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«Invito al viaggio in Romania». Un mosaico di cultura, geografia e storia
È stato recentemente pubblicato Invito al viaggio in Romania, volume a cura di Francesco Guida e Silvia Terzi (RomaTrE-Press 2015), con testi di vari docenti dell’Università di Roma Tre che hanno avuto modo di conoscere la Romania. Sono sensazioni, ma anche idee e immagini che riguardano un Paese osservato da molti punti di vista e in tante sue sfaccettature, senza alcuna pretesa di completezza. L’approccio è multidisciplinare e lo stile diversificato: il lettore vi troverà il saggio breve, la testimonianza, il racconto, la poesia e altro ancora. Denominatore comune di queste forme di espressione sono la qualità dei testi e la preparazione scientifica degli autori.
Si tratta dunque di un invito al viaggio, con l’augurio che anche per il lettore – per dirla con le parole di Milan Kundera – non ci sia «niente di più bello dell’istante che precede il viaggio, l’istante in cui l’orizzonte del domani viene a renderci visita e a raccontarci le sue promesse».
Qui pubblichiamo il testo del prof. Francesco Guida dedicato a Tudor Vladimirescu, un testo accattivante soprattutto per la forma prescelta, ossia la finzione letteraria. Personaggio di spicco della storia romena, Tudor Vladimirescu (1780?-1821) guidò il primo moto romeno nell’epoca della Restaurazione, collegato al più vasto movimento ellenico che portò all’indipendenza della Grecia. Fu per breve tempo signore della Valacchia e della capitale Bucarest, ma, resosi conto che il capo della Filikì Eteria, Alexandros Ypsilantis, non poteva contare sull’appoggio dello zar, preferì trattare con i turchi e per questo fu mandato a morte dagli eteristi.
Fatto a pezzi per una patria nascente: Tudor Vladimirescu
Veramente arrogante quel figlio di principi, Alexandros Ypsilantis, ma io sono «con la mia sciabola, nella mia terra», la Terra romena (Ţăra românească), la Valacchia. Che voleva? Un tappeto rosso? Se lui, ufficiale dello zar, fosse stato l’avanguardia dell’esercito russo, allora sì che lo avrei fatto entrare nella capitale Bucarest, piuttosto che incontrarlo nel sobborgo di Colentina. Invece, d’accordo con gli altri sovrani della Santa Alleanza riuniti con lui a congresso a Lubiana, Alessandro II ha condannato l’insurrezione scoppiata in Valacchia e in Moldavia, e non oppone alcun diniego a una operazione di polizia delle truppe ottomane: i due Principati sono parte del grande impero del sultano e gli viene riconosciuto il potere legittimo di reprimere un moto rivoluzionario. Quindi conviene non provocare ulteriormente i turchi e prendere le distanze dalla Filikì Eteria, la società segreta di cui Ypsilantis è il capo e che vuole scuotere il giogo ottomano dai Balcani, liberando i popoli cristiani e in primo luogo le terre greche. Sì, mesi fa ho fatto accordi con degli esponenti eteristi, Farmakis e Iordakis, ma allora contavamo sull’aiuto russo che mi davano per sicuro.
