Immigrati e disagiati nei «Canti dell’offesa» di Fabio Franzin

I «Canti dell’offesa» che ci propone Fabio Franzin spuntano dalla convinzione che «il poeta non può più limitarsi solo a scrivere dei “bei versi”, ma che deve ergersi a testimone della sua epoca, epoca travagliata che segna uno spartiacque fra la civiltà dei consumi, dell’abuso sulla natura e il paesaggio, e quella del necessario ripensamento, tanto più che si è ormai giunti, volenti o nolenti, a una sorta di resa dei conti con le istanze suddette». Sui percorsi interiori ed esteriori che hanno accompagnato la nascita della sua raccolta poetica, l’autore scrive:

Nel dicembre del 2004 mi trovavo a Lucca per cose legate alla poesia, e proprio nel week-end in cui ero lì, ebbi la fortuna di assistere ad una delle ultime uscite in pubblico di Mario Luzi – da poco onorato del titolo di senatore a vita. L’occasione era una sua “Lectio magistralis” dal titolo Luce incarnata; la lezione, che doveva tenersi in un luogo istituzionale, fu poi spostata in una dimora privata, a causa della sua famosa dichiarazione conseguente al fatto del treppiede scagliato addosso all’allora presidente del consiglio Berlusconi, e alle violente reazioni che suscitò nel dibattito politico. Ecco, che fosse negato un luogo istituzionale al più grande poeta italiano vivente e persona di specchiata civiltà, solo perché si era “permesso” di dire: “in fondo se le cerca anche un po’ lui”, lo trovai un gesto di spregio, leggi offesa, verso lo stesso Luzi – condito dalle candide dichiarazioni di alcuni senatori, di non sapere neanche chi egli fosse – e verso la cultura, l’Italia intera. Non potevo non accostare l’ignominia in oggetto, con la sua famosa invettiva alla Repubblica. Poco dopo Luzi morì, come sappiamo, e subito dopo la sua morte scrissi, in suo omaggio e memoria, Ignominiosamente che è il testo che apre i Canti dell’offesa.

Intanto, sia nei luoghi di lavoro, sia all’interno della società, avvertivo l’accrescersi di una crisi che, prima ancora sfociasse poi in economica, era già incistata all’interno della società: vuoi il regredire delle condizioni di tutela dei lavoratori stessi, vuoi certi proclami razzisti e omofobi, le tragedie dei “clandestini” del mediterraneo – diventato un vero e proprio “cimitero marino” – o del riflettersi nei gesti e nelle abitudini di tutti noi dei messaggi subliminali della tivù, sempre più vuota, maleducata, arrogante, sempre più portata a una malsana pruderie: pensiamo all’audience cavalcato sui vari delitti insoluti, alle macabre gite nei luoghi dell’orrore; tutto ciò lo sentivo / lo sentiamo sempre più come un’offesa all’umanità; non un’indignazione, come ha giustamente rilevato un giovane critico a ridosso dell’uscita della raccolta, ma una vera e propria offesa.

Poi, nell’estate del 2007, avvenne il fatto tragico di Mestre; prendo dalla nota al testo in questione che ne è scaturito: Il 14 luglio 2007, nell’area di servizio Bazzera, a Mestre, da un camion-frigo tedesco che trasportava angurie, furono estratti i corpi congelati di tre clandestini iracheni. I giornali raccontarono le risa divertite dei turisti di passaggio, le foto ricordo fatte coi telefonini.
Quelle risa, quegli scatti-souvenir dei telefonini su quei poveri corpi morti, mi rimbombarono dentro come una selva di tuoni, non mi diedero più pace. In quei gesti senza cuore avvertivo un brusco scivolamento verso l’inciviltà, la barbarie. Nacque il testo Povere statue, che è il secondo della raccolta.

Poi, nel 2008, partita dall’insolvenza dei mutui subprimes negli Stati Uniti, dall’infestazione cui non c’era antidoto – perché ogni banca mondiale aveva “in pancia” i suoi parassiti di carta straccia – tutti abbiamo incominciato a fare i conti con l’offesa di un’economia non più “controllabile”, con una crisi economica che, come ogni virus, attacca per primi gli esseri più indifesi: i ceti più umili, i pensionati, le famiglie con qualche malato o portatore di handicap da assistere, i migranti che, vorrei ricordarlo per l’ennesima volta, espatriano da paesi in cui non c’è civiltà, libertà, possibilità di emergere dalla fame, non perché vogliono venire qui a insidiare le nostre indifferenti tranquillità.


Gabriela Iliescu *

Quando ho letto l’articolo nel Gazzettino,
la disgrazia che ti ha colpita,

una mattina di nebbia che sembra  
pioggia, il sei dicembre duemila
undici, mentre tutta l’Europa
è sotto scacco per un’economia
malata e senza cuore, mi sono collegato
ad internet per capire meglio, anche
io ho sgobbato vent’anni alle presse,
so del sudore mischiato al calore,
i gas che intossicano, i tempi di produzione
da rispettare per portare a casa un tozzo
di pane. Ho cliccato il tuo nome, su
google, e subito mi è apparsa
una schermata di foto di una bella ragazza, in posa
sulle copertine delle riviste di moda.

Pensa al destino, cara Gabriella: una tua omonima, una
nata nello stesso paese che vi ha
viste emigrare in cerca di fortuna

fa la modella, sogno di ogni
ragazza, in questa epoca, ha il sorriso
stampato su poster e pubblicità, lo
fa sbocciare sulle passerelle rosse,
davanti ai flash, dall’estetista

il tuo rimasto compresso fra due
stampi di ferro e gli scarti di plastica.

