Corrosivo e controcorrente: Lucian Pintilie, un regista tutto da scoprire

A ben vedere, l'intera filmografia di Lucian Pintilie, regista tra i migliori e paradossalmente tra i più misconosciuti d'Europa, autore di un cinema originale e corrosivo, feroce ma carico di speranza, è caratterizzata da un connubio. E se la dicotomia è il pattern che meglio identifica la produzione cinematografica del Noul Val Românesc, e dichiarati debitori dell'opera di Pintilie sono le firme di tale corrente, una tra le contrapposizioni presenti in Pintilie, benché non l'unica, è quella tra il vero e il presunto. Binomio che soprattutto negli ultimi tempi – grazie anche alla scissione della barriera tra pubblico e privato, dovuta ai mezzi mediatici – ha preso piede nella vita di tutti i giorni da suonare convenzionale, ridondante, stucchevole. Il cinema romeno della «nuova onda», dal canto proprio, non si mostra insensibile alla tematica, cogliendo l'occasione per prenderla di petto in alcuni dei lavori più rappresentativi tra quelli recenti. E il coraggio di farlo ben si amalgama al fattore della denuncia, più di quanto in precedenza, durante e subito dopo Ceauşescu, non fosse concesso.
Nel caso di Pintilie, il discorso si fa carico di profonda rilevanza, e di profondo valore, giacché la gran parte dei topoi che sempre più suggellano l'ultima produzione romena, divenendone un distintivo marchio, si ritrovano tali e quali nella filmografia di questo cineasta, già molti anni prima perfettamente cosciente dei malumori che incombevano dietro la superficie oltranzista. Non è nemmeno azzardato sostenere che proprio con Pintilie – parallelamente a un altro nome illustre, Liviu Ciulei – la cinematografia del Paese acquisti status d'identità mostrando di essere qualcosa d'altro a dispetto della confezione di genere, sin lì in voga immediatamente dopo la fine del conflitto mondiale, e perfino rispetto all'influsso neorealista, che comunque eleva a modello al pari delle cinematografie dei paesi cosiddetti «minori».
Eppure, prima ancora che da innato spirito di ribellione, la scelta di un cinema controcorrente, in Pintilie, trova un suo varco in un'altra influenza, del tutto in linea col dirompente mutamento di un costume, di un gusto, di una nuova ricezione del cinema quale arte del guardare. Non è un segreto che se la cinematografia est-europea riesce a produrre opere di lodevole qualità e considerevole originalità, viceversa la Romania, da cenerentola culturale dell'Europa orientale, sconti l'esigenza di ricostruire, con mezzi minori, strutture e attrezzature perdute nella guerra: impresa perseguita con la nazionalizzazione dell'industria filmica, il reclutamento e l'addestramento di nuove maestranze, l'imposizione di parametri funzionali al Sistema e al regime che si è imposto. Nella Romania del dopo-conflitto si devono ricreare dal nulla strutture di base e apprendimento tecnico e, in tale fase, l'influenza che il citato Neorealismo ha sul cinema internazionale non manca di esercitare seduzioni, sul modo di trattare temi e materiali di popolo. Pure, in Romania, e un po' in tutti i paesi dell'Asse, la scelta di forme linguistico-espressive anticonformiste è ciò che conferisce al cinema la patina di medium eversivo: le manifestazioni artistiche sono sottoposte al vaglio d'una massiccia operazione di controllo, e talvolta irreggimentate, eliminando generi di stampo o derivazione democratica. Ben pochi sono i registi che godono di qualche relativa, se non eventuale, autonomia progettuale.
Le firme più prestigiose ed autorevoli della cinematografia romena si riducono, in quel momento, a tre nomi – Victor Iliu, Liviu Ciulei e, appunto, Pintilie – e occorre attendere che il Neorealismo influenzi il panorama mondiale e dia modo a molti paesi di elargire nuove correnti culturali, di fresca impronta (anche in fatto di ortografica filmica), non insensibili alla denuncia e d'immediata condiscendenza presso il pubblico, di preferenza la fascia più giovane, della quale analizzare disagi e inquietudini. Col suo sconvolgere le regole cinematografiche, Godard ha certamente fatto scuola, benché non sia da considerare il solo nome cui i movimenti culturali internazionali, e specificatamente est-europei, facciano riferimento. Tuttavia, in quella che probabilmente è la prima opera contro del cinema romeno, più per la chiave in cui è gestito l'argomento che per il suo significato, Reconstituirea (che da noi suona come «La ricostruzione», o anche «Il sopralluogo»), datata 1968, appaiono presto chiare le influenze, gli influssi occidentali (rischiosi per l'epoca) e gli echi di un certo (modo di fare) cinema.
