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«Indimenticabile Jenny!». Le lettere di Emil Cioran a Jeni Acterian
La memoria di Jeni Acterian è rimasta per lungo tempo affidata ai ricordi di chi ebbe modo di conoscerla nella Bucarest degli anni ’30. Proprio in quel periodo frequentò i corsi di filosofia del professor Nae Ionescu, dove strinse i legami con le promesse del mondo intellettuale romeno, tra cui Eliade, Cioran, Ionescu, Ţuţea e Comarnescu. Jeni, assieme ai fratelli Arşavir e Haig, è stata una testimone del dibattito culturale interbellico, che si sviluppò intensamente attorno ai simposi dell’eclettica associazione Criterion. Sono tante le testimonianze sulla personalità di Jeni, la cui breve esistenza fu afflitta da crisi depressive e da una malattia degenerativa incurabile.
Il critico letterario Alexandru Paleologu ricorda con queste parole gli incontri avuti con Jeni Acterian: «La conversazione con lei non era soltanto interessante ma per molti aspetti affascinante. Aveva un’intelligenza che era in grado di trasformare ogni sfumatura impercettibile in una realtà indimenticabile».
Lo stesso Cioran, nelle lettere che inviò ad Arşavir Acterian, torna più volte con la memoria al tragico destino di questa «brillante donna dei Balcani». Il rimpianto verso un’esistenza spentasi troppo presto («Indimenticabile Jenny! Quanta intelligenza, quanta finezza!») lascia il posto alle notizie inerenti la pubblicazione del suo Diario («Spero che terminerai di trascrivere il Diario di Jenny. Peccato che non lo abbia scritto in francese! Qui tutto ciò che è confessione diretta, interessa molto più che il romanzo»), senza tralasciare i lucidi commenti che Jeni – in una Romania già completamente assorbita nell’illusione del misticismo politico – riservò all’opera più controversa di Cioran: «Trovava il libro [La trasfigurazione della Romania,ndr] irritante e ridicolo. Considerava assurdo dare così tanta attenzione alla Storia, la mia divinità di allora».
Se non fosse stato per l’impegno editoriale di Arşavir Acterian, oggi non resterebbero che questi ricordi. Nel 2007 è stato ripubblicato, dalla casa editrice Humanitas, il diario intimo che Jeni Acterian scrisse tra il 1932 e il 1947, edito per la prima volta nel 1991 grazie alla cura del fratello Arşavir. Il Jurnal unei fete greu de mulţumit (Diaro di una donna difficile da accontentare) è l’unico documento scritto legato a Jeni Acterian, unitamente ad una raccolta di lettere pubblicata dalla casa editrice Ararat (Corespondenţă, 2005). Tra i diversi corrispondenti di Jeni figura Emil Cioran, con cui intrattenne uno scambio epistolare nei primi anni del suo definitivo trasferimento a Parigi.
Le due lettere che presentiamo per la prima volta in traduzione italiana furono scritte verso la fine degli anni ’30. In esse traspaiono alcuni dettagli interessanti della biografia esteriore e interiore di un giovane Cioran, da poco tempo giunto in Francia. Pensiamo, ad esempio, alle notizie riguardanti il viaggio in bicicletta lungo la costa mediterranea e sulle vette dei Pirenei, in cui lo sforzo fisico era una via per affaticare l’insonnia e quell’«energia che mi costringe a pensare». Il tono intimo delle lettere – quasi una confessione – tocca alcuni temi fondamentali dell’opera cioraniana. Innanzitutto la visione del disincanto e della lucidità, vissuta come un destino cui non è possibile sottrarsi («non ci resta altro che il fardello della lucidità»); la condanna gnostica contro il Dio teologico e la sua Creazione, da cui sorge il rimpianto per l’increato, verso un Dio della solitudine che precedette la volontà stessa di generazione («La solitudine mi sembra essere un bene così grande, al punto di riuscire ad ammirare Dio solo fino a prima della Creazione»). Qui Cioran sembra echeggiare un passaggio di Lacrime e santi – libro pubblicato solo un anno prima – in cui la rinuncia divina alla solitudine segnò l’origine stessa del mondo: «Dio ha creato il mondo per paura della solitudine; è questa l’unica spiegazione possibile della Creazione». Infine l’anelito al silenzio, la fuga dalla parola e la ricerca, inseguita per tutta la sua esistenza, di un non-più-sapere e di un non-più-dire. L’inorganico assurto a simbolo e rivelazione di un’impossibile sapienza, che possa fare a meno dell’umano: «il silenzio degli oggetti mi comunica quello che gli uomini non mi possono più dire».
Le due lettere del 1938 sono un documento illuminante, che permette di cogliere la tensione psichica e metafisica vissuta dal giovane Cioran. Questa impressione è avvalorata dallo stile delle missive, in cui l’intimità e l’affetto che da esse traspare, mostra il profondo legame che univa la sensibilità interiore di Jeni e di Emil.
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Parigi, 28 Marzo 1938
Cara Jenny,
stavo partendo per un mese verso il sud della Francia, senza la minima idea che un segno di vita potesse rischiarare le mie stanche illusioni – quando ricevo la tua lettera, di un’attenzione così delicata e di una commovente profondità umana. Sarei bugiardo e stupido se nascondessi la gioia che mi hanno regalato i tuoi apprezzamenti, ancor più per il fatto che le notizie dal Paese mi rivelavano i commenti che hanno avvolto di squallida stupidità quel libro [1]. Sono rimasto indifferente e lieto nel poter sorbire il fascino intriso di poesia mortale di Parigi, mi sono educato a un’indolenza disimpegnata e contemplativa, dimenticando gli uomini e soprattutto gli amici, amando piuttosto le cose e solo loro. Nulla si interpone tra me ed esse; il silenzio degli oggetti mi comunica quello che gli uomini non mi possono più dire. Cerco di essere felice osservando e non voglio più gettare una luce funebre sui mortali, che non la meritano.
