Lo sguardo dell'abbandono. Volti e parole dei ragazzi abbandonati della Romania

Dimenticami, ormai è tutto spento è il titolo del libro fotografico di Giada Connestari dedicato ai ragazzi di strada di Bucarest. La giovane fotoreporter marchigiana ha vissuto per diversi mesi in Romania, conoscendo di persona ragazzi e ragazze che vivono sulla propria pelle la drammatica esperienza delle fogne della capitale romena, usate come ambienti dove cercare di sfuggire al freddo. Volti, parole, dialoghi: un incontro che tocca e scuote, una struggente testimonianza su una realtà che conosciamo poco e male. I proventi della pubblicazione andranno in beneficienza.
«La dimensione della fotografia non è solo estetica, ma anche etica. Lo dimostra bene, qualche volta anche togliendoci il fiato con immagini e testimonianze, questo libro di Giada Connestari, che è un documento atto ad interpellare le nostre coscienze. Immagini e testimonianze sono inserite in un quadro del susseguirsi degli eventi storici, dove le utopie generano la tragedia, ma anche fioriscono eroismi, speranze, solidarietà», sottolinea Carlo Emanuele Bugatti, direttore del Museo Comunale d'Arte Moderna, dell'Informazione, della Fotografia (Musinf) di Senigallia.


Giada Connestari e le testimonianze da lei raccolte

Dimenticami, ormai è tutto spento è frutto di un lavoro sul campo di diversi mesi, a stretto contatto con la quotidianità di tanti ragazzi abbandonati. Perché tornare oggi su un soggetto tanto doloroso come la separazione di genitori e figli dell’epoca di Ceausescu, che forse tanti romeni preferirebbero seppellire tra le macerie di un mondo passato?

Sono arrivata in Romania quasi per caso, attraverso il Servizio Volontario Europeo (SVE). Mi sono trovata ad uscire la sera per portare il thè caldo ai ragazzi che in inverno si rifugiano nelle fogne e nelle case disabitate. Mano a mano che la mia comprensione della lingua romena si affinava anche i dialoghi, bisbigliati intorno ad un bicchiere di plastica bollente, diventavano più profondi. Cominciai a chiedere ai ragazzi che incontravo che cosa gli era capitato, perché erano in così tanti a rifugiarsi negli angoli più bui e desolati della città, soli, senza casa e senza famiglia. Le risposte alle mie domande arrivavano in maniera discontinua. A volte ci mettevo mesi per ottenere qualche sporadica parola, altre mi imbattevo nella voglia di raccontare di chi è abituato a sentirsi ignorato. Le loro parole, che ritracciavano invariabilmente una storia di abbandono e povertà, mi riportarono alla mente gli echi confusi delle immagini viste in televisione da bambina nel lontano ’89. I ragazzi con cui stavo parlando, tutti per lo più miei coetanei o di poco più giovani, erano i bambini le cui immagini avevano sconvolto e commosso l’opinione pubblica internazionale alla caduta del regime, tanto da provocare un’ondata di adozioni internazionali. Tutte quelle fotografie, ancora spesso in bianco e nero, di bambini malnutriti dentro ai letti degli orfanotrofi, di ragazzini accasciati sui cigli delle strade, riapparivano nel presente.

I ceausei, cosi venivano chiamati i bambini abbandonati negli ospedali e negli orfanotrofi, voluti dallo stato e affidati alle cure dello stato. Oggi, che sono diventati adolescenti e adulti, dormono nelle fogne, nelle scale dei condomini e nelle case disabitate. Girovagano con sacchetti di colla, bottiglie e siringhe. Lavorano alla giornata nei parcheggi, dai fiorai oppure scaricano merci ai mercati. Spesso indossano abiti sporchi perché vivono per strada, mangiano nei centri di assistenza e si arrangiano tra elemosina e piccoli furti.
Questo è quello che tutti sanno, quello di cui è facile accorgersi passando alla Gara de Nord di Bucarest.
Questo è quello che non ho voluto raccontare.