Ebbene: rivedendo un prodotto di simile portata – invecchiato nei codici utilizzati dall'autore, e ancora potente nella determinatezza con cui si affronta una tematica per l'epoca sorprendente – fa sorridere che la contrapposizione tra vero e presunto potesse scuotere gli organi di Potere, infastidirli sino ad obbligarli a un'azione di censura per l'intero arco di tempo in cui Ceauşescu fu in carica. E tacciare il film, come il suo autore, di maledetto. In tempi odierni, abituati come siamo a un'ormai azzerata demarcazione tra pubblico e privato, non fa più caldo né freddo la finta inchiesta su un episodio di cronaca nera, che, senza essere mostrato, vede due giovani teppisti venir alle mani tra loro in stato di ubriachezza. Una volta distrutto un bar e aggredito il cameriere che cercava di fermarli, entrambi sono obbligati dalle autorità a rielaborare il fatto davanti alla cinepresa e registrarlo su pellicola per realizzare un film educativo. Ricondotti alla loro più intima e sordida essenza – in un'atmosfera sempre più opprimente e kafkiana – i due giovani si picchiano tanto realisticamente di fronte alla cinepresa che uno, colpito troppo duramente, rimane ucciso durante la rielaborazione.
Progressivamente, il cinema sostituisce alla realtà vissuta una finzione tanto vera da rendere impossibile ai ragazzi di recitare per finta: qual è la verità dell'accaduto, se soltanto sul set si consegue la conclusione più tragica? Svelando allo spettatore i meccanismi di una rappresentazione, il film medesimo si mostra auto-analiticamente quale ricostruzione (e resta il sospetto di una verità anche più vera dietro la m.d.p. di Pintilie), ricostruzione di uno spettacolo ch'è però anche l'unica realtà davvero concepibile. Data l'atipicità del plot, il film è un forte apologo morale: un invito rivolto alla presa di coscienza dello spettatore alla ricerca della verità, al di là delle manipolazioni del regime; il che, naturalmente, suscita l'atteggiamento ostile delle autorità. Nondimeno, l'incessante gioco della verità e della finta verità che sopperisce alla prima, memore perfino di Welles e a favore di uno spettacolo che sia il più realisticamente convincente per l'osservatore (il cui obiettivo è il medesimo dell'intera arte cinematografica), è il primo determinante topos nel cinema romeno dagli anni Sessanta in avanti. A mo' di esempio, in A est di Bucarest di Corneliu Porumboiu lo testimonia il parallelo tra i due estremi, nella grottesca rielaborazione di quanto accadde il 21 dicembre '89 prima delle 12.08, nel bel mezzo di una diretta televisiva dagli esiti sempre più sbracati e inattendibili.

Una interpretazione sociale ed etica della Romania comunista

Soprattutto, è il primo determinante pattern nella filmografia di Pintilie, eversivo esponente di un rinverdimento cinematografico del Paese nell'introduzione di forma e contenuto nuovi, contrapposto senza invidia (e con più di un'eco) alla Nouvelle Vague: in un godardiano gioco di specchi – servito da un poveristico bianco e nero d'inestimabile nitore – l'autore mira a un'interpretazione al contempo critica e sociale, etica e politica della Romania, dei suoi mutamenti e condizionamenti, delle realtà che vi si vivono e, non ultimo, delle infide promesse del governo comunista. Lettura, in sostanza, di carattere sociale, senza venir meno a quella, autocritica, sulla realtà della mediazione cinematografica dietro la patina della finzione filmica, egualmente di forte impatto. Il senso di quel che potrebbe essere, luogo canonico incessante in tutta la produzione di Pintilie, trae la propria derivazione dai ricordi di una comunità tollerante e cosmopolita: per la precisione da Tarutina, un villaggio di lingua tedesca nel sud della Bessarabia – oggi parte dell'Ucraina – e al tempo popolato da un vero mosaico etnico e multiculturale (non solo romeni, ma anche turchi, tartari, ebrei, e manco a dirlo ucraini e russi).