Ciò che mi scrivi riguardo a quel Dio (che ho «abbreviato» intenzionalmente e non senza ragione [2]) è in realtà un tormento terribile e senza soluzione. Il nostro difetto è di avere sufficiente passione per avvicinarci a Lui, ma non abbastanza ingenuità per credere. Sono convinto che tutti questi fedeli, onorevoli e compassati, ricevono in eredità i doni di Dio, così come noi la possibilità di essere infelici. Se fossimo liberi di credere, come potremmo non sottrarci a fare un bagno di imbecillità, leniti ed ebbri di assoluto! È così – non ci resta altro che il fardello della lucidità, che sono deciso di portare fino alla fine, senza pietà e senza compassione verso me stesso. Bada bene che la solitudine non è possibile con Dio e la sospensione della fede ci conduce verso la nostra essenza molto più della sciagura della soggettività, derivante dal legame con la Divinità.
Per me la vita non ha senso se non in quanto sete di infelicità, per le gioie della malinconia e per quell’ebbrezza che da qualche parte tiene unite l’estasi e la distruzione. Sono un nullafacente, incapace di lavorare e di fare sacrifici, scisso in frammenti e fascinazioni. Inoltre, non sono mai stato all’altezza delle mie tristezze. Senti di avere tante cose da dire e che gli istinti e il desiderio di creare non ti si ammuffiscano!
Oltrepassate tutte le grandi inquietudini religiose, rimani con un senso di vuoto nell’essere, che non puoi superare in nessun modo. La precisa sensazione di non avere più alcun ponte verso nessuno, che raccolto in te stesso potresti superarti, straripare, non riconoscerti più, crescere infinitamente e arrivare a perdere il ricordo delle tue sofferenze! La solitudine mi sembra essere un bene così grande, al punto da riuscire ad ammirare Dio solo fino a prima della Creazione. Da lì in poi, l’Assoluto è divenuto socievole; ma non come noi. E dato che il punto più distante da Dio è proprio in questo momento …
Tornerò a Parigi verso la fine di Aprile, allo stesso indirizzo. Inutile dirti che ogni segnale da parte tua sarà accolto dall’amicizia affettuosa di
Emil Cioran
Parigi, 26 Luglio 1939
Cara Jenny,
se avessi saputo che restavi per così poco tempo a Parigi, sarei rientrato prima dai Pirenei. Mi è dispiaciuto non averti visto, tanto più perché non tornerai a breve. Preferisco infinitamente rimanere qui, realizzando il mio destino di vagabondo tra le sofferenze e i viaggi, perdendo senza speranza tutti le relazioni per cui mi credevo legato ai romeni. Nessuno tra i miei conoscenti sospetta il dramma che mi spinge verso un’esistenza da nomade, quanta sofferenza nasconde la follia di cui sono orgogliosamente colpito. In questo anno e mezzo ho viaggiato per sei mesi sui litorali e sulle creste dei monti. E non tanto per la curiosità di vedere, di conoscere, di scoprire, quanto piuttosto per il desiderio di annegare, con la velocità e la stanchezza, una malinconia la cui intensità giunge al limite tutte le volte che sono concentrato su me stesso. Tu dovresti conoscere l’orrore di pensare, la paura di sentir insinuarsi un’idea che poi squarcia la carne e lo spirito. Ogni volta che simili brividi mi prendevano sui Pirenei o altrove, cercavo di sfinire con la bicicletta o con le passeggiate l’energia che mi costringeva a pensare. Pochi avranno conosciuto come me il bisogno di incontrare persone semplici, come anche una certa forma di dongiovannismo maturata nella disperazione, nel disgusto e nella passione.
Non potrei dire di essere un uomo senza destino. Se non fosse stato solo per quegli attimi vissuti su non so quale vetta dei Pirenei, quando in solitudine, con le nuvole sotto di me e un cielo infinito attorno, nella suggestione di un delirio purificato dall’aria rarefatta, ho intuito l’inutilità dei sentimenti, l’inesistenza dell’uomo e l’esclusiva qualità dell’estasi – se non fosse stato solo per questi attimi – avrei allora il diritto di considerarmi un privilegiato. Devo ammettere che i miei piaceri non sono costituiti dagli elementi della vita. Ciò che Flaubert ha detto di se stesso, mi si addice in modo assoluto: «Sono un mistico e non credo a niente».
In realtà non faccio granché. Non sono e non voglio essere uno scrittore. È pur vero che porto dell’arte nell’anima, compromessa dal bisogno di assoluto, dall’indolenza e dalla noia. Arriverà forse un giorno anche il mio momento?
Dovresti sapere chi riesco a «sopportare» in Romania. A costoro puoi portare i miei saluti.
A te, con tutta l’amicizia
Emil Cioran
A cura e traduzione di Francesco Testa
(n. 1, gennaio 2015, anno V)
NOTE
1.
Il libro in questione è Lacrime e santi, pubblicato in Romania nel 1937, l’anno del suo arrivo a Parigi.
2. D-Zeu, come compare nel testo originale, è l’abbreviazione del termine romeno Dumnezeu (Dio). Qui l’abbreviazione del nome divino – impossibile da rendere in lingua italiana – ha un valore metaforico e rivelatore, in quanto la brevità ortografica di D-zeu vuole rimandare all’idea di un Dio che non abbia esteso la sua volontà al mondo, attraverso la Creazione.
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