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«Il Card. Iuliu Hossu - Spirito della Verità». Un libro per la beatificazione
La visita storica di Papa Francesco in Romania ha regalato al numeroso pubblico di fedeli il momento di beatificazione dei sette vescovi eroi della Chiesa. Domenica, 2 giugno 2019, a Blaj, in una solenne cerimonia, il Santo Padre ha pronunciato le formule ufficiali di elogio delle sette famose personalità che hanno sofferto per la loro fede: Vasile Aftenie, Valeriu Traian Frențiu, Ioan Suciu, Tit Liviu Chinezu, Ioan Bălan, Alexandru Rusu e Iuliu Hossu. La beatificazione arriva in seguito a un ampio processo di ricerca e documentazione sulle biografie e le attività di resistenza, svolte dai capi romeni di una Chiesa vietata dal regime comunista, che sono finiti in una lunga prigione, per la loro determinazione cristiana.
Alla recente grande occasione di Blaj si è aggiunta anche la pubblicazione, in traduzione italiana, della biografia del Card. Iuliu Hossu, scritta da Gelu Hossu, un nipote della grand’anima, che conosce da vicino le delicate realtà biografiche del primo Porporato romeno. Presentiamo al pubblico un frammento del libro Il Card. Iuliu Hossu – Spirito della Verità, Cluj, Ed. Viața Creștină, 2019.
Il Card. Iuliu Hossu - Spirito della Verità
A Sighet
Dopo tre giorni di indagini al palazzo del Ministero dell’Interno a Bucarest, Iuliu Hossu è arrestato e portato, insieme agli altri vescovi della Chiesa, Valeriu Traian Frențiu, Alexandru Rusu, Ioan Bălan, Vasile Aftenie e Ioan Suciu, alla residenza estiva del Patriarca Iustinian, a Dragoslavele, adesso circondata da filo spinato e trasformata in prigione. Qui riceve numerose visite di alcuni capi della Chiesa Ortodossa e di alcuni rappresentanti del Ministero dei Culti, che gli propongono, senza successo, di passare all’ortodossia. Di conseguenza, l’8 novembre 1948 viene pubblicato nella gazzetta ufficiale il decreto con cui è destituito dall’incarico vescovile. Con il decreto 358, emesso il 1 dicembre 1948, esattamente a 30 anni dopo la Grande Unione, la Chiesa Greco-Cattolica è dichiarata fuori legge, i beni mobili e immobili sono trasferiti alla Chiesa Ortodossa e allo Stato Romeno, e le istituzioni ecclesiastiche «finiscono la loro esistenza».
A febbraio 1949, i vescovi sono trasferiti da Dragoslavele al Monastero di Căldărușani, trasformato anche questo in prigione, e dal 24 maggio 1950 sono incarcerati nella prigione di massima sicurezza di Sighet. Alludendo agli abiti neri che indossano, le guardie li accolgono con parole di scherno: «Mettiamo i bufali in stalla!» [1]. Finiscono con la testa rasa, sono vestiti «da schiavi», nella divisa a strisce tipica per le prigioni di massima sicurezza, sono chiusi nella cella no. 48, poi vengono sottomessi a un duro regime di fame e a lavori infamanti. Le guardie fanno spesso le perquisizioni in piena notte, li trattano con brutalità e usano un linguaggio volgare. Durante una perquisizione di questo genere, su incoraggiamento dell’ufficiale politico, una guardia colpisce con forza il vescovo Hossu al viso. Il cibo, che di solito è fatto di grano mondato o di orzo pelato, è così poco da portare alla fame cronica e alla profonda degradazione fisica. I medicinali, l’igiene e i servizi sanitari mancano totalmente, e questo rappresenta una modalità di distruzione della personalità dei detenuti. La doccia è concessa solo ogni tre settimane, i vescovi sono costretti a camminare a piedi nudi sui corridoi freddi, vestiti solo di camicia e calzoni, obbligati ad ascoltare le imprecazioni e le oscenità delle guardie.
