Viva il francese, ovvero il dialogo dei Meteci. Intervista di Edouard Roditi a Emil Cioran

Pubblichiamo, a cura e traduzione di Irma Carannante, un articolo-intervista di Édouard Roditi a Emil Cioran. La conversazione del grande di Răşinari con il poeta, scrittore e traduttore americano Édouard Roditi, dal titolo Vive le français oder der Dialog der Zugereisten, è apparsa per la prima volta in «DU Magazin» (fascicolo novembre 1960, Zürich, pp. 55-56).

Nel 1948, vivevo a Berlino dove lavoravo come interprete per il Consiglio di Controllo Alleato. Nel tempo libero dirigevo, in collaborazione con Alain Bosquet e Alexander Koval, la rivista «Das Lot», che avevamo fondato al fine di far conoscere, grazie ai lettori tedeschi, privati dopo più di dodici anni di quasi tutti i contatti con l’avanguardia letteraria straniera, i poeti e i prosatori che ritenevamo importanti. Quasi sempre siamo stati i primi a presentarli in traduzione tedesca dopo il 1945. Ogni volta che avevo qualche giorno di permesso, ne approfittavo per andare a Parigi o a Londra, per frequentare librerie e circoli letterari e per informarmi sulle novità che avrebbero potuto interessare i nostri lettori. Avevamo già pubblicato in tedesco alcune poesie di Saint-John Perse, Boris Pasternak, Wallace Stevens e Konstantinos Kavafis, dei racconti di Paul Frederic Bowles, Jean Malaquais, Paul Goodman e O.W. de L. Milosz, dei classici ancora poco conosciuti in Germania come Lautréamont, Nathaniel Hawthorne e Ambrose Bierce, e alcuni testi autobiografici di F. Scott Fitzgerald, Henry Miller e Cyril Connolly. Inoltre, siamo stati tra i primi a pubblicare in Germania due nuovi autori di lingua tedesca: Friedrich Dürrenmatt e Paul Celan.
Un giorno, di passaggio a Parigi, m’imbattei per caso nel Précis de Decomposition di E.M. Cioran, scrittore pressoché sconosciuto, ma il cui pensiero e stile subito mi affascinarono. Di ritorno a Berlino, feci tradurre velocemente alla vedova del poeta Joachim Ringelnatz, qualche suo estratto, e lo pubblicammo su «Das Lot» non appena ricevemmo l’autorizzazione da Parigi. Un po’ più tardi, un’importante casa editrice tedesca, Ernst Rowohlt Verlag, s’incaricò di far tradurre la restante parte da Paul Celan, che io raccomandai come traduttore, in quanto, allora, la Signora Ringelnatz era troppo malata per poter intraprendere un lavoro così importante. Nel 1954, apparve così nella Germania dell’Ovest Lehre Vom Zerfall, presentata però come l’opera di un discepolo di Jean-Paul Sartre e collaboratore di «Temps Modernes». Niente di più falso: alcuni seguaci tedeschi dell’esistenzialismo di Saint-Germain-des-Prés si accorsero immediatamente dell’inganno dell’editore, ritrovandosi giustamente delusi. Questa versione tedesca non ebbe alcun successo e fu rapidamente liquidata. Lo stesso Cioran non fu particolarmente scosso dal suo insuccesso: la maggior parte dei suoi scritti in francese, in effetti, non ebbe molto più successo sia nelle librerie che per la critica.
Quanto a me, non mi sono mai lamentato, come ha fatto la casa editrice «Rowohlt», per questa iniziativa, che mi ha dato l’opportunità di conoscere Cioran e di stringere con lui, alla lunga, una delle più preziose amicizie letterarie, basate sulla fedeltà e la sensibilità. Per quasi quarant’anni, è vero, ci siamo incontrati solo tre o quattro volte l’anno, pur abitando prima l’uno di fronte all’altro all’incrocio dell’Odéon e poi, durante il periodo estivo, quasi vicini di casa nella città vecchia di Dieppe.
Due o tre volte, sono andato a trovare Cioran nella sua piccola mansarda, al sesto piano di un hotel studentesco in una via stretta che conduceva ai giardini del Lussemburgo. Tuttavia, ci siamo incontrati più spesso in uno dei caffè del quartiere o a un modesto pranzo di uova strapazzate, formaggio, insalata e frutta a casa mia, quando ancora vivevo in un appartamento in rue Grégoire de Tours, prima di esiliarmi in una di quelle torri asiatiche del XIII arrondissement di Parigi.
