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Cezar Petrescu e il suo romanzo «Fram l’orso polare»
Cezar Petrescu scrisse Fram ursul polar all’alba degli anni ’30 (la prima edizione data al 1932) come romanzo «per ragazzi» ma lo basò sulle stesse tematiche che sottendono i suoi romanzi migliori: lo sradicamento e l’eterna contrapposizione fra Natura e civiltà, che si lega, almeno virtualmente, a quella fra tradizione e modernità, mondo rurale e urbanizzazione. Si tratta, in ogni caso, di un vero e proprio classico della letteratura romena per ragazzi. In quanto tale, a 90 anni dalla sua prima apparizione, esso offre spunti d’immutato interesse e attualità. Oggi, forse più di ieri, Fram mostra di avere ancora tanto da dire, a lettori di tutte le età. Grande merito va, dunque, all’editrice Besa per averlo reso accessibile al lettore italiano con una nuova traduzione, che è di fatto una riedizione vera e propria.
Quando Matteo Sabato, direttore della collana «Rendez-vous», mi ha proposto di tradurre Fram, la prima cosa a cui ho pensato, accettando, è stato procurarmi la traduzione di Agnese Silvestri Giorgi. Attiva dall’inizio degli anni ’20 almeno fino a tutti gli anni ’40, la Silvestri Giorgi è stata senza dubbio una delle più prolifiche e versatili traduttrici della letteratura romena in lingua italiana. Sua è, appunto, la prima traduzione italiana di Fram, per la Società Apostolato Stampa, che la pubblicò nel 1949 e di nuovo nel 1966, quando aveva già cambiato nome in Edizioni Paoline (il libro trovò la sua naturale collocazione nella collana «Classici della gioventù», diffusissima all’epoca, che ha svezzato più di una generazione di lettori italiani). Per il testo romeno, mi sono basato su due edizioni: quella del 1969 (Editura Tineretului) e l’ultima, del 2018 (Editura Arthur). Non è questa la sede per un’analisi puntuale della prima traduzione italiana, che va indubbiamente contestualizzata. Basti dire ch’essa sconfina, a più riprese, nell’adattamento. Mediante l’espunzione e/o l’aggiunta di interi passi, si volle chiaramente rendere il testo più funzionale alle finalità edificatorie della collana. Non posso dire, con certezza, se tali interventi siano stati compiuti in sede di traduzione o di edizione del testo (la traduttrice sembra molto legata all’editore cattolico, che nel 1947, come Pia Società S. Paolo, le aveva pubblicato, tra l’altro, il romanzo La donna del lago). Sta di fatto che, al di là del suo indisputabile valore storico, l’edizione italiana del 1949 (e ’66) si discosta per ampi tratti dall’originale romeno e non può considerarsi una traduzione del tutto fedele.
Tra i personaggi più amati della letteratura rumena d’ogni epoca, l’orso Fram prende il nome dal vascello con cui il leggendario esploratore norvegese Fridtjof Nansen (1861-1930) partì, nel 1893, per raggiungere il Polo Nord. In lingua norvegese, fram o frem significa ‘avanti’, il valore simbolico che tale avverbio assumeva nell’ambito di una spedizione polare è facilmente intuibile; per il nostro orso, nondimeno, esso ha un significa più ampio e indica un destino.
Fram è un grande orso polare ammaestrato, la principale attrazione del circo Strutzki, amatissimo soprattutto dai bambini. Dei cacciatori eschimesi lo strapparono in tenera età al suo ambiente naturale dopo aver ucciso la madre e lo vendettero a dei marinai norvegesi, che a loro volta lo rivendettero al circo. Qui non solo ha imparato alla perfezione i numeri da equilibrista e da clown con cui esibirsi nello spettacolo, ma anche l’Umanità, la pietà, l’amicizia, tutto ciò che – semplificando – distingue «l’essere umano» da una «bestia selvaggia». A un tratto, però, l’animale s’intristisce e sembra dimenticare le sue prodigiose abilità. Smette anzi di esibirsi per essere relegato nel serraglio del circo, tra gli animali ‘inutili’. In realtà, come sentenzia un esperto chiamato dal direttore, Fram sente il richiamo della Natura (della banchisa) e se non tornerà dov’è nato, è destinato a trascinare stancamente i suoi giorni fino alla fine. Al direttore del circo, un uomo avido e senza scrupoli, viene l’idea di lanciare una sottoscrizione per liberare il celebre orso nel suo habitat, una serie di spettacoli per finanziare una vera e propria spedizione e che si riveleranno un successo (e un’ulteriore occasione di guadagno).