A Sighet, il vescovo Hossu viene indagato e tentato diverse volte con importanti incarichi nella gerarchia della Chiesa Ortodossa dal direttore della prigione e dall’ufficiale politico. Rifiuta sempre con risolutezza e con coraggio le proposte offensive, ripetendo la formula-messaggio: «Con il prezzo della fede, no. La nostra fede è la nostra vita».
In domicilio coatto
La mattina del 4 gennaio 1955, Iuliu Hossu e gli altri due vescovi greco-cattolici superstiti, Ioan Bălan e Alexandru Rusu, sono liberati dalla Prigione di Sighet. Dopo un trasferimento alla Prigione di Jilava, sono chiusi in una villa segreta a Bucarest, e poi sono ricoverati «per rifarsi» all’Ospedale «I.C. Frimu» in via Floreasca. In questo periodo, il presidente del Parlamento comunista (Marea Adunare Națională), Petru Groza, cerca, ugualmente senza successo, di determinarli a rinunciare alla loro fede e offre loro i posti vacanti di vescovo nella Chiesa Ortodossa Romena.
Visto che loro rifiutano decisamente le proposte del presidente del Parlamento e chiedono con insistenza la libertà della Chiesa Greco-Cattolica, dal 7 maggio 1955 i vescovi sono puniti con il domicilio coatto al Monastero di Curtea de Argeș. Qui hanno la possibilità di ricevere le visite dei fedeli e dei preti che hanno resistito agli anni pesanti di prigione e alle tentazioni di «ritornare alla Chiesa-madre». Sono visitati dal rappresentante dell’ambasciata della Repubblica Francese a Bucarest, evento che costituirà più tardi l’oggetto di un processo di alto tradimento. Dal domicilio coatto, i vescovi riescono a riorganizzare la provincia ecclesiastica e hanno numerose iniziative per rimetterla in legalità. In questo senso, in agosto 1955, il vescovo Alexandru Rusu redige una protesta che trasmette al Ministero dei Culti, alla Presidenza del Parlamento (Marea Adunare Națională), all’Associazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la Repubblica Popolare Romena, al clero e ai fedeli delle eparchie greco-cattoliche.
L’anno successivo, il 23 aprile, i tre vescovi firmano una nuova protesta, in cui chiedono alle autorità l’annullamento del decreto abusivo, discriminatorio e anticostituzionale no. 358/1948. Da questa data in poi, l’invio della protesta alle autorità statali, la sua spedizione all’estero, la sua distribuzione in tutte le eparchie greco-cattolice e l’intera azione protestataria cominciata dai fedeli portano a una dura reazione dalla parte dello stato, anche se Petru Groza aveva assicurato ai vescovi che la Securitate non si sarebbe mescolata nei problemi del campo religioso.
Il 14 luglio 1956, sorvegliati dal vicario patriarcale Teoctist Arăpașu, Iuliu Hossu e gli altri due vescovi sono trasferiti al monastero delle monache di Ciorogârla, una località vicina a Bucarest. In questo periodo, un numero sempre più grande di fedeli greco-cattolici inviano proteste al Ministero dei Culti, considerando il momento favorevole per la rimessa della Chiesa nei suoi diritti costituzionali. L’azione raggiunge il punto culminane il 12 agosto 1956, quando a Cluj si organizza una Santa Messa nella Chiesa romano-cattolica dei piaristi, dove i preti greco-cattolici avevano il diritto di celebrare ogni domenica e nei giorni festivi.
La mattina di domenica, 12 agosto, padre Vasile Chindriș, assistito da padre Izidor Ghiurco, celebra la Santa Messa dalle scale della Chiesa dei Piaristi, davanti a oltre quattro mila fedeli a cui non è stato permesso l’ingresso in chiesa. L’atmosfera emozionante creata e la presenza di un numero così grande di fedeli spaventano gli ufficiali della Securitate e nei giorni e mesi successivi si fanno numerosi arresti.
In seguito a questi eventi, le autorità decidono di separare i vescovi. Alexandru Rusu è trasferito al Monastero di Cocoș, dove sarà di nuovo arrestato, Ioan Bălan rimane a Ciorogârla, e Iuliu Hossu è trasferito al Monastero di Căldărușani.