Per la straordinaria lucidità dell'assunto, l'opera viene giudicata una tra le vette del cinema europeo del decennio, cui fungono da contrappunto alcune temerarie dichiarazioni dell'autore, nell'invitare i colleghi a fare «salutari incursioni nella zona proibita della realtà, così da rimpiazzare un cinema di mistificazione con un cinema fedele, fanaticamente fedele alla verità». Non sorprende che Reconstituirea sia visto con sospetto dalle autorità censorie romene e occorra attendere due anni prima che il film trovi la via della programmazione pubblica, dietro l'avvertenza che il prodotto mostra deleteri influssi occidentali (in Italia si vedrà solo alla IV Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, per non esser più distribuito).
Come noto, attraverso il filtro non sempre attendibile dei media, il processo violento, feroce e secondo molti irrazionale, che pone bruscamente fine all'Epoca de Aur di Ceauşescu è assai più radicale in Romania che negli altri paesi del blocco orientale. La bottiglia a lungo sigillata, contenente l’unica vera pellicola dissidente della fine del decennio, viene miracolosamente ritrovata e aperta: nel 1990, Reconstituirea sembra ancora nuovo, rivoluzionario per stile e contenuti, scatenando una vera e propria sindrome da «Ricostruzione anno zero» tra la critica e tra il pubblico, e all’unanimità è salutato come il primo contributo romeno all’arte cinematografica contemporanea. Ugualmente, però, fa sorridere la tornata di critici nazionali che, all'epoca dell'uscita, valutano a fatica la riuscita di un lavoro coraggioso, dal tiro indubbiamente spiazzante, indispensabile nel suo elemento di scossa per le menti del pubblico, e tuttavia commerciale, furbesco e non completamente onesto nei nobili intenti.
L'esatto contraltare della pellicola d'esordio, Duminică la ora 6, scoperto esercizio di scrittura filmica che prende a pretesto una vicenda d'amore, lealtà e tradimento ambientata durante la Resistenza per mettere in evidenza – per ammissione dello stesso regista – «il tormento della forma». Ciò perché discrepante è la situazione politica nel Paese. «Era il periodo precedente gli inizi di Ceauşescu. Ogni regista, a un certo punto della carriera, si trova a dover fare un Domenica alle 6, in cui, in maniera quasi obbligatoria, i personaggi appartengono alla gioventù comunista. Però ho voluto cambiare la conclusione: non volevo che il film terminasse con un finale eroico, perciò ho inserito la morte dell’eroina verso la fine, e a questo ho aggiunto un elemento ancora più tragico, il tradimento. Come l’uomo resta solo, è anche tradito. L’idea era accentuare lo shock della morte della protagonista. In questo modo, ho modificato strutturalmente lo spunto per una storia eroica».
Permeato di un linguaggio impressionistico, fenomenologico e onirico, e abbastanza rivoluzionario per il cinema romeno, Duminică racconta dell'inusuale storia d'amore, nella Romania del '40, di due giovani impegnati in attività clandestine, l'uno all'insaputa dell'altra, per contrastare il regime fascista; la qual cosa rende complessa e disperata la relazione tra i due amanti. Il debutto di Pintilie ottiene subito importanti riconoscimenti da parte della critica e dei festival internazionali: l'autore inscena lo smarrimento dei personaggi con l’uso di flashback che portano sostanzialmente a non distinguere tra passato e presente. L’amore sembra essere un riparo, ma la guerra prevale su tutto, entrando di peso nei destini degli individui. A dispetto di Reconstituirea, Duminică non incontra il favore del pubblico meno esigente, tanto meno soddisfa i discepoli di Godard, ché il cineasta gioca a carte scoperte senza ricorrere ad ambiguità: gli eroi sono giovani e simpatici, e ci si affeziona a loro perché odiano il fascismo senza porsi troppe domande. Proprio in questo film, tenero e commovente, la formazione teatrale, l'abilità nella direzione degli interpreti, l'uso di un dialogo straniante, la visione di un emisfero paradossale e dominato dal Caso – derivante dal Teatro dell'Assurdo – influenzano il linguaggio cinematografico di Pintilie. Ma nel cinema, il «selvaggio», come ama definirlo Ionesco, riesce a lavorare come assistente di Victor Iliu (allievo di Ėjzenštejn e a cui Reconstituirea è dedicato), per esordire nell'epoca del disgelo, agli albori del regime di Ceauşescu.