Fram torna là dov’è nato. Imbarcato su un piroscafo di quelli che, al tempo, portano già regolarmente i turisti in crociera nell’estremo Nord, viaggerà come un normale passeggero. Ad accompagnarlo, ci sono due cacciatori, che hanno il compito di lasciarlo, con alcune provviste, su un isolotto in mezzo ai ghiacci. Finalmente solo, davanti alla bianca distesa, l’orso scopre con dolore di non sentirsi affatto a casa propria. Non riesce a uccidere per nutrirsi. Ciò lo obbligherà a sfruttare la sua intelligenza e gli insegnamenti degli uomini per rubare ad altri orsi le loro prede. Da autentico Robinson Crusoe, userà gli stessi insegnamenti per costruirsi tane confortevoli e sopravvivere nella Natura più selvaggia restando sé stesso e conservando il meglio delle sue due nature, l’umana e l’animale. In tal senso, il suo fortunoso ritorno tra gli uomini, alla fine, si configura come un’opportunità unica, forse più che per lui, per gli stessi uomini che lo riaccoglieranno.
«Uno spettacolo senza Fram, l’orso polare, era sempre come non riuscito.
Miss Ellian, con le dodici tigri del Bengala, era un’altra cosa. Dava prova di cosa potesse ottenere una donna, col suo solo sguardo e una frusta, dalle più crudeli belve delle foreste asiatiche. Teneva tutti gli spettatori col fiato sospeso. Quando le tigri lasciavano l’arena, nel pubblico si diffondeva il sollievo. Rifiatavano tutti sollevati.
La comparsa di Fram godeva di tutt’altra accoglienza. Era il carnivoro più grande e più forte, nato nel paese delle nevi e dei ghiacci eterni, mite come un agnello e intelligente come un uomo. Con lui non c’era bisogno di fruste, di sguardi imperiosi, di un dito che gli indicasse il posto in cui mettersi e gli ricordasse di continuo cosa andasse fatto. Gli applausi erano la sua ricompensa. Si vedeva bene che ne comprendeva il senso, che li aspettava, che gli facevano piacere.
Amava gli applausi, amava il pubblico, amava soprattutto i bambini. Quando li vedeva sgranocchiare una caramella allungava una zampa per averne anche lui. Saluta ringraziando portando la zampa alla testa, come un soldato. E se capitava di ricevere più di una caramella, ne teneva per sé soltanto una offrendo le restanti agli altri bambini, come se sapesse che non a tutti capitava spesso di ricevere dolci. Un bambino coraggioso scendeva a prendere il suo regalo. Fram lo accarezzava sulla testa con la sua grande zampa, che diventava a un tratto leggera e dolce come la mano di una madre.
Non lasciava che il ragazzino risalisse al suo posto, lassù, dove c’era sempre una gran calca e non si vedeva nulla.
Prendeva lui una sedia con la zampa, lo metteva in una galleria, sporgendosi oltre il margine della pista. Faceva cenno al ragazzino di sedersi e se quello non osava, se esitava, vergognoso, allora lo sollevava da terra e dolcemente lo posava sulla sedia, portandosi l’artiglio al muso, lo incitava a fare il bravo e a non avere alcun timore. Poi si rivolgeva ai controllori. portava la zampa al petto, per far capire anche a loro che il piccolo era il suo protetto di quella sera e che ne avrebbe risposto lui.
Come avrebbe potuto non essere amato da tutti? Come avrebbe potuto non essere il beniamino del pubblico?»
(Fram, il più amato…, pp. 28-9)
«Quando, a notte fonda, chiudeva gli occhi, il sogno di Fram era sempre lo stesso.
Era la storia di poche e incerte vicende di un’infanzia lontana, che aveva per tanto tempo dimenticato.
La storia di un piccolo d’orso bianco, catturato in tenera età da un gruppo di cacciatori eschimesi, nelle regioni artiche, comprato da un marinaio e portato in un porto dei paesi caldi per esser venduto a un circo.
L’orsacchiotto si era dimostrato subito più pronto nell’apprendimento rispetto ai suoi fratellini. Meno timoroso, più forte e più abile. Imparava con una rapidità sorprendente. Aveva fatto amicizia con gli uomini. Aveva imparato subito le cose che facevano loro piacere e quelle che no, le cose che gli era permesso fare e quelle che no.
Man mano, sera dopo sera e spettacolo dopo spettacolo, era diventato il celebre Fram, l’orso polare: l’enorme orso bianco che usciva da solo nell’arena a eseguire il proprio numero senza un domatore accanto, capace di tirar fuori ogni volta qualche nuova trovata, di capire lo scherzo. Fram, l’orso che capiva gli scherzi e conosceva la pietà.
Aveva dimenticato tutto quello che si era lasciato alle spalle, nell’immenso deserto di neve di ghiaccio, dove la notte durava sei mesi e il giorno altri sei, dove un giorno e una notte sono come un anno. Aveva dimenticato. Il suo pensiero non era più tornato fin laggiù.
Viveva tra gli uomini, adesso. Era loro amico, il loro preferito. D’altronde, sembrava capace di leggere dai loro occhi desideri e gioie. Qualcuno avrebbe giurato che fosse in grado di intuirne persino i dispiaceri.
Adesso, tutt’a un tratto, quel mondo così lontano e dimenticato si risvegliava dentro di lui. Tornava da laggiù, da quell’abisso di anni e di chilometri, per ricordargli in sogno tutto ciò che aveva cancellato».
