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La Romania ai tempi del COVID: «Sesso sfortunato o follie porno»
Un amplesso totalmente disinibito (ed esibito) tra le pareti d’una stanzetta con Lili Marleen in sottofondo, mentre una macchina da presa vorticosa non lesina particolari e dettagli più che spinti stringendo su parti anatomiche, fellatio e penetrazioni. In una manciata di minuti che, sul serio, mette alla prova lo spettatore, l’incipit di Sesso sfortunato o follie porno, ottavo lungometraggio di finzione a firma Radu Jude, sembra non concedere idee più discrepanti da quella fornita dal titolo; il quale, d’altronde, indica un’alternativa che aiuterebbe a ricordare come l’erosfera nella produzione romena, disinibita in superficie, sia (e con buona probabilità rimanga) materia scottante. L’introduzione del film premiato all’ultima Berlinale si offre impudica e sfrontata, aggiungendo d’autorità, in questo suo alzare l’asticella, un tassello sin lì mai affrontato, ben lontano dalla controversa operazione su natura umana e rapporti intimi d’un altro recente Orso d’oro: Ognuno ha diritto ad amare – Touch Me Not di Adina Pintilie – la cui locandina s’intravede nella stanza del coito – presto destinato a svelare un compiacimento freddo e impietoso nella propria (auto)riflessione pseudo-voyeuristica.
Nel film di Jude, al contrario, una dicitura su fondo roseo (la prima d’una sequela), con tanto di citazione del Mahābhārata e accompagnata da musichette vaudeville, suggerisce come l’operazione abbia una parvenza di godardiana boutade: poco dopo i titoli di testa, vediamo la stessa Emi del prologo, in abiti borghesi e senza allure, aggirarsi per le strade di Bucarest pedinata in long take da un obiettivo che la scruta incessante, talvolta stringendo su edifici un tempo importanti e ormai cadenti, sopraffatti da un caos urbano fatto di insegne pubblicitarie di supermercati, sale giochi, cambiavalute: insegne gigantesche, coloratissime, che si sovrappongono in una Babele continua. Sulla falsariga del precedente Tipografic majuscul, pamphlet incentrato su un adolescente avverso a Ceaușescu e schiacciato dalla polizia segreta, il regista-sceneggiatore persegue il personale j’accuse nei confronti d’una Romania lacerata da contraddizioni ed egoismi, nonostante la pandemia da COVID-19 ne abbia mutato (in peggio) sguardi e umori. Il clima generale che qui imperversa non sembra migliore di quello d’un trentennio prima, sicché la realtà che ne scaturisce, filtrata da un occhio attento al documentarismo, apparenta Sesso sfortunato al campionario di prodotti adibiti a registrare sgradevoli verità; ne emerge un Paese caotico, popolato di arricchiti e rincitrullito da omologazioni di lega bassa; un Paese che non fa nulla per controbattere la paranoia e opta per una compiaciuta inciviltà che lo rende simile ormai a ogni altro (dal giovane sulle strisce pedonali che invita un automobilista a una maggior disciplina, e questi che – per tutta risposta – prima lo insulta e poi lo investe, alla cliente del supermarket insensibile ai problemi di una meno abbiente, e che lamenta mascherine abbassate e assembramento dovuto a eccessiva fila). Un Paese dove nessuno sembra aver pietà per nessuno – e guai ai vinti! Sdoganando ogni tabù, l’oltranzismo assurge a idoneo modus operandi, il fantasma dello Stato totalitarista continua a far capolino, riemergono xenofobia e antisemitismo, e il bigottismo imperante (le vetrine di testi religiosi) si scontra col merchandising del sentimento (gli ambigui cartelloni pubblicitari in bella vista).