Di nuovo nella prigione di Căldărușani
Al monastero di Căldăruşani, il vescovo Iuliu Hossu è tenuto in isolamento, è in permanenza sorvegliato dall’abate, è provocato dagli agenti della Securitate e subisce le tentazioni per aderire all’ortodossia dai rappresentanti della Patriarchia e del Dipartimento dei Culti. Oltre agli informatori, le sole visite concesse sono quelle dei suoi fratelli Traian e Iustin. Il vescovo ha l’abitudine di dire a coloro che vengono da lui: «Io prego per tutti, sia per quelli che vengono con buoni pensieri, che per quelli che vengono con pensieri nascosti»[2]. Nel 1957, i suoi fratelli sono strettamente sorvegliati, perché la Securitate aveva ricevuto l’informazione che egli avrebbe scritto una pastorale per il clero resistente dell’eparchia. Durante un viaggio in treno da Bucarest a Cluj, Iustin Hossu è costretto a scendere nella stazione di Predeal e viene perquisito, ma gli agenti non trovano da lui la «lettera compromettente».
Rilevante per il modo in cui è sorvegliato il vescovo Iuliu a Căldărușani è una nota informativa del 1960, che sorprende la preoccupazione dell’abate del monastero per quanto riguarda le visite ricevute dal vescovo:
«Un giorno è stato informato che era entrato uno straniero in casa del vescovo Hossu e subito l’abate è andato a vedere chi si era insinuato. E invece una zingarella chiedeva alla sua Santità Hossu un pezzo di pane. Appena visto questo, si è riconfortato un po’ e ha comandato al padre Simion Bulgaru, l’assistente di sua Santità, di essere più attento e di non far entrare nessuno dalla sua Santità Hossu, perché sotto l’apparenza di una zingara innocente poteva insinuarsi la più pericolosa spia. “Come ce la caviamo noi se il vescovo riceve un piano di evasione? Finiremo in galera, e forse si chiuderà anche il monastero”»[3].
Il 28 novembre 1961, il vescovo Iuliu chiude la stesura delle sue Memorie, sancendo anche il loro carattere testamentario: «Prendete queste parole, perciò, miei carissimi fedeli, come il mio testamento, in cui vi lascio quanto ho di più caro: il mio amore per voi tutti, per i carissimi vostri figli, per i loro innumerevoli discendenti»[4]. I tre quaderni di appunti memorialistici sono stesi nel periodo agosto-novembre 1961 e sono nascosti l’anno successivo dal fratello del vescovo, il medico Traian-Ștefan Hossu. Per cura del figlio di questi, l’ingegner Liviu Hossu, i quaderni arrivano ancora prima del 1989 in possesso del monaco Silviu Augustin Prunduș, che dopo averli letti, li restituisce alla famiglia per la vigilente custodia, nella speranza che un giorno sarebbero stati conosciuti anche dai “carissimi fedeli” della Chiesa Greco-Cattolica. L’evento succede nel 2003, quando le Memorie vengono stampate con le Edizioni Viața Creștină.
Nel 1964, per un errore amministrativo, la Polizia della Regione di Urziceni emette per Iuliu Hossu la carta di identità serie e numero K849883 e con indirizzo di residenza a Cluj, strada Moților 26, indirizzo dichiarato dal vescovo al poliziotto responsabile del monastero. Il giorno dopo, in base a una segnalazione venuta dal Dipartimento dei Culti, che avverte il Ministero dell’Interno sulla «gaffe» dei poliziotti di Urziceni, la carta di identità viene annullata e il vescovo è mantenuto ancora nelle restrizioni del domicilio coatto.
Sin dal 1967, le autorità comuniste cercano di attirare il vescovo Hossu dalla parte dei loro interessi propagandistici. Così, è invitato a partecipare alla festa del 1968, all’occasione del semicentenario della Grande Unione, però il vescovo accetta di partecipare soltanto a condizione che la Chiesa Greco-Cattolica sia rimessa nei suoi diritti costituzionali.