* Gabriela Iliescu è una donna romena di 44 anni, morta con la testa schiacciata sotto a una pressa, la sera del 5 dicembre 2011, nell’azienda “Plastopiave” , produttrice di bottiglie di plastica, a Conegliano.
La sua omonima e connazionale, è una delle modelle più richieste e pagate, la sua immagine campeggia nelle copertine delle maggiori riviste patinate.



* * *

Questi vostri nomi Andreas Peppe
Jordanu Emir Mailat questi nomi
sporchi di sabbia e calcina volati

da impalcature posticce il giorno
stesso dell'assunzione queste urla
perse fra putrelle e betoniere sono

il grido che resta imprigionato fra
le celle in cartongesso dei nostri
appartamenti e nelle intercapedini

le piastrelle sono lapidi che il mocio
lucida il detersivo cancella il sangue
e i nomi sudore e precariato caporali.

 

* * *


Oggi il kosovaro che lavora con me
mi ha chiesto se potevo imprestargli
cinquanta euro si guardava nei piedi

mentre formulava quella sua richiesta
chissà quanto a lungo meditata – lo sa
che ho due figli il mutuo per la casa

e tutto il resto – e sono sicuro sapesse
anche la mia risposta perché non se l'è
presa sì sì certo comprendo continuava

a dire scrollando la testa intanto che ci
avviavamo verso i reparti stretti i guanti
nella mano. Però io non lo riconoscevo

quello che ha dovuto dire mi dispiace
proprio quando suonava la sirena e non
c'era più tempo neanche per la vergogna.

* * *

Oh quelle vecchiette che incontro
spesso dal tabaccaio quando entro
a comprarmi le sigarette: ostaggi

del gioco lì appoggiate al bancone
tutte intente a grattare con la moneta
quegli allettanti cartoncini colorati

coi simboli della fortuna: dadi carte
da poker e segni zodiacali...le guardo:
paltò di grisaglia grigia a bottoni grossi

sformato odoroso di naftalina grigio
come i loro riccioli scarmigliati grigio
e sformato come la loro vita ormai

– anche se condita da progenie – di anni
volati in un lampo fra un ballo lento
e una sberla del marito fra uno sgorgo

di gioia e mille malanni e umiliazioni;
babbucce di feltro ai piedi calzerotti
di lana mista fatta a ferri....le guardo

dilapidare la miseria della pensione
per rincorrere un sogno impossibile
grattata dopo grattata.... le seguo poi

andar via deluse e coi loro stanchi
passi tornare all'appello con quella
realtà che le ha grattato via un altro

po' di speranza un'ulteriore patina
di vita tornare dalle pentole dalle
loro preghiere dentro quelle stanze

che sanno di brodo da quelle care
foto che sulla credenza sembrano
dirle severe “e adesso sei contenta?”.


                                     
Nota di Paolo Polvani

Mia madre corrisponde in maniera esatta alla descrizione delle vecchiette  che nelle poesie di Fabio Franzin s'incontrano dal tabaccaio appoggiate al bancone, intente a grattare con la moneta i cartoncini del gratta e vinci. Ostaggi del gioco, rincorrono un sogno impossibile. 
Le ho letto la poesia in questione e si è riconosciuta, si è persino commossa. Poi però si è fatta seria e ha detto: - Ma non potete toglierci ANCHE questa illusione.
Ricordo che Borges parlava di miseria che si aggrappa alle lotterie.
Abbiamo attraversato anni di feroce  perdita, fondati sull'inganno, scivolati lungo un degrado senza sorprese: si sapeva che l'economia nascondeva al suo interno bolle d'insincerità, la politica ci aveva abituati a flussi di mostruosità, di comportamenti indecenti, di follie e di lampanti menzogne, senza neanche i sussulti di uno sbigottito stupore, in una colpevole assenza di pudore.
Il degrado più terribile e infamante è stato quello del comune sentire.
Nella poesia del gratta e vinci la vecchietta torna a casa, alle sue preghiere, alle pentole e all'odore di brodo, alle care fotografie che dalle mensole la guardano e sembrano dirle: - E adesso, sei contenta?
Anche in queste poesie,  al termine di ogni quadro il poeta sembra suggerirci: - E adesso siete / siamo contenti?
Di che cosa dovremmo essere contenti? Del fatto che politici presunti autorevoli non avvertano l'enormità di vantarsi di non conoscere Mario Luzi, non avvertano la colpa della inadeguatezza, dell'approssimazione, il peso di una colossale stupidità.
Siamo contenti dei manovali stranieri, quasi sempre in nero, che volano dalle impalcature, siamo contenti dei turisti che riprendono col telefonino i cadaveri iracheni congelati dentro un camion frigo, siamo contenti dell'assurdità di quella morte, ma ancora di più dell'allegria scanzonata al cospetto della tragedia.
Questi canti dell’offesa di Fabio Franzin sono uno scossone, un brusco tentativo di risveglio.
Eccolo il disfacimento morale, i cui segni germogliano a partire dai fatti della cronaca, le violenze sessuali consumate per noia, lo straniero come capro espiatorio, gli sgomberi forzati delle baraccopoli dei nomadi, la disumanità degli ospedali, gli anziani costretti dall’indigenza a rubare nei supermercati.
Alla fine ci si chiede: - Ma era proprio così il mondo / che sognavamo?
E ancora: - Ma siamo proprio noi quelli là?
Queste domande costituiscono l’atmosfera che si respira nel fluire dei versi.
Il giudizio rimane al di qua, l’invettiva è implicita, più che l’indignazione, è lo stupore per quello che siamo diventati, è la dolorosa meraviglia di fronte all’enormità dei fatti la protagonista di queste poesie.
Leggerle è una sana scrollata, è riaprire finalmente gli occhi su una realtà che ci rivela insieme offesi e offensori.


(n. 2, febbraio 2012, anno II)