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Antologia Giuseppe Pontiggia. «La Morte in Banca», Capitolo I
La porta di velluto si aprì improvvisamente e la voce del commesso pronunciò il nome di Carabba.
Carabba era seduto su un lungo divano, dove aveva posato i suoi documenti in uno strano ordine. Li raccolse affannosamente, si ravviò agitato i capelli e, cercando di darsi un contegno composto, entrò in un piccolo salotto rosso.
Dietro la scrivania il segretario lo invitò cortesemente a sedere.
Carabba obbedì con grande misura nei gesti, mentre il cuore gli martellava in gola. Si rinfrancò quasi subito alle prime domande.
- Lei è il signor Carabba, vero? Quanti anni ha?
- Diciassette anni.
- E ha già il diploma di maturità classica?
- Sì, è perché ho compiuto il salto della quinta classe elementare e della terza classe di liceo.
Carabba cercava per l’occasione il linguaggio più corretto. Il segretario tacque per un momento.
- Non ha persone a carico?
- No, avrei mia madre, che è vedova, ma prende già la pensione.
Nuova pausa.
- Intende continuare gli studi?
- Sì, vorrei iscrivermi all’università di lingue straniere.
Pensava invece di iscriversi a lettere. Ma gli avevano consigliato, per la domanda di impiego in banca, di dire che studiava lingue, l’Ufficio del Personale ne avrebbe tenuto conto.
Infatti il Segretario si mostrò compiaciuto, assentì con ilcapo.
- E lei pensa, con gli studi che ha fatto, che il lavoro di banca potrà interessarle?
Carabba mentì nuovamente. Aveva un amico, impiegato in banca, che diventava depresso quando accennava al suo lavoro: «Ok, penso di sì. Ho alcuni amici impiegati in banca, che sono molto soddisfatti».
Il Segretario si alzò dalla scrivania e gli tese la mano per accomiatarsi: «Restiamo intesi, signor Carabba. Non c’è nessun impegno da parte nostra. Se la sua domanda verrà presa in esame, la faremo chiamare nei giorni prossimi. Quanto ai documenti che lei vedo ha portato, non ci servono per ora. Forse più avanti».
Carabba cercava di imprimersi nella memoria queste parole, per riferirle con esattezza a sua madre. Ma il tono generale gli sembrava benevolo. Richiuse con reverenza la porta di velluto. Sentì alle spalle la solita voce del commesso appostato che pronunciava un nome. Un altro candidato si alzava di scatto, ravviandosi i capelli, ma lui ormai era sulle scale.
Scese di corsa, finché si trovo all’aria libera, respirò.
Più tardi, sulla piattaforma del tram, cominciò a riflettere. In fondo, non gli era stato promesso niente: la sua domanda doveva ancora essere accettata e lui era stato chiamato solo per fornire chiarimenti.
Questo pensiero lo turbò e lo rese come assente.
A mano a mano che si avvicinava a casa, sentiva ingiustificata quella specie di felicità, all’uscita dalla banca.
Che cosa avrebbe detto a sua madre? Del tono benevolo del Segretario? Carabba si rammaricava con se stesso.
Salì poi stanco le sale di casa, un immenso, grigio alveare di periferia, di cui loro occupavano tre stanze, all’ultimo piano. Sua madre lo accolse premurosa e non si scoraggiò alle risposte svagate. Ma siccome insisteva sui particolari, Carabba la interruppe brusco, dicendo che bisognava aspettare, che non si poteva prevedere niente, che bisognava non pensarci.
Ma come era possibile non pensarci, se un impiego era urgente e appunto per questo aveva abbreviato gli anni di liceo. In fondo, aveva sempre sperato in quella banca, dove poteva contare su un lievissimo appoggio. Ma ora tutto si prospettava così incerto, difficile. Nell’anticamera del Segretario del Personale aveva conosciuto altri giovani nella sua stessa condizione. E tutti speravano, e tutti ripetevano, corrugando la fronte, le identiche considerazioni.
