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Antologia Giuseppe Pontiggia. Da «Il raggio d'ombra»
In cima a un vicolo ripido, che girava con il suo acciottolato lungo le mura a strapiombo sorgeva, a Bergamo alta, la piccola casa-torre del professor Perego. Quando vi si era installato, nel 1913, attingendo al patrimonio famigliare, aveva interpellato un capomastro sulla solidità delle fondamenta. “Che cosa ci deve mettere, una turbina?” gli aveva chiesto l’altro, con un sarcasmo non esente da simpatia. “No, una biblioteca.” “E allora non si preoccupi. Può stare tranquillo fino alla fine dei suoi giorni.”
Ma quando lo aveva interpellato di nuovo, undici anni dopo, il capomastro era rimasto senza parole, di fronte agli scaffali che non solo coprivano tutte le pareti, ma si allineavano al centro del locale e salivano fino al soffitto. Entrando, bisognava accendere la luce, perché quella delle finestre non riusciva a filtrare tra le muraglie dei libri. Il capomastro aveva picchiato con il tallone sul pavimento, per saggiare il suono, e poi aveva chiesto al professore: “Ha intenzione di comperare altri libri?”. “Certo”. “Allora è una cos seria” aveva detto il capomastro, a gambe larghe, rigirando tra le mani il cappello macchiato di calce. “Qui non si può continuare a caricare il pavimento.” “E allora?” “Allora vediamo gli altri locali.” Erano passati in sala, in salotto, in camera da letto, e dappertutto aveva visto libri: libri sopra le mensole, su ripiani degli armadi, nei vani. “E la cantina?” “È già piena.”
A quel punto il capomastro aveva allargato le braccia, “Questo non è più un problema che possa risolvere io, lo deve risolvere lei.” “E come?” “Non compri più libri.” “Non è possibile” aveva risposto il professore, con una determinazione cupa. Allora l’altro lo aveva fissato con una improvvisa pietà: “Non ha un terrazzo?” “Sì, una altana.” “Saliamo.” E lì il capomastro, appoggiandosi al parapetto e guardando la pianura, verde e luminosa, che si stendeva fino a Milano, aveva avuto una idea: “E se chiudessimo tutto?” “Come?” “Chiudiamo l’altana con i vetri piombati. E lei ha un locale in più per i suoi libri, come una serra.” Il professore lo aveva guardato emozionato: “E la temperatura?” “Quella delle stagioni” aveva risposto il capomastro. “Tanto lei non ci deve abitare e i libri restano al coperto.”
Così l’altana si era trasformata in una biblioteca aerea e, dall’acciottolato in basso, si intravvedevano gli scaffali e, al centro della vetrata, una finestrella, quasi sempre chiusa. Il professore vi saliva spesso, portando libri nuovi e spostando gli altri, e ogni volta misurava con gli occhi lo spazio che gli restava. Aveva calcolato che gli sarebbe bastato per sette anni. Poi non sapeva che cosa avrebbe fatto. Modifiche alla casa non erano possibili, su questo punto il capomastro era stato categorico, con un tono tra l’avvertimento e la minaccia. E rinunciare all’acquisto dei libri era altrettanto impossibile. Perego vedeva il futuro come due strade convergenti, che si incontravano in un punto dove lui moriva. Ed era, nel suo presentimento, un morire in pace, un cedere, ormai rassegnato, all’inevitabile. Al massimo avrebbe potuto differire, con qualche libro in meno e qualche ripiano in più, il momento fatale. Ma solo per alcuni mesi.
Quando emergeva da queste fantasie malinconiche, Perego si guardava intorno, nell’altana, e sentiva il bisogno di vivere una vita diversa. Gli occhi velati di lacrime, si appoggiava con la fronte al vetro della finestrella e guardava i tetti sul declivio, le strade, i cipressi, gli uomini che si incontravano e si salutavano. Stava a lungo immobile, finché la commozione, passando, gli lasciava una sensazione strana di smarrimento e insieme di pietà per se stesso. Allora apriva la sua finestrella e cercava di respirare a pieni polmoni l’aria del tramonto. E chi passava in basso e levava gli occhi, vedeva quell’uomo affacciarsi alla sua torricella e scrutare l’orizzonte, come il guardiano di un faro.
