 1969) e În curte la Dionis (Cartea Românească, 1984), nonché di due edizioni integrali della narrativa fantastica di Mircea Eliade: Proză fantastică, a cura di E. Simion, 5 voll. (Editura Fundației Culturale Române, 1991-1992) e Proză fantastică, 2 voll. (Editura Tana, 2014).
[10] In francese: Mademoiselle Christina (L’Herne, 1978); Andronic et le serpent (L’Herne, 1979); Minuit à Serampore (Stock, 1956); Uniformes de général (Gallimard, 1981); Les trois Grâces (Gallimard, 1984). In inglese: Mystic Stories. The Sacred and the Profane (Columbia University Press, 1992); Two Strange Tales (Shambala, 1986; prima ed.: Two Tales of the Occult, Herder&Herder, 1970); Fantastic Tales (Forest Books, 1990).
[11] Per la presenza di Eminescu in questo romanzo di Eliade – e, nella fattispecie, le citazioni tratte da Luceafărul (Espero) con funzione di «filtro» letterario di mitigazione del materiale folclorico relativo agli strigoi – si veda, oltre al saggio introduttivo di S. Alexandrescu (Un mondo incerto, cit., p. 19), le interessanti osservazioni di M. Cugno, La narrativa fantastica, cit., pp. 37-42, 63.
[12] Eugen Simion, Mircea Eliade, spirit al amplitudinii, Ed. Demiurg, București 1996,p. 115. Di tono decisamente diverso il giudizio di Nicolae Manolescu (Istoria critică a literaturii române, Paralela 45, Pitești 2008, p. 865), che, parlando di «fantastico psicologico» coltivato alla maniera di Maupassant o Henry James, si riallaccia alle aspre critiche, al momento dell’uscita del romanzo, da parte di «Nichifor Crainic e altri puritani del tempo», per l’abbondanza di scene scabrose, il «cattivo gusto» e il «kitsch folclorico».
[13] N. Manolescu, ivi, p. 865.
[14] Per un’analisi dettagliata dei motivi e delle interferenze mitico-letterarie, complementare al commento di S. Alexandrescu (Un mondo incerto, cit., pp. 21-28), si rinvia a M. Cugno, op. cit., pp. 42-63. Utile anche E. Simion, Mircea Eliade, spirit al amplitudinii, cit., pp. 115-120.
[15] G. Pampaloni, Tra libertà e destino, premessa a M. Eliade, Il serpente, cit., pp. 1-3, dove segnala l’esistenza, in questa narrazione, di «tre livelli di lettura: “dei ritratti”, del gioco e della vitalità (o dell’amore)».
[16] Silvia Lagorio, La vita seconda, prefazione a M. Eliade, Il segreto del dottor Honigberger seguito da Un uomo grande, trad. Mariano Baffi, Jaca Book, Milano 1988, p. 11. La studiosa italiana (di formazione junghiana) osserva come, in questo racconto e in Un uomo grande – che «rappresentano il tentativo di celebrare l’uscita da se stessi che si patisce nelle vicissitudini fondamentali della vita» – il protagonista dello sconfinamento del «proprio perimetro individuale» sia il corpo, quale «terreno d’incontro di materialità ed energia, di memoria e virtualità» (ivi, p. 10).
[17] E. Simion, Scriitori români, cit., p. 239.
[18] M. Călinescu, Despre Ioan P. Culianu și Mircea Eliade, seconda edizione, Polirom, Iași 2002, p. 69. Călinescu prende qui in considerazione l’interpretazione di Culianu in chiave biografico-allegorica (e politica), dalla quale prende tuttavia le distanze.
[19] N. Manolescu, Istoria critică, cit., p. 865
[20] S. Alexandrescu, Un mondo incerto, cit., p. 42.
[21] G. Casadio, Raccontare è come ballare, cit., p. 71.
[22] S. Alexandrescu, Un mondo incerto, cit., p. 49.
[23] G. Casadio, Raccontare è come ballare, cit., p. 80.
[24] S. Alexandrescu, Un mondo incerto, cit., p. 70.
[25] E. Simion, Scriitori români, cit., p. 239.
[26] Commenti interessanti del racconto in Maria Vodă Căpușan, Mircea Eliade – spectacolul magic, Ed. Litera, București 1991, pp. 136-144, e Gheorghe Glodeanu, Coordonate ale imaginarului în opera lui Mircea Eliade, Dacia, Cluj-Napoca 2001, pp. 96-100.
[27] M. Eliade, Il segreto del dottor Honigberger, Bietti, Milano 2019, cit., p. 18.
[28] A.K. Tolstoj, Il vampiro e Appuntamento tra trecento anni, trad. di Luigi Volta e Fiammetta Caravelli, Elliot, Roma 2018, p. 9.
[29] S. Alexandrescu, Un mondo incerto, cit., p. 73.
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