(Il sogno di Fram o «il richiamo della banchisa, pp. 69-70)
«L’oceano si estendeva ormai fino all’orizzonte, a perdita d’occhio, verde e immenso, appena increspato dalle onde.
Ogni tanto qualche banco di ghiaccio galleggiante attraccava senz’ancora vicino gli scogli, per poi staccarsi e continuare la propria navigazione verso mete ignote, in una processione incessante.
Sulla zattera di ghiaccio trasparente, viaggiavano a volte trichechi e foche coi rispettivi cuccioli. Viaggiavano senza biglietto, scambiandosi tenerezze tra i mille riflessi del sole sul ghiaccio, trasportati da un estremo all’altro dell’oceano.
Una volta, una sola volta, Fram scorse una nave.
Il cuore gli balzò nel petto dall’emozione. Un’onda di sangue bollente gli mozzò il respiro. Una nave! Esseri umani! Forse lo stesso cacciatore che lo aveva portato fin là, sulla riva di quell’isolotto deserto e che, premuroso e protettivo verso di lui, gli aveva lasciato le provviste in quel frigorifero naturale di roccia e ghiaccio. Forse persino la giovane donna che gli aveva lisciato la pelliccia con la carezza dolce della sua mano. Una nave! Veniva dall’altro mondo! Il suo mondo lontano! Dove aveva trovato comprensione, non era mai stato solo e non aveva mai conosciuto la fame! Ma soprattutto un mondo dove non si era mai sentito straniero come in quel deserto gelato, patria di stolidi orsi che digrignano i denti o si danno alla fuga appena cerchi di avvicinarli.
Fram si alzò su due zampe e fece ampi gesti di felicità e di benvenuto.
La nave, però, si allontanò, rimpicciolendo fino svanire nella foschia dell’orizzonte.
Forse era diretta verso altre isole, riportate sulle mappe, dove si trovavano capanne di cacciatori e pescatori.
O forse non era stata che un’allucinazione, un inganno dell’immaginazione e della fame.
L’oceano sembrò essere diventato ancor più deserto e ostile di prima. A solcarlo c’erano solo i sempiterni banchi di ghiaccio alla deriva, d’ogni forma e dimensione.
Fram proseguì nel suo cammino sulla riva pietrosa».
(Fram, il naufrago, pp. 157-8)
«La fame gli dilaniava [a Fram] lo stomaco con artigli di bestia feroce. Ne sentiva le punti ricurve in ogni momento.
E la preda era a due passi...
Gli sarebbe bastato saltare di sorpresa in mezzo alle foche per uccidere e sbranare, lacerare carne e spezzare ossa con i denti.
Ma gli occhi delle foche erano così grandi, dolci e innocenti, che, d’improvviso, Fram si ricordò di altre foche, quelle ammaestrate del Circo Struzki.
Quelle uscivano da sole dalla vasca, prendevano la palla con la punta del naso per giocare tra loro contente. Erano tra gli animali più buoni del Circo Struzki e, dopo ogni numero del loro spettacolo, aspettavano in buon ordine la ricompensa del domatore. Un pesce preso al volo, un frutto, un dolcetto. Erano sue amiche. Un tempo avevano fatto anche un numero assieme. Come poteva avventarsi su una di loro, sfondarne il cranio con le zanne, sentire l’osso scricchiolare tra le mascelle?
Gli occhi della foca più vicina si incrociarono per un attimo con quelli di Fram. Gli stessi occhi buoni, senza colpe senza paura. Occhi tondi e ignari.
Si guardarono.
Fram a quel punto girò le spalle.
Per scacciare le tentazioni della fame, cercava di far scappare le foche.
Le foche, tuttavia, non si mossero. Erano cresciute vicino a un’isola dove fino ad allora nessun orso aveva mai messo piede. Perciò non conoscevano la paura.
Se ne restavano stese sui loro scogli piatti e guardavano stupite questa enorme, buffa creatura color ghiaccio e neve, che le fissava, si alzava sulle zampe di dietro, rugliava cupamente e sembrava tanto arrabbiata.
Fram arrivò a spingerle col muso, a rigirarle con la zampa, le spinse in acqua. Alzò in aria un cucciolo come fosse una palla, sopra la sua testa, e gettò anche lui in acqua.
Alla fine, rimasto solo, si sedette sul margine degli scogli, come un uomo, col mento sulle zampe, e come un essere umano in ambasce, sembrò meditare sul senso di quello che era appena accaduto.
Dunque, non aveva avuto cuore di uccidere una foca?
Non una foca e probabilmente nessun’altra creatura vivente.
D’altronde, aveva vissuto con animali d’ogni specie, nel circo.
Li conosceva. Li aveva sentiti lamentarsi nel sonno quando sognavano la libertà perduta e i luoghi da dove erano stati strappati.
Erano tutte creature belle, a loro modo, e buone!
Il problema era che nessuna di queste nobili considerazioni avrebbe mai potuto riempirgli lo stomaco!
Fram si sentì l’orso più disgraziato del mondo».
(Fram e la legge di natura, pp. 138-9)
Giuseppe Stabile
(n. 5, maggio 2022, anno XII)
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