In divario tra cinema e teatro

Nel divario, nemmeno troppo sottile, fra il teatro e il cinema risiede l'opera (e l'esistenza) del regista romeno, frapposta a un perenne nomadismo, tradotto in un confino, che alterna la patria al territorio francese, con predilezione per Parigi. Formatosi a diciassette anni all'Istituto d'Arte Teatrale e Cinematografica di Bucarest – come molto più tardi capiterà a tanti nomi del Noul Val – Pintilie è già rinomato regista teatrale, di levatura europea: celebrato in patria sin dal '59 e, nel decennio seguente, direttore di molti teatri fino agli anni Ottanta (a cominciare dal Bulandra, sino ai Théâtre National de Chaillot e il De la Ville), s'impone come l'esponente più significativo del nuovo teatro romeno, proponendo innovativi adattamenti da Gor′kij, Shaw, Frisch, Čechov, Gogol′, Caragiale, Dürrenmatt. E poi Ibsen, Bizet, Frisch, Saroyan, Gozzi, nella maggior parte dei casi ottenendo premi, riconoscimenti, consensi internazionali, e lavorando perfino negli Stati Uniti. Spettacoli che sono testimonianza di una grande sensibilità autoriale: in una regia televisiva per la Jugoslavia, Pintilie realizza Paviljon VI, trasposizione del famoso racconto di Čechov, a causa della cui distribuzione in Romania l'autore opta per la Francia per qualche tempo, prima di stabilirvisi per circa dieci anni, in seguito a una nuova azione di censura.
La paranoia che interpretazioni culturali anticonformiste destino la coscienza collettiva, inducendola a pensare, fanno del regista un esiliato ancor prima che un maledetto, e per tutta la vita, anche in ambito teatrale. Per sfuggire alla condanna dovuta al secondo film, Pintilie è costretto ad abbandonare il cinema, e insieme all'amico e collega Liviu Ciulei sceglie di lavorare a un allestimento de L'ispettore generale di Gogol′, che solleva polemiche tali da costargli l'ennesimo ostracismo. Il testo, come noto, è una pantomima al vetriolo che con piglio da commedia degli equivoci mette a nudo il conformismo ottuso e la miseria morale della classe dirigente della Russia zarista, tanto corrotta da essere presa al laccio dei suoi stessi inganni. E facile è riconoscere l'allusione agli apparati di partito, ai burocrati e ai politicanti romeni dell'Età dell'oro.
Dualismo della circostanza: nel 1990, anno in cui Reconstituirea torna a vedere la luce sugli schermi nazionali, altri lavori bloccati dalla censura vengono distribuiti, a cominciare da quel feroce ritratto della vita di provincia ipocrita, gretta e immorale, ch'è De ce trag clopotele, Mitică? (Perché suonano le campane, Mitică?), tratto da Caragiale. Lo stesso anno, tornato definitivamente in patria e nominato direttore del settore cinema del Ministero della Cultura, Pintilie riprende a girare nel periodo romeno di transizione, dopo il crollo del regime e l'avvento della democrazia, realizzando una serie di drammi senza esclusione di colpi e commedie nere sulla vita e le proprie assurdità. E mentre due di queste pellicole del periodo post-comunista approdano ai circuiti internazionali – Balanţa (letteralmente La bilancia) e Prea tîrziu (Troppo tardi) – gli storici del cinema sono tentati di ravvisare nella filmografia di Pintilie il progetto coerente di una trilogia storico-sociale romena, introdotta vent’anni prima con Reconstituirea. Come rileva Eugenia Voda: «Le scene, i dialoghi e le immagini di Reconstituirea sono ormai entrati a far parte della coscienza collettiva, sono diventati veri e propri riflessi della memoria […] Il film ci appare strano perché è così vicino alla nostra vita di tutti i giorni. Basterebbe modificare pochissimo, cambiare i cartelloni pubblicitari e il tipo di musica, sostituire la macchina da presa con una più sofisticata videocamera, e ci ritroveremmo con un ritratto fedele della vita contemporanea. A ciò si aggiungano una fotografia dal taglio documentaristico e un sonoro estremamente fresco e moderno».