C’era una domanda alla quale Perego, come chiunque possegga molti libri, riusciva raramente a sottrarsi. Domanda che gli sembrava un indice tra i meno conosciuti, ma tra i più inquietanti, della ottusità universale. “Li hai letti tutti?”
Aveva sperimentato vari tipi di risposa, pur presago che quella più illuminante sarebbe stata il silenzio. Aveva provato, sfidando l’evidenza e precipitando nell’ebbrezza dell’assurdo, a rispondere:
«Si.»
L’interlocutore di solito aveva un sussulto di sorpresa, i più ignari chiedevano, tra il dubbio e l’ammirazione:
«Ma veramente?»
e al secondo “Sì” impavido reclinavano il capo.
Ad altri aveva cercato di fare capire che il libro non è un cibo che si deteriora, ma una provvista che si fa per altre stagioni, per inverni rigidi e per estati ombreggiate,e che il piacere dell’attesa non è meno intenso di quello dell’appagamento ed è, se non altro, più certo. Lo guardavano, a questa precisazione, con quella indulgenza che riserviamo a chi svela debolezze meno gravi delle nostre.
Altre volte aveva paragonato il rapporto con un libro a quello con l’essere amato: molti pensano che lo si possiede in un modo solo, che chiamiamo “completo”, ma si tratta di una immaginazione angusta e probabilmente illusoria. Che cosa vuole dire possedere? Lo si scambia con lo strappare il sì di una estasi momentanea, in un pullulare di no nascosti nell’ombra. Ma ci sono modi più durevoli di possedere: modi più delicati e allusivi, fondati sul dubbio, o più tenaci e occulti, fondati sull’odio. E poi, è così importante possedere? Ricordava il disagio che aveva provato quando la sua collega di ginnastica, al liceo Pascoli, gli aveva offerto per la prima volta il suo corpo nel laboratorio di fisica e, ripetendoli intempestivamente “Sono tua!”, gli aveva tolto ogni possibilità di ricambiare una offerta così impegnativa. E che cosa doveva significare il possesso di un libro? Leggerlo dalla prima parola all’ultima? Non era sufficiente, o addirittura preferibile, sfogliare le poche pagine che interessavano e lasciare le altre ad amatori più costanti? Alcuni, infatti, concepivano la lettura – e l’amore – come un gioco di pazienza e finché non l’avevano portato a compimento, tra applicazione e noia, non desistevano, tradendo così lo scopo per cui l’avevano incominciato.
Altri visitatori invece, ammiccando, usavano subito la parola “collezionismo”. E l’appagamento che traevano dal definire – felicità ansiosamente cercata e quasi sempre trovata dalla maggioranza degli uomini – lo indiceva a rinunciare a qualsiasi tentativo di correzione.
Si limitava semmai a non alimentare ulteriori equivoci: non prediligeva, ad esempio, i libri rari o esauriti, si rammaricava semmai che non li ristampassero. C’era qualche differenza dunque tra lui e un suo amico, che, mostrandogli alcune stampe di sua proprietà, si era vantato che ne fossero state ritirate cento copie e poi ne fossero state distrutte le lastre, perché valessero di più. E a lui si era impressa nella memoria l’immagine probabilmente falsa, degli stampatori che scagliavano per terra le lastre, così che non poteva rivedere quelle stampe senza una vaga riluttanza.
Lo attraevano solo i libri che sperava di leggere, quando ne avesse avuto il tempo, prima o poi. E ogni libro era per lui un viaggio fantastico: nel paese delle Esperidi, con le mele d'oro appese ai rami, nel tramonto, o nelle strade di Londra, con la carrozza di Pickwick che si avventurava sull’acciottolato, tra case e insegne, o sull’oceano di Melville, con il gabbiere che precipitava minuscolo dall'albero, in una giornata di afa. Queste immagini, dopo essere diventate esperienze, si trasformavano in ricordi: era lui il ragazzo che, nelle notti di luna, scavalca il muro del cimitero in Madame Bovary o il giovane che, in un tramonto caldo, esce nelle strade di Pietroburgo meditando un delitto. Viveva in altri secoli, in altri paesaggi: nella valle di Tempe, ombrosa, fresca, o nelle città medievali in cima ai colli, che alzavano alla sera il ponte levatoio e chiudevano un mondo di strade semibuie, echeggianti di voci sulle porte.