Lo richiamarono, ma senza compromettersi.
Così per giorni e giorni.
Dopo un mese di anticamere, presentazioni, sondaggi, funzionari che si alzavano da una scrivania e lo invitavano a sedere, Carabba si sentì stanco. Aveva l’impressione di camminare in bilico. Nei colloqui era estremamente compito, controllato nel gesto, irreprensibile nel discorso, in cui talvolta introduceva però qualche nota spontanea, per renderlo più pittoresco e convincente: se ne compiaceva sorridendo tra sé, pensava che ogni inerzia psicologica potesse facilitare il corso della sua pratica.
Dovette sostenere un piccolo esame di francese, dato che aveva ammesso di conoscerlo discretamente.
Nell’immenso brusio del Portafoglio Estero l’impiegato gli porse una lettera da tradurre.
Carabba se la cavò abbastanza bene, aggrappandosi a ricordi scolastici ormi sbiaditi e lasciando tali e quali i termini che non sapeva tradurre: plico, importo, merci…
Quando finì, l’impiegato gli chiese, di sfuggita, se intendeva sostenere, una conversazione in francese, del tutto facoltativa, però.
Carabba vuole accettare; ma era inspiegabile, assurdo!
Si pentì all’istante!
Con occhio smarrito seguì l’impiegato che si muoveva tra le scrivanie, raggiungeva un uomo.
Eccoli confabulare, accennando a lui.
Ecco l’uomo guardarlo e precipitarsi sorridendo.
- Parlez-vous français?
- Oui, assez bien.
L’altro, compiaciuto della risposta, che per lui significava effettivamente qualcosa, lo incoraggiava con gli occhietti a continuare. Ma Carabba si sentiva finito, il seguito gli pareva inaffrontabile. L’altro replicò in francese, fece qualche domanda, ma Carabba rimaneva inerte.
L’uomo allora si rassettò, si ricompose e gli tenne un garbato discorso sulla opportunità di non pretendere conversazioni in una lingua che si conosce soltanto scolasticamente e forse neppure bene scolasticamente.
Carabba uscì costernato.
Due visite mediche e il nullaosta dell’ufficio di collocamento.
Un sabato mattina il Segretario gli disse:
- Si presenti qui lunedì, alle nove.
Lo guardò. Concesse, con pause leggere:
- Lei si può ormai… considerare… assunto.
Carabba ringraziò, si vedeva già a casa con la notizia.
Il pomeriggio, nella biblioteca comunale, non riuscì a concentrarsi e a leggere come avrebbe voluto. Lo distraeva il pensiero dell’impiego, a dire il vero lo turbava, lo lasciava sgomento: perché insomma lui stava per abbandonare una vita e doveva affrontarne un’altra, così diversa, così estranea alle sue aspirazioni. E qui, da solo, poteva anche permettersi di esitare, di avvertire i propri timori, la propria scontentezza.
L’euforia del mattino svaniva.
Se ne stupì.
Cercò allora di vedersi dal di fuori, oggettivamente, come fosse un altro. Chi era? Un ragazzo che sta per impiegarsi e viene assalito da dubbi mentre legge nella cornice di una biblioteca.
Ripensò a quanto poteva avere creato quello stato d’animo: il silenzio, l’avvicinarsi della sera, il libro che aveva tra le mani e altri particolari che continuava a scoprire.
L’autoritratto finì per disturbarlo.
Bisognava riportare la situazione alla sua dimensione vera: la realtà era che lui aveva finalmente ottenuto l’impiego e al massimo poteva essere un poco incerto per la nuova vita che doveva affrontare.
Allora raccolse il libro soddisfatto e uscì a passi indifferenti dalla biblioteca.
tratto da LA MORTE IN BANCA di Giuseppe Pontiggia
© 2015 Mondadori Libri Spa
Per gentile concessione degli Erede e dell'Editore.
(n. 2, febbraio 2023, anno XIII)
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