Espediente auto-riflessivo piuttosto comune nel cinema modernista occidentale, ma raramente attestato nella cinematografia est-europea fine anni Sessanta, il prologo di Pintilie si rivela un flash forward nell'istante in cui è riproposto, identico, al termine del film, quando i giovani uligani devono inscenare la ricostruzione giudiziale del crimine da loro compiuto, durante la quale uno dei due è ferito a morte. Anche il secondo discorso in cornice, quello dell’apparecchio televisivo, diviene un accorgimento stilistico assiduo in quelle trame secondarie codificate, così ricorrenti nella produzione di Pintilie. Inoltre, l'effetto sinestetico che scaturisce dalla simultanea presenza di stimoli sonori differenti (i dialoghi, la musica alla radio e in televisione, gli animali, la porta del gabinetto, gli esasperanti rumori fuoricampo) è un omaggio alla teoria dell’immagine-cristallo di Deleuze: spazio e tempo sono letteralmente sospesi, la vicenda si carica di un'aura eterna, mitica e mistica.

Le opere del post-totalitarismo

Il primo film di Pintilie in epoca post-totalitaria, Balanţa, è di più ampio respiro, benché simile a molti dei titoli precedenti nel tono, nelle strategie discorsive, nel tipo di universo morale che ritrae. In una scena d’apertura mozzafiato, accompagnata da una citazione musicale alquanto suggestiva estrapolata dal Lohengrin di Wagner, la protagonista rimira un home movie insieme al padre, ex ufficiale degli alti ranghi comunisti ormai in fin di vita. Ancora una volta, la politique di Pintilie ricorre all’autoriflessività (e all’immagine-cristallo), ma in una veste nuova e del tutto originale. Un filmino amatoriale in super8, girato in bianco e nero, mostra un’allegra festa di Natale per degenerare rapidamente in un omicidio macabro e surreale: il personaggio principale riversa soggettivamente tutto l’odio e il disgusto che prova verso il regime comunista sulle immagini della propria infanzia, reinventandole in una chiave deformante.
Si deve, inoltre, notare come nelle pellicole dagli anni Novanta in poi, al pari degli esordi, vi è un'attenzione del regista rivolta all'inquietudine giovanile, al suo collocamento generazionale nel corso dei decenni, ossia nel corso della Storia. Quella Storia di cui la nazione, e anche Pintilie, non può far a meno, spettro la cui icona è ben lungi dallo scomparire. Una generazione, quella romena, che sin da Ceauşescu si sente orfana di un pensiero dirompente, della possibilità di alzare il pugno e paradossalmente, una volta caduto il Conducător, impossibilitata al totale distacco dal Potere vigente, scevra da qualsiasi occasione di ribellione anticonformista e di gioia nel ripartire da zero. Già da Reconstituirea, prima che ad occuparsene siano i cineasti del Noul Val (gli unici a gridare quel che prima non si poteva), le figure giovanili sono pedine manovrabili dal Potere, pronti ad essere annientati come niente. Ombre inquiete, come, in Balanţa, lo sono i due amanti protagonisti alle prese con una contrapposizione, si diceva all'inizio, tra quel che sembra e quel ch'è realmente, tra quanto viene impartito (e si rivela fallace) e quanto nascosto (ed è accertata verità), tra ciò che s'impone quale indispensabile condizione (a compromissione di vite umane) e ciò che dovrebbe essere equa soluzione (e quasi mai vi si ricorre). Una sequela di binomi che dà modo non solo d'illustrare caratteri ed emisferi divergenti, anche se non troppo, ma pure lo sguardo di Pintilie verso il mondo: sguardo, appunto, sul perenne ago della bilancia.