I russi: come dimenticare la lunga guerra del 1806-1812, quando con i miei panduri ho combattuto con loro contro i turchi. Se Napoleone non avesse avviato l’invasione della Russia, commettendo il più grave errore della sua vita, forse non ci sarebbe stata la pace di Bucarest e le terre romene sarebbero già libere o sotto un sovrano cristiano. Ci battevamo per la fede, era una crociata (zavera), oppure volevamo una Valacchia veramente indipendente, o persino un unico grande Paese dei romeni, unendo i due Principati? Le armi, le armi le abbiamo conservate in vista di una nuova occasione e infatti a gennaio di quest’anno rivoluzionario 1821 i miei panduri hanno risposto all’appello e la gente umile ha capito che il proclama che ho lanciato a Padeş si rivolgeva anche a loro: basta con i ladri che si chiamano nobili e godono di ricchezze «male raccolte». I boiardi non hanno saputo organizzare nessuna resistenza e dalla mia Oltenia sono giunto fino alla capitale e ho potuto impadronirmene, di fatto vedendo riconosciuto da tutti il mio potere. Ora Ypsilantis pretende che io riconosca il suo primato: sì, se rappresenta lo zar e preannuncia l’esercito russo; no, se conta soltanto su un numero di uomini inferiore a quello del mio «esercito patriottico». Che poi abbia un battaglione di studenti greci poco mi interessa. Bisogna riconoscerlo: non possiamo sottrarci al dominio turco ed è giocoforza continuare per ora ad accontentarci dell’autonomia non disprezzabile che ci concede. Piuttosto è il momento di porre fine al regime dei fanarioti che dura da un secolo in Moldavia come in Valacchia. Quei principi greci giunti da Costantinopoli devono lasciare il trono di
Bucarest (e quello di Iaşi) a uomini della nostra terra, a romeni. La nostra nobiltà però
si è mescolata con quella greca di importazione: perché non scegliere un uomo nuovo, domnul Tudor din Vladimir? Sono pronto e ho già dimostrato le mie capacità.
Ypsilantis voleva ancora tentare di convincermi a collaborare, ad accettare i suoi piani, ma la Grecia è lontana. Iordakis è venuto a prelevarmi per questo nel mio stesso accampamento, tra i miei quattromila uomini e sono giunto qui a incontrarlo questo damerino, monco di un braccio. Sapevo che era l’ultimo tentativo, l’ultimo incontro. Non immaginavo però che sarei stato sottoposto a una sorta di processo senza che potessi far valere le mie ragioni, con le mani legate come un delinquente. Però anche se non faceva certo freddo, ho tenuto in testa la mia caciula e ho ripetuto che non prendevo ordini da nessuno. La condanna è stata a morte e senza appello. Chi sa dove credono di andare? Sono dei fanatici senza il senso della realtà. I soldati del sultano, appena lasceranno le fortezze sul Danubio ed entreranno nel cuore della nostra terra, li sbaraglieranno facilmente, anche se i greci riuscissero a portarsi dietro i miei uomini.
Volevo la gloria e il trono? Forse, ma pensavo anche a una patria come la sognano oggi in tante parti d’Europa: uno Stato, un Regno nostro, di noi romeni delle diverse regioni, forse persino di quelli di là dei Carpazi, in Transilvania, che usano l’espressione «da noi, in patria» (la noi, în ţară) per indicare questa nostra Valacchia. Un Regno romeno degno di stare accanto ad altri Stati nazionali, con un sovrano nazionale, una classe dirigente romena e un popolo di contadini un po’ meno asserviti ai grandi proprietari e ai nobili, orgogliosi della propria fede cristiana e della propria cittadinanza.
Ho pensato in grande, ho creduto che la nostra terra potesse un giorno svilupparsi come quelle che ho visto andando fino a Vienna anni fa, al tempo del grande Congresso, con l’aiuto e per conto del boiardo Glogoveanu. Perché il popolo romeno deve restare confinato in una condizione politica e sociale di altri tempi e non essere libero e godere della ricchezza che può produrre? Che i greci facciano la loro rivoluzione se ci riescono, noi faremo la nostra quando ci saranno le condizioni, ma ora incominciamo a essere più padroni di noi stessi. Dopo la ribellione dei fanarioti, il sultano non potrà più nominarli principi qui in Valacchia e Moldavia. Vorrei essere io allora a ripetere con orgoglio «con la mia sciabola, nella mia terra», come ho detto a quell’arrogante di Ypsilantis. Però, nonostante l’estate, comincia a far freddo qui, in questo pozzo, e soprattutto non posso rimettere insieme me stesso, poiché hanno voluto tagliarmi a pezzi per sfregio (o per nascondere il mio assassinio) e ho capito che tra poco si spegnerà anche quel po’ di luce che è accesa ancora nel mio cervello.
Francesco Guida
(n. 2, febbraio 2016, anno VI)
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