Torna in mente una pellicola di Mircea Daneliuc, di altrettanto ironico titolo – Patul conjugal, del ’93 – nel quale il milieu affettivo, simboleggiato dal talamo, era celato oggetto di mercimonio per far fronte all’indigenza e al mai sopito spettro della dittatura; curioso, poi, che in entrambe le opere appaia una sala cinematografica in disuso, dall’architettura di regime, così come la comune scelta di campo di siglare gli assunti con stranianti didascalie. Il fil rouge è facilmente rintracciabile seguendo gli esiti di una mentalità sciovinista, retrograda e analfabeta di ritorno, molesta e sessista (lo testimonia la lite tra Emi e un autista cafone, che parcheggia sul marciapiede e l’apostrofa con pesanti improperi), di cui il cinema, paravento alla requisitoria, può burlarsi (“Mangiami la f...a!”, esclama un’anziana turista alla m.d.p.); e non fosse per la presenza di mascherine a far la differenza, a precisare che il tempo dell’azione è esattamente quello che stiamo vivendo, non avremmo difficoltà ad assistere a un’altra vicenda di discriminazione fallocentrica. La principale vicenda ruota sulla strenua difesa della protagonista nel tentativo di discernere la sfera privata da quella pubblica, dove la seconda – grazie all’abuso di tecnologia digitale che permette al video di finire con facilità su PornHub, dove poi c’è chi ne salva una copia sul proprio blog – si serve in negativo della prima pur di assolvere una bacchettona posizione. Si chiamino Otilia, Eva o Francesca, non stupiremmo nel rincontrare personaggi del Noul Val catapultati in un capitolo in apparenza distante dall’onda, e nondimeno esemplare continuum la cui denuncia assurge (o meglio, dovrebbe assurgere) a fenomeno collettivo, in quanto fotografia nitida d’un globale imbarbarimento socioculturale tra il Prima e il Dopo. L’ultimo lavoro di Jude è la radiografia dell’umana incapacità di fronte agli strumenti dell’innovazione, malelingue permettendo, impiegati per retrocedere anziché progredire: valga per tutti il fotogramma che mostra un’umiliata Emi, mentre il pornovideo per il quale accusata (il medesimo dell’inizio, e in sostanza assoluto pretesto) è esibito al comitato scolastico, che la processa nel cortile dell’edificio, quale squallido intrattenimento; tra indignazione e vergogna, figura persino un anziano che lo rimira con malcelata morbosità (“Spegnete i cellulari durante la proiezione”, è uno dei commenti).
Riprendere la vita e inscenare sé stessi davanti a una cinepresa – parafrasando Paolo Simoni – raduna gesti e sguardi ormai da un pezzo entrati nell’esperienza quotidiana. La rappresentazione dell’odierna Romania, qui, è offerta da una platea di meschina realtà, sufficientemente scaltra da sviare l’oggetto del problema, che disquisisce d’ogni cosa onde reprimere frustrazioni e veti, e non mancano, imperituri, epiteti a spese di ceti bassi ed etnie, dai rom agli ebrei (ravvicinata eco dello sgangherato talk show in A est di Bucarest; a nulla servono le menzioni da Eminescu – poeta nazionale per eccellenza e pure autore, peraltro, di versi «osceni» non riconosciuti dagli accusatori – benché non manchi, nella bagarre, chi difende l’insegnante. Laddove rapidi zoom sui membri del comitato sbugiardano la mendacità dei benpensanti, i primi piani rimangono l’opzione più classica atta a una descrizione che non prende parte (ma a far capire la posizione del cineasta in merito, ci pensa il dizionarietto illustrato sui vizi e luoghi comuni nazionali offerto dalla seconda parte), dove il nuovo ceto dominante è esposto nella sua innata ridicolaggine, Chiesa e Securitate non esenti. Sino a un coup de théâtre costituito da una meta-conclusione scissa in frames: grottesca notifica suddivisa in tre capitoli, Sesso sfortunato reca altrettante, alternative conclusioni (una semi-positiva, un’altra amara e l’ultima… atipica) che non solo riprovano la celia, ma ne fanno una sorta di prodotto interattivo in tempo reale. Benché non sia corretto guastare la sorpresa, ci si limiterà a constatare come l’eversivo coraggio di Jude, e probabilmente tale fattore ne ha consentito il premio, consiste in un discorso (extra)diretto relativo alla variegata impressione del pubblico nei confronti d’un Paese di retriva mentalità, ancora meritevole di scherno, sospeso tra quanto si osserva e quanto ostentato, nonsense permettendo.