Nella politique dell'autore vi è la mera denuncia di personaggi destinati a un involontario esilio. Perché di esilio si tratta, giacché solo un ostracizzato quale Pintilie può carpire una simile condizione di disagio. Il confinato, reso tale a causa di circostanze da lui non richieste né desiderate – casi di coscienza, insomma – indotto a sottostare alla prevaricazione del Potere e della Storia (e a rispettivi, annessi strumenti), e farsi carico, quando non è sua la responsabilità, di ignominiose ingiustizie o, peggio, di atroci soprusi. Accade al capitano Dumitriu di Un'estate indimenticabile, indotto a reprimere un moto contadino in uno sperduto avamposto militare della Dobrugia, o alla dottoressa di Stare de fapt (titolo firmato Stere Gulea, inedito in Italia, del quale Pintilie firma il soggetto), nel rifiutarsi di firmare false diagnosi su alcuni pazienti uccisi durante la rivoluzione e, di conseguenza, indicibilmente punita. E ancor più a fondo capita ai dropout di Terminus Paradis – Capolinea Paradiso: non due bravissime persone, a differenza di Dumitriu e della moglie o di Nela e Mitică, e tuttavia emarginate effigi. Innamorati allo sbando tra le disillusioni di una devastata, angosciante Bucarest post-comunista, nella quale trionfano povertà e violenza, romantici sbandati consapevoli di un'irregolarità non confacente a schemi precostituiti ed oppressivi e, dunque, votati alla sconfitta; ma il sacrificio ha luogo in nome del legame, dell'unione, dell'amore. La libertà sintattica e l'impeto ribellistico, specialmente in Terminus, evocano il cinema indipendente americano anni Settanta, s'è vero che il giovane guardiano di porci, disperato e rabbioso, immola sé stesso assurgendo a simbolo dell'annientamento delle speranze di un Paese. E se la Storia, anche per la Romania, si reitera e si tramanda, non resta che raccogliere lo scettro per consegnarlo ai nascituri, gli unici custodi possibili di un testimonio inappellabile (come richiede la «situazione di fatto», secondo l'omonimo titolo, che obbliga la protagonista a cercare il suo aguzzino, padre del bimbo che ha in grembo).
Ancora un ritratto generazionale, e un'altra allegoria sul presente della nazione, è al centro di Niki et Flo: i personaggi sono tutti calati in una dimensione apatica e insofferente, indipendentemente se giovani o anziani, gli uni disarmati di fronte a un futuro ostile – bigger than life, come si suol dire – e gli altri condannati all'anacronismo di un tempo non più loro. Al secondo caso, per nuovo connubio, appartengono un colonnello in pensione e un nostalgico della vita bohémienne, legati dal matrimonio dei rispettivi figli, questi ultimi – viziati, annoiati, indisponibili – riconducibili al primo assetto. Il dualismo tra vero e falso, qui, miscela la serenità di un filmato casalingo, inerente un banchetto nuziale in apparenza allegro (come la festività natalizia nell'home movie di Balanţa), a una realtà in cui basta una manciata di minuti per conferire l'impressione di un alveo domestico, e un periodo, dove qualunque proposito d'idillio è inesistente. A mo' di fattore complementare, la dicotomia che vede il concetto di amicizia alternarsi a un atteggiamento finto-amichevole per questioni di tornaconto personale, e si conclude con la sanguinosa vendetta dell'ex militare sul diabolico consuocero, reo di averlo privato non solo dei figli ma anche dell'orgoglio e della dignità. A conti fatti, Niki et Flo, penultima fatica di Pintilie, si avvicina maggiormente a un paradigma estetico-minimalista: apologo sarcastico, statico e in fondo desolante sui nuovi romeni, il film si concentra sui due ragazzi, sintomatici simboli del caos sociale post-dicembrista, pronti a partire alla volta degli Stati Uniti nel macabro scenario successivo all’undici settembre, alla ricerca di una migliore esistenza materiale, laddove la morte accidentale di una vittima innocente (il primogenito del colonnello) è registrata in un film amatoriale mostrato in televisione. Con questo lavoro, Pintilie riconferma la propria predilezione per la mise en abîme autoriflessiva quale strategia per far vacillare, in misura costante, i limiti tra finzione e realtà e usare la forza delle immagini in chiave destabilizzante.