Alla fine di ottobre del 1968 riceve a Căldăruşani la visita dei monseniori Giovanni Cheli e Petru Tocănel della Curia Romana e del prete Mircea Todericiu degli Stati Uniti. Petru Tocănel annuncia al vescovo Iuliu che il Santo Padre Paolo VI ha deciso di includerlo nel Sacro Collegio dei Cardinali. In segno di riconoscimento pontificio, gli consegna un anello e una croce pettorale, poi gli trasmette ufficialmente: «Il Papa mi ha dichiarato che la Santa Sede non abbandonerà mai la Chiesa Greco-Cattolica» [5]. I monseniori lo informano che il sommo pontefice ha trasmesso al governo romeno una lettera di auguri per la festa del semicentenario della Grande Unione. La lettera è stata accompagnata da una nota diplomatica, in cui si chiedeva allo stato romeno l’accordo che il vescovo Hossu potesse viaggiare al Vaticano, in vista delle cerimonie di ricevimento al Collegio dei Cardinali. Il Mons. Petru Tocănel sostiene che le autorità romene abbiano tanti interessi a concludere un accordo con il Vaticano, però le trattative non avanzano sulla «questione greco-cattolica», argomento in cui le parti non sono disposte a fare concessioni.
Il vescovo confessa agli ospiti che negli ultimi anni ha inviato numerose proteste, tutte firmate il giorno del 1o dicembre, per ricordare alle autorità che questa giornata ha un doppio significato, ma non ha mai avuto nessuna risposta. Solo alla protesta inviata nel 1967 ha avuto, invece della risposta, una ricevuta su cui era impressa la conferma di una nuova destinazione, «inviata al Dipartimento dei Culti», e il suo nome era deformato in «Hassan», come presa in giro, segno che la lettera è stata letta dalla censura della Securitate.
Per quanto riguarda un invito ufficiale al Vaticano, se questo problema sarà risolto durante i trattativi, lo accetterà, ma non crede che gli si concederà di andare via, perché non presenta, davanti agli organismi statali, sufficienti garanzie che ritornerà. Allo stesso tempo, non si fida che le autorità gli permetteranno di ritornare a casa. Preferisce di aspettare una risposta alle numerose proteste che ha inviato al governo del paese.
Il rifiuto del vescovo Iuliu Hossu di lasciare per sempre il paese, la sola variante accettata dalle autorità comuniste, determina il Papa Paolo VI, in data 28 aprile 1969, di consacrarlo cardinale in pectore, rispettando così i procedimenti canonici. Nel 1970, il vescovo avrebbe dichiarato:
«Quando è venuto per la seconda volta il Mons. Cheli, a marzo, mi ha visitato e mi ha detto che sin dai tempi del Papa Giovanni XXIII era stata decisa la mia nomina a cardinale. Poi era venuta la decisione del Papa Paolo VI, che mi aveva chiamato a Roma. Probabilmente Cheli avrà parlato della mia consacrazione a cardinale con le nostre autorità, che gli avranno risposto: “può andarsene, ma senza ritornare mai più”. A queste parole ho risposto a Cheli con un “NO” molto fermo. In queste condizioni non accetto né la partenza, né la nomina a cardinale. Rimango qui, perché così è lecito, il pastore deve stare con il suo gregge» [6].
Il decesso
Il 10 maggio 1970, il vescovo Iuliu è ricoverato all’Ospedale Colentina di Bucarest. Dal letto dell’ospedale trasmette al fratello Traian le sue disposizioni testamentarie: «Desidero di essere sepolto a Cluj, nella tomba della famiglia. Se possibile, deve officiare un prete greco-cattolico che non è passato all’Ortodossia, e se non è possibile, allora bastano le preghiere dei fedeli»[7].
Due settimane più tardi, in presenza del vescovo Alexandru Todea, il Card. Iuliu Hossu consegna il bene che gli è stato affidato da Dio, rivolgendosi in termini teologici e testamentari alla gerarchia apostolica della Chiesa:
Al Redentore: «Il bene affidatomi è la mia nascita, la mia esistenza naturale, il mio battesimo, il mio olio santo, le mie confessioni, le mie comunioni, il mio sacerdozio, il mio episcopato, l’incarico ricevuto da Gesù di parlare, di lottare contro le passioni e poi, la più grande conferma, l’ARRESTO per la fede, però non l’arresto in se stesso, ma le sue conseguenze, il disprezzo, le umiliazioni, la fame e le privazioni, l’arrivo della morte in isolamento e il bando alla periferia della società»[8].