Non solo i libri racchiudevano per lui l'essenza della vita, ma il loro acquisto ne costituiva il momento più intenso: quasi fosse una appropriazione magica del contenuto, una ingestione invisibile delle loro pagine, nella impossibilità disperata di divorare la biblioteca, di inghiottire l'universo. Non poteva infatti abitare in tutti quei mondi ma solo in alcuni, e ad altri non riusciva ad avvicinarsi che in parte, sfogliando i volumi con trepidazione, accarezzandoli sul dorso, sfiorandoli con i polpastrelli.
Non era mancata la diagnosi di un amico medico, che parlava di una trasposizione sui libri dell'istinto sessuale: ipotesi che gli era parsa attraente e attendibile non meno di un'altra, che gli era venuta in mente poco dopo, e cioè che lui trasponesse sulle donne l'amore per i libri. E alla obiezione che i libri erano surrogati di altri piaceri, lui confessava la noia ormai invincibile dei piaceri che essi dovevano sostituire, tanto che ormai avrebbe dovuto sostituire anche la parola piacere: passati i trasporti amorosi dei vent'anni, aveva vissuto quelli dei trenta e provato quelli dei quaranta e scoperto quelli dei cinquanta; però a cinquantasei anni era stanco e aveva rinunciato, almeno mentalmente, anche a quelli futuri.
Gli restava, delle sue amanti, solo l’ultima, la vicepreside del suo liceo, donna monumentale e gigantesca, sul corpo della quale, nel fare l’amore, si issava come su un canotto. Possedeva una virtù rara e per lui essenziale, quella di non accusare e di non recriminare, di non sentirsi in credito con lui o in debito con l’esistenza. Lo ascoltava con una disponibilità pari alla indifferenza: ma c’era un sapere naturale nel suo comportamento, una ottusità illuminante, una mobilità inerte e fatale, come l’agilità di un capodoglio. E lui aveva imparato molto dai suoi silenzi, dai suoi occhi chiusi, dai suoi sonni profondi dopo ogni orgasmo, dal suo destarsi riluttante.
Stanco di verità patetiche e di menzogne disperate, aveva rivissuto, dormendo vicino a lei, un piacere provato a vent’anni, quando, ufficiale di cavalleria, aveva dormito vicino a una grande cavalla. Glielo aveva confessato tardi, dopo mesi di puerili esitazioni, mentre lei aveva gradito il paragone, sorridendo, sdraiata, immobile, senza fare commenti. Erano state troppe per lei le relazioni tumultuose, che avevano messo a dura, anzi decisiva prova la sua capacità di illudersi e invecchiato precocemente il suo consorte. Perego, tra i suoi amanti, non era quello che le aveva dato di più, ma quello che l’aveva ingannata di meno. R questo, con il mutare dell’età, contava qualcosa. Sentiva che la parola “qualcosa” era più vicina alla verità che “tutto” o “niente”. E quando vi aveva alluso con lui, ricacciando le lacrime, gli era stata grata che non fosse rimasto contrariato, né deluso nel suo orgoglio, né falsamente indifferente. Lui anzi inaspettatamente aveva mormorato “cara” e le aveva posato una mano sui capelli.
Quella volta si erano amati più intensamente. E all’alba, accanto a quel corpo caldo, enorme, come una stufa, nel chiarore che filtrava dai vetri, tra le copertine dei libri, gli era sembrato non di essere vicino alla morte, ma di averla oltrepassata.
tratto da Il raggio d'ombra, di Giuseppe Pontiggia
© 1983 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
© 2023 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Per gentile concessione degli Erede e dell'Editore.
(n. 7-8, luglio-agosto 2023, anno XIII)
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