Dei vezzi à la Godard, con l’intento di fendere la quarta parete, s’è detto: ma la provocazione non è gratuita o manierata, quanto stilema e presa di posizione a tutto tondo, consentendo a un’iperbolica vendetta di traslarsi in vittoria a favore del libero arbitrio, soprattutto eversivo, e della privacy, della trasgressione e di Hannah Arendt, della pornografia («ritratto di una donna nuda», spiega il film, è l’originario significato) e di una sessualità una tantum solare e vitale. La chiave di volta che regge il senso dell’operazione è in quel secondo capitolo fatto di proverbi illustrati, motti, freddure, definizioni adibiti a lottizzare la verità della parola scritta con la mise-en-scène, mentre una voce fuoricampo, in tono ora sarcastico ora serioso, rimarca quello costruito dall’osservatore quale tertium datur. Un antidoto d’una trentina di minuti, focalizzata su una nazione schiavizzata da vecchi e nuovi stereotipi (nemmeno il Geniul Carpaților è trascurato), non smentita dal conformismo dilagante: così una danza da crisi pandemica, condotta da alcuni anziani, s’alterna a una stamberga (“Un bell’edificio diventa sempre un bel rudere”), mentre un episodio di malasanità italiana ai danni d’un immigrato romeno indigente fa il paio col dito puntato da una cliente in farmacia contro trapianti a carico di bambini piccoli (“Nessuno ha preso il COVID dal cucchiaio dell’Eucarestia”). Né si fanno sconti sulla violenza domestica (il bimbo ripreso di spalle, che mostra ematomi e lacerazioni sulla schiena). La Storia torna col suo invadente fardello e il suo patriottismo, all’occorrenza rivendicato, per poi trasmutarsi in compravendita (dalla Rivoluzione Francese, ridotta a una marca di pasticcini, a quella romena del Ventun Dicembre, etichetta su una bottiglia di vino); e l’eros, condotto all’estremo dalla crudezza delle immagini, appare di gran lunga più idilliaco anche nella mercificazione (le prostitute alle prese coi selfie che ne immortalano le parti intime; la fellatio in evidenza, mentre si specifica che «pompino» è il vocabolo più ricercato online insieme a «empatia»). A chiudere il discorso, pensa un inserto inerente la definizione di «primo piano» e il duplice significato: una Emi sorridente all’obiettivo contrapposta all’effigie di sé allo specchio, mentre la voce off cita i farisei inscenati da Pasolini, immaginati come squadristi quando a impersonarli sono membri del Partito Comunista o del sindacato.
Pastiche per adulti disposti sino in fondo, sospeso tra serio e faceto, Sesso sfortunato è un reclamo del Paese, attraverso il cinema, nel disperato tentativo di aggiornarsi emulando – e sbeffeggiando – la confezione extreme coniugata al blockbuster(al pari della Romania, l’odissea di Emi è un tunnel sospeso degno di Gaspar Noé: un viaggio lungo un univoco girone dantesco). Esperimento sporco eppur lucidissimo, al contempo commedia e tragedia (così esplica la parentesi zen) sulla concezione di «verità», capace di scuotere la coscienza tramite letture tauto-metaforiche: l’unica maniera per sopportare l’orrore (e dunque interpretare quelli del passato cui, durante il regime, non era concesso assistere) è la sua rappresentazione cinematografica, su uno schermo che – come lo scudo di Atena nel mito di Perseo – rifletta il volto di Medusa senza pietrificare. Quasi che l’eredità del Noul Val, e lo ribadiscono gli altrettanto recenti Malmkrog di Cristi Puiu e l’italiano Est – Dittatura Last Minute, si rendesse capace di un’ulteriore onda pronta a travolgere tutti e tutto, spazzando via come e più di prima. All’idiozia del Potere (ottuso), meglio contrattaccare col potere (intelligente) dell’idiozia.
Francesco Saverio Marzaduri
(n. 10, ottobre 2021, anno XI)
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