Al Santo Padre: «Così come ho potuto dire ai preti e ai miei fedeli in numerose occasioni: ANCH’IO SONO STATO AD ALBA IULIA!, ugualmente l’ho detto tante volte e lo dico in punto di morte: ANCH’IO HO TESTIMONIATO E HO PAGATO CON SOFFERENZE IL PRIMATO PAPALE. Anch’io sono stato tra quelli arrestati perché non mi sono separato dal Papa. Anch’io ho servito con la mia sofferenza la Chiesa Romena Unita con Roma. Trasmetti pure, fratello Alexandru, al Santo Padre, questo mio testamento»[9].
Alla Chiesa, corpo mistico di Cristo: «La Chiesa che ho servito è stata SFIGURATA, e come immagine del suo sfregio, guarda a me, ma io perdono di cuore a tutti coloro che hanno contribuito a un simile sfregio, per cui rivolgo al Padre celeste la preghiera di suo Figlio sulla croce: «Padre, perdona loro». Quando l’ora della giustizia arriverà, fratello Alexandru, la Chiesa Unita dovrà andare in pubblico con la dottrina del perdono, con l’armonia e la pace tra le persone»[10].
Ai fedeli e al clero: «Abbraccio tutti i miei fratelli della diocesi di Cluj e di tutta la Chiesa Unita. […] Bacio la scrivania del mio ufficio. Bacio il crocifisso. Bacio le pietre del marciapiede dove ho camminato andando alla Santa Messa in Cattedrale» [11].
Per quanto riguarda il seppellimento, egli presente il destino delle sue ossa: Se non si potrà fare diversamente, «voglio essere sepolto come i miei fratelli delle prigioni, e quando arriverà il tempo giusto, la Chiesa farà per me quello che crederà necessario. Solo questo: tu, fratello Alexandru, devi dire «Padre nostro» e «Ave Maria». […] Non si poteva altrimenti! Tutti sono morti lontani dalle loro eparchie. Io non posso avere un altro destino!»[12].
Poco prima delle 9, il cardinale chiede al vescovo Todea di dargli l’Estrema unzione e il sacramento dell’Eucaristia, e poi gli chiede di leggergli dal Vangelo secondo Giovanni, dal capitolo 14, versetto 27, fino al capitolo 20. Alle parole del Vangelo lette dal vescovo Todea, egli risponde con «So in chi ho creduto. […] Vi lascio la pace, vi do la mia pace», e le sue ultime parole pronunciate sono: «La mia lotta è finita!»[13].
28 maggio 1970, le 9 e 15 minuti: «Il vescovo Card. Dr. Iuliu Hossu ha chiuso gli occhi per sempre, rendendo l’anima a Dio». Il vescovo Todea descrive la mistica solennità del momento: «Alle 9 il cuore del Card. Iuliu Hossu, vescovo della Diocesi di Cluj-Gherla, si è fermato. La sua anima è andata in volo verso l’Altissimo, di cui diceva: «So in chi ho creduto! E sono convinto che Egli ha il potere di tenere il bene affidato fino all’ultimo giorno»»[14].
Seppellimento. Disseppellimento. Riseppellimento
Il Santo Padre Paolo VI viene annunciato immediatamente della morte del primo cardinale romeno, con un telegramma scritto in romeno, latino e francese: «Con il cuore pieno di dolore facciamo sapere alla Vostra Santità che la sua Altissima Santità Iuliu Hossu, il vescovo di Cluj, dopo tanti anni in via della croce, il 28 maggio, ore 9, ha reso l’anima nelle mani del Padre Eterno, per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo e della Santissima Vergine Maria. Riposi in pace! Ioan Dragomir e Alexandru Todea»[15].