Fotografare la vita quotidiana di questi ragazzi, oggi, significava mostrare una risultante, senza dare il giusto peso alle ragioni storico-politico che l’hanno provocata. Significava alimentare il luogo comune della violenza e della miseria, senza scoprire cosa si cela nel retroscena. Ecco perché la scelta di ripercorrere il passato attraverso i ricordi stessi di questi ragazzi, testimoni inconsapevoli delle rivoluzioni e dei fallimenti del Novecento. Le loro parole, cariche di rabbia e tristezza, ci fanno respirare l’aria fredda degli orfanotrofi e la paura delle notti trascorse per strada. Ritracciano la memoria di un vissuto personale e collettivo che ha travolto un’intera generazione di madri e figli. Quelle madri tanto spesso evocate dai loro racconti come un souvenir vago e indelebile; la violenza dei padri e il morso della fame invocate come sensazioni fisiche ancora tangibili. Come tangibili sono, per il lettore che si accinge a sfogliare questo libro, i loro volti giovani e profondamente segnati nei quali non c’è spazio per la spensieratezza. Una galleria di espressioni che, con il solo sguardo, «dicono» la solitudine e il rifiuto. Una pelle da cui trapela la fragilità, l’insicurezza, la rabbia e il coraggio.
Il coraggio di chi, emarginato e rigettato sin dai primi anni di vita, ha deciso di raccontarsi senza vergogna e senza filtri.
 


«Il canale della fogna era molto lungo ed eravamo parecchi a stare là. Avevo sistemato un angoletto in fondo e attaccato nelle pareti delle cartoline e delle foto. Mi ero scelto quell'angoletto appartato per stare in disparte ed evitare di immischiarmi agli affari degli altri. Avevamo l'acqua, la stessa che arriva nelle case. Quando lavavo i vestiti li appoggiavo in un punto da cui usciva aria calda e si asciugavano in 10 minuti. Poi il canale è stato chiuso. Quando posso lavoro nei cantieri. Ho imparato a fare i pavimenti e a imbiancare. Mi piace lavorare, qualsiasi lavoro, ma non ho i documenti e non posso essere assunto in regola. Mia madre è morta quando ero bambino e mio padre mi ha lasciato in orfanotrofio all'età di quattro anni. Mi serve il certificato di nascita per avere la carta d'identità ma l'ultima volta che sono andato a casa per recuperarlo mio padre non mi ha nemmeno lasciato entrare, è alcolizzato e violento».
(D. 20 anni, nato nel 1987)



«Sono stato abbandonato alla nascita in ospedale. Sono cresciuto in un centro di collocamento. Ho visto per la prima volta mia madre all’età di sedici anni. Lavorava in un bar e sono andato a cercarla. Quando l’ho vista é stata come una specie di sorpresa. Volevo parlare con lei ma lei non voleva. Le ho chiesto di prendermi in casa, mi ha risposto che aveva dei debiti e che si ammazzava se non li risolveva. Mi ha detto che non voleva tenermi e che si era risposata con un altro.
Allora le ho chiesto dei soldi per tornare in istituto, a Timişoara. Non l'ho mai più rivista. Ho cambiato molti istituti: Azur Victoriă, Județul Timiș numero 2, Logos Județul Timiș numero 10. Da là sono fuggito e sono andato in un centro d'urgenza per i bambini di strada. Ci sono restato due anni, poi mi sono trasferito all'istituto Generaţia Tinera di Timişoara. Ci sono restato quattro mesi, poi mi hanno internato in un ospedale psichiatrico. Mi hanno internato perché volevo avere una pensione. Avevo vent'anni. Quando sono uscito ho preso il treno rapido e sono venuto a Bucarest dove sono entrato in un altro istituto».
(D. 22 anni, nato nel 1985)



«Mi hanno lasciata in ospedale. Non so più nulla di quando ero piccola. Ho frequentato dodici anni nella Scuola Speciale di Balș. Mi picchiava una ragazza, Madalina. Era una ragazza della mia stessa età. Non ho giocato. Avevo paura di lei. Madalina mi prendeva i soldi e io non dicevo nulla perché avevo paura. Nel 1999 ho terminato la scuola. La scuola mi piaceva, non mi piaceva questa ragazza che mi picchiava sempre. Dopo Balș, sono andata in un altro centro per bambini disabili. Sono sempre andata d’accordo con le signore degli orfanotrofi. Non so chi sono i miei genitori e non mi interessa nemmeno saperlo. Voglio lavorare e mi piace lo sport. Mi sarebbe piaciuto diventare una sportiva, ho fatto qualche competizione e ho vinto un premio in atletica. Non voglio costruirmi una famiglia. Non ho fiducia in nessuno, è difficile trovare un uomo che tenga a te e ho paura. Ho una buona amica a Corabia, un’assistente medica di trentadue anni. Quando mi manca le telefono ancora oggi. Il centro di Corabia mi piaceva perché avevano più cura di noi. Sono malata di gastrite cronica perché non mangiavo, bevevo caffè e fumavo a stomaco vuoto. Ho cominciato a fumare a sei anni. Ho vissuto sempre in orfanotrofio e non avevo il coraggio di andarmene, non sapevo cosa ci fosse fuori e ne avevo paura».
(V. 34 anni, nata nel 1979)


Giada Connestari
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(n. 4, aprile 2012, anno II)