Anche maggiore è il grado di sperimentalismo formale in Prea tîrziu, quasi a voler chiudere con un segno indelebile il trittico sui mali del totalitarismo (ma il paradigma è ancora molto attiguo a quello di Reconstituirea). L'opera segue le vicende di un pubblico ministero, cui sono affidate le indagini sulla morte «accidentale» di un manovale in una miniera di carbone, nella valle del fiume Jiu. In una scena, gli operai picchettano contro la paventata chiusura delle miniere, e contemporaneamente il procuratore li osserva da un monitor del proprio ufficio: quella che potrebbe apparire una parentesi autocritica, a metà tra la tecnica godardiana e il linguaggio del documentario (l'ennesima contrapposizione), è invece il corrispondente in rima di un segmento del film più noto di Pintilie, in cui uno schermo televisivo diffonde un’ambulanza diretta a una partita di calcio e poi, tramite una panoramica a schiaffo, lo spettatore è condotto sul luogo ove effettivamente si svolge la scena. Il tempo della Storia e quello della ricezione si assemblano in un’unica entità di significato coerente. A Bucarest, alla prima di Prea tîrziu, la reazione di film makers del calibro di Mircea Daneliuc e del citato Gulea è quella di far notare come la sollevazione violenta e parossistica dei minatori del '90, fomentata dal regime neo-comunista di Iliescu, avesse lasciato tracce importanti anche nelle loro produzioni. Diversi anni dopo, penserà il Radu Muntean di Hârtia va fi albastră (La carta sarà blu) a ricreare un analogo climax di ansia e oppressione che mischia i malumori di chi è immerso nello scontro e la restituzione dell'evento attraverso una veridicità mediatica, che quand'anche si propone fedele resta fredda, passiva, inscatolata in un video e dunque più travisata che documentata.
Non è comunque possibile dissertare sulla filmografia di Pintilie, dietro la figura canonica del parallelismo, senza riservare un posto sommo a După-amiaza unui torționar (Il pomeriggio di un torturatore), nel confronto tra un'agghiacciante realtà e l'impossibilità di raccontarla per ricompensare l'ingiustizia della Storia. Ma quanto si può narrare, in un'epoca che potrebbe consentirlo (e il malaugurato Fato ugualmente non rende possibile), è ostacolato dall'incombenza di un Presente che trasforma i reduci dell'orrore, vissuto in prima persona, a creature ammortizzate incapaci del minimo sentimento, alla totale mercé di un quotidiano costituito da ultrà, aritmetica eredità del passato oltranzista. Passato che questi ultimi hanno rimosso alla svelta e del quale non desiderano diffondere testimonianze: strumento di minaccia, la violenza è la sola ancora esistente per mostrarsi nazione fugacemente mutata come qualunque altra (e altresì la rende identica, in peggio, al trascorso totalitarismo). Il confine risiede nella contraddizione tra l'estrema lucidità e la paurosa confusione, e Pintilie, conscio di non poter fare diversamente, opta per il disegno di una figura mostruosa – tutt'altro che innocente nonostante la trance – sia dall'interno che dall'esterno. «Quando si ha di fronte un torturatore che arriva a confessare come ciò che lo spingeva ad agire non fosse ordinato da superiori, ma un piacere segreto, che nemmeno riesce a descrivere nella sua interezza e forse va anche oltre la testimonianza, per un regista è terribile e, al contempo, appassionante».
Il protagonista è un esiliato, ridotto a larva umana come la consorte, isolato dal resto del mondo tanto quanto l'anziano giornalista incaricato di registrare la sua deposizione per una diretta televisiva. Ma il Fato (del Presente, della Storia) dispone diversamente, e sulla bobina non è incisa alcuna parola. E chi si addormenta per tutto il tempo della testimonianza, solo nell'epilogo si abbandona a una verità non meno raggelante: ciò, perché i posteri hanno rifiutato gli anacronismi di ieri, rendendoli incapaci di qualsiasi tentativo di essere ascoltati. Ma il regista sembra suggerire che nessuna parola è così dirompente quanto le immagini: la possibilità di suggerire in modo ellittico senza obbligatoriamente svelare, mediante l'utilizzo di simbolismi figurativi, campi e controcampi, incessanti successioni tra passato e presente prive di filologica continuità. Una terza possibilità – come ammonisce il titolo del suo ultimo lavoro – non è concessa. Tertium non datur, appunto.