Il fratello del cardinale, Traian-Ștefan, è chiamato al Dipartimento dei Culti, dove viene informato che il funerale avrà luogo al cimitero cattolico Bellu di Bucarest, proprio il giorno dopo e sarà officiato da un prete romano-cattolico. Sono vietati i discorsi e la pubblicazione di annunci. La mattina del 29 maggio, all’obitorio dell’ospedale, la salma è vestita in fretta in paramenti improvvisati, e i vescovi Dragomir e Todea officiano la cerimonia funebre secondo il rito greco-cattolico. Intorno alle 14, in presenza di numerosi fedeli, preti e membri della famiglia, la salma del cardinale è disposta nella tomba trovatasi vicino alla cappella di Sant’Anna nel cimitero cattolico Bellu, messa a disposizione dalla famiglia Țurcanu, la famiglia della moglie dell’ingegner Liviu Hossu. In segno di protesta contro la brutale trasgressione della volontà testamentaria del defunto, il fratello Traian-Ștefan decide più adatto di non partecipare al funerale.
Dopo il funerale, Traian-Ștefan chiede all’arcivescovato romano-cattolico di Bucarest l’acquisto di una cappella mortuaria abbandonata, con quattro posti di sepoltura, trovatasi a pochi metri dalla tomba della famiglia Țurcanu. Nel 1978, muore il fratello del cardinale e viene collocato in uno dei posti, nella parte sinistra della cappella mortuaria, mentre la parte destra è donata dall’arcivescovato per la sepoltura dei resti mortali del cardinale. Il 7 dicembre 1982, una commissione formata dal prete greco-cattolico Grigore Pop di Telciu, l’amministratore, il prete e due lavoratori del cimitero comincia l’azione di disseppellimento e di riseppellimento delle ossa del cardinale. Quando viene alzata la lapide, si trova la tomba immersa nell’acqua, il feretro putrefatto, e le ossa disfatte e disperse. Quello che si può ancora recuperare è inserito in un sacco di plastica, mentre la croce pettorale e l’anello sono pigiati nella scarpa del defunto. Il sacco è disposto in una nicchia della nuova cappella mortuaria, e l’apertura viene poi coperta con lastre di mattoni attaccati con la malta.
Nel febbraio del 1983, in una dichiarazione richiesta dagli organi della Securitate, Grigore Pop esprime la sua preoccupazione per quanto riguarda gli oggetti in oro e propone la consegna di questi alla famiglia, alla Chiesa (senza precisare a quale chiesa) o la loro esposizione al Museo dell’Unione di Alba Iulia, dove il vescovo Iuliu Hossu ha letto la Risoluzione. Quando viene a sapere di questa preoccupazione per gli oggetti d’oro, il vescovo Alexandru Todea dichiara: «La figura del cardinale è diventata più brillante da quando non ha più indossato oggetti preziosi»[16].
Il 13 aprile 1983, Grigore Pop telefona al padre Prunduș e gli annuncia che il 16 aprile, alle 11, si procederà alla muratura in calcestruzzo armato della nicchia dove si trova il sacco di plastica con le ossa e gli oggetti d’oro del cardinale. Vista la situazione emergente, la sera del 15 aprile si organizza a Bucarest una riunione tra i preti Grigore Pop, Silviu Prunduș, Pantelimon Așteleanu, Virgil Florian e i nipoti Alexandru Olteanu e Liviu Hossu. Il 16 aprile, Grigore Pop si presenta la mattina all’arcivescovato per chiedere l’autorizzazione in vista dell’apertura della nicchia e per la disposizione delle ossa nel feretro, però è rifiutato. Alle 11, l’amministratore del cimitero, Siegfried Paulici, dispone l’inizio dei lavori. Gli operai tolgono via le lastre e dispongono il quadro metallico sopra cui si deve mettere il calcestruzzo di cemento. Il prete Grigore Pop insiste a rimanere fino alla fine dei lavori per officiare un Requiem. Il suono dei martelli e quello della betoniera creano un’atmosfera così pesante che, dopo alcune preghiere, il padre Prunduș decide sia più adatto lasciare il cimitero.
Il 18 aprile 1983, il padre Silviu Augustin Prunduș riceve una lettera di risposta dal vescovo Dragomir. Molto amareggiato delle cose sapute, questi sceglie di non pronunciarsi. Vent’anni più tardi, il padre Prunduș commenta così il silenzio del vescovo Dragomir:
«Davanti agli uomini grandi e alla bassezza d’animo di alcuni nani spirituali, non ci può essere migliore reazione del silenzio»[17].