Dagli esordi, lungo una carrellata di titoli che sono, al contempo, il nitido riverbero della trasformazione (deformazione?) di un Paese e una mentalità, Pintilie non viene meno all'interpretazione del mezzo filmico paragonato alla presenza, massiccia quando non ingombrante, dello schermo in ogni sua forma e all'irrinunciabile rilevanza che la Romania ha offerto ad esso. Ma anche il cinema, elevato a fenomeno morboso e finanche a mercimonio, non esce illeso dalla critica dell'autore, come suggella il morboso girato di Florian, attraverso il quale l'uomo tenta di trarre proficuo guadagno e invece sancisce la sua fine.
La «nuova onda» romena non ha mancato di riconoscere l'enorme debito verso Pintilie, il solo cineasta romeno che in era post-comunista, dopo un lungo confino, ha portato avanti un proprio discorso mantenendosi su identici livelli di eccellenza artistica. Il tributo è evidente nel rifiuto generalizzato (in parte anche motivato economicamente) di produrre opere spettacolari – pellicole d’azione ambientate in scenari esotici con profusione di star nazionali e/o internazionali, dovizia di effetti speciali e magari accattivanti colonne musicali, colme di hit di facile richiamo. In misura meno esplicita, col loro «credo»artistico, le nuove firme mostrano di dare ancora pieno credito a linguaggi visivi e verbali, radicati nella «psiche nazionale», in un certo tipo d'ironia e di senso dell’assurdo, che anche il pubblico internazionale, d'altronde, può essere in grado di apprezzare. Va precisato, però, che il modello estetico corrente, che porta registi come Cristian Mungiu, Cristi Puiu o Porumboiu a conseguire riconoscimenti internazionali, si afferma solo all’inizio del nuovo secolo, dopo una fase che si potrebbe definire di passaggio, e annovera tra i portabandiera Nae Caranfil o Cătălin Mitulescu.
Ognuno di essi, chi più chi meno, ostenta le gravose lacune di una nazione, sulla carta, desiderosa di mettersi al passo coi tempi. Nondimeno, ancora carente ai limiti dell'irrecuperabile in quanto orfana della linea oltranzista da cui è stata sottomessa per oltre un trentennio, fantasma ancora serpeggiante nelle viscere di usi, costumi, tradizioni. E se l'apicultore ex carnefice di După-amiaza esprime la propria concezione di libertà asserendo di non sapere che farsene, l'idea di libertà di Pintilie pare fondarsi, non senza difficoltà, da una concezione soggettiva inerente l'utilizzo che se ne vuol fare (una «scheda tecnica», afferma, per sapere come adoperarla). La troppa libertà di pensiero o azione, dovuta a un utilizzo non corretto, viceversa ispira sfiducia in qualsiasi area: nei minimi scorci di libertà offerti, un regista, o il Paese cui appartiene, si rivela versatile e consegue i risultati migliori. «Con piccoli frammenti di libertà riesci a ricostruire un mondo libero e moderno, ovunque. Vi sono artisti morti nei campi di concentramento: ma il loro umano destino non ha rapporti con l’opera. È importante che tutti cerchino di trovare un mezzo per riuscire a realizzare i propri lavori».
Tale interpretazione di libertà – confrontata con quella, fallace, imposta da standard precostituiti e dagli organi di potere – è vantaggiosa anche per la censura e/o per i partiti politici, ché, consenzienti in superficie ai voleri di un autore, detengono il vantaggio di poter tardare la distribuzione, gli stessi tempi di lavorazione di progetti malgraditi. È sufficiente solo questa constatazione, per chiarezza e lucidità, a dire della grandezza di un autore come Pintilie quale imprescindibile riferimento, benché ancora non completamente corrisposto dal pubblico internazionale. Le leve del Noul Val, insieme ai più attenti cultori della Settima Arte, da un bel pezzo se ne sono accorti.


Francesco Saverio Marzaduri
(marzo 2017, anno VII)