Il giovane Card. Iuliu Hossu
Per quanto riguarda le Memorie del card. Iuliu Hossu, il padre Silviu Augustin Prunduș, ieromonaco OSBM, nota: «Lo stile e l’espressione dell’autore non ti introducono al IIIo millennio, ma piuttosto ti fanno ritornare duemila anni fa al Santo Apostolo Paolo»[18]. L’incursione stilistica del vescovo Iuliu nei primi secoli del cristianesimo non è però letteraria, è piuttosto un viaggio iniziatico alle sorgenti della pura fede. È un viaggio che il vescovo Iuliu conclude con un ritorno ex abrupto nel IIIo millennio, per annunciare ai suoi cari figliuoli, cittadini dell’eparchia, della Chiesa, di Roma e del mondo il messaggio della sua grande opera, la sua vita.
Profeta all’incontro fra due mondi, come San Giovanni Battista, nel vescovo Iuliu convivono tre destini: uno cristiano, uno ecclesiastico e uno storico.
Il destino cristiano. Le incursioni biografiche negli anni dell’infanzia, del sacerdozio, del vescovato e degli arresti per la fede portano davanti al ricercatore una vita dedicata a Dio e ai fedeli, una continua imitazione della vita del Redentore, un’ininterrotta liturgia in cui l’Eucaristia del pane bianco e del vino di pregio è spesso sostituita con l’amara azzima delle prigioni. Dall’anima umile, mite, pietosa e piena di perdono del vescovo Iuliu scaturisce davvero il potere dell’unità con Dio, un potere che lo accompagna lungo la sua intera vita, sul fronte di battaglia, nei pellegrinaggi, al parlamento, nelle persecuzioni, in punto di morte. Egli non si attribuisce la gloria data dal Signore e non si fa ingannare dalle lodi, dai canti e dalle mani tese, ma riceve contento sia i successi ecclesiastici, che le sofferenze del carcere.
Il destino storico. Dall’anima sensibile, vibrante, aperta e piena d’amore paterno del vescovo sorge l’ideale dell’unità dei romeni, ai quali ha avuto il privilegio di annunciare il 1o dicembre 1918 la «pienezza dei tempi». Il suo contributo alla Grande Unione è stato «ripagato» con 22 anni di prigione e domicilio coatto. Anche se il suo destino non è diverso da quello dei grandi eroi della nazione, non è tragico, i successi e gli insuccessi del personaggio storico Iuliu Hossu sono delle potenzialità che si ricreano in permanenza.
Il destino ecclesiastico. Dall’anima piena di speranza, giusta e irremovibile nella fede del vescovo scaturisce l’ideale dell’unità interconfessionale. Il vescovo però non concepisce la costruzione dell’unica nave di Cristo con la distruzione delle altre navi confessionali. «No, non è morta la Chiesa romena unita! Vive e, per la misericordia e il potere invincibile di Dio, risorgerà più bella e più forte, rinata dalle sofferenze della grande prova che si è abbattuta su di noi, foriera non di morte, ma di una vita più potente e feconda»[19]. Senza usare la retorica lagnosa e priva di contenuto dell’ecumenismo di facciata, il vescovo Iuliu è sempre disposto a includere nei suoi abbracci vescovili tutti i pastori delle altre confessioni.
Nella sua vita passata e presente, vissuta in libertà o in arresto per la fede, il Card. Iuliu Hossu ha percorso e percorre con il potere dello spirito l’intera eparchia, ha comunicato e comunica senza sosta l’Eucaristia a tutti i fedeli della provincia ecclesiastica, ha consacrato e consacra tutte le vecchie o nuove chiese dell’eparchia, ha benedetto e benedice tutte le famiglie cristiane di Romania, portando elogio a una sola Chiesa, viva, combattente e vincente.
Gelu Hossu
Presentazione e traduzione di Laszlo Alexandru
(n. 7-8 luglio-agosto 2019, anno IX)
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