Nato nel 1911 in Transilvania, regione della Romania, che allora faceva parte dell’Ungheria con ancora un’importante minoranza di lingua tedesca, Cioran era figlio di un pope della Chiesa ortodossa, come molti altri intellettuali romeni. Inizialmente, Cioran insegnò nel suo paese e pubblicò anche alcuni saggi filosofici in romeno. Nel 1937 arrivò a Parigi per preparare una tesi di dottorato. Per più di venti anni, ha continuato a vivere lì, inizialmente in camere d’albergo. Era una persona costantemente in movimento, un virtuoso dell’esilio e dello spaesamento. Dal 1947, scrive tutte le sue opere in francese, lingua che padroneggia con la sicurezza e la precisione di un moralista del Secolo dei Lumi che avrebbe manifestato la sua volontà di modernismo o di anticlericalismo, abbandonando il latino, lingua internazionale della Chiesa e di Erasmo, per esprimersi soltanto nella lingua, più viva e più flessibile, che fu anche quella di Rivarol, di Casanova, dell’abate Galiani, del Barone von Grimm e di tanti altri “meteci”, come anche Vittorio Alfieri, fino al giorno in cui, improvvisamente divenuto misogallo, volle esprimersi soltanto in italiano, sebbene parlasse questa lingua d’adozione con l’accento francese di un aristocratico piemontese.
Poco tempo dopo la sfortunata pubblicazione in tedesco del Précis de decomposition, il mio amico Manuel Gasser, allora direttore a Zurigo della bella rivista tedesca «Du», mi pregò di fornirgli il testo francese di un’intervista a Cioran, che avrebbe fatto tradurre in tedesco per i lettori della sua rivista. Telefonai dunque a Cioran comunicandogli la mia intenzione di fargli visita e prendere alcuni appunti per la mia intervista con l’autore di Lehre vom Zerfall e di molte altre opere che i suoi rari lettori tedeschi, probabilmente,non avevano avuto l’occasione di conoscere in lingua francese: Syllogismes de l’amertume(1952), La tentation d’exister (1956), Histoire et Utopie (1960) e una lunga prefazione ad una raccolta di Joseph de Maistre, apparsa nel 1957. Una volta fissato il nostro appuntamento, affrontai i sei piani dell’hotel dove alloggiava ancora Cioran, con il coraggio e lo stoicismo di un candidato al campionato mondiale – secondo le parole di fuoco di Tristan Bernard – di arrampicate per vecchi ebrei, o piuttosto, nel mio caso, per ebrei epilettici. Arrivai così sul pianerottolo del sesto piano, ansimante, in iperventilazione, titubante e pronto per un elettroencefalogramma.
– Lei si comporta come un principiante, mi dice Cioran per rimettermi a mio agio. Le scale, al contrario, bisogna farle dolcemente.
Come sempre lo trovai pallido. Sotto i capelli pettinati e dai riflessi ramati, poiché era un uomo troppo discreto per permettersi di averli rossi, il suo volto, afflitto dall’insonnia o dagli incubi, appariva ancora sorridente.
– Parla proprio lei, gli risposi. Lei è allenato. Che io sappia, anche in vacanza percorre in bicicletta le Alpi, i Pirenei, le Dolomiti, i Tatra.
Chiacchierando, penetriamo nello stanzino da lui utilizzato come studio. Non vi trovai alcun disordine come ci si aspetta in genere dagli artisti, ma vi era una pulizia, una sobrietà e un ordine, quasi monastico. Ebbi l’impressione di ritrovarmi nella cella di uno di quei pochi saggi che avevo incontrato durante un soggiorno nei monasteri bizantini del monte Athos. Dopo un breve silenzio, si confidò, un po’ più esitante del solito:
– Credo che dovrò traslocare. Mi hanno appena offerto un appartamento.
– Al piano terra, spero.
– No, al settimo piano. Ma dopo aver vissuto vent’anni in hotel, un piano in più o uno in meno non fa molta differenza.
– In ogni caso, lei smetterà di essere un goy errante.
Il telefono squillò, era proprio lì dove si trovava Cioran, così fu costretto a rispondere. Per cinque minuti, senza volerlo, ascoltai una conversazione in romeno a senso unico. Cioran si spazientiva ma con garbo, e spiegava più volte la stessa cosa: sembrava trattarsi di un malinteso tipicamente moldavo o bucovino, degno di figurare in un vecchio romanzo di Paul Morand. Infine, il problema fu risolto, Cioran riattaccò e si scusò con me.
– Ma di cosa, mio caro? Forse per quella specie di accento esperanto, che non mi impedisce tuttavia, man mano che passa il tempo, di capire il suo basso latino, nonostante le numerose parole prese in prestito dallo slavo, dall’ungherese,o dal turco.
– O piuttosto grazie a queste parole che provengono da lingue ancora più esotiche del romeno,che immagino lei possa conoscere meglio di me.
– Ma io me ne guarderei bene dallo scrivere. A mio avviso, molte altre di queste lingue possono soltanto servire in letteratura per comporre, tutt’al più, dei romanzi populisti, regionali o realisti, pieni di proverbi, di scene del folklore e di ricette da cucina. Lei stesso ha seguito l’esempio di Anna de Noailles, di Panaït Istrati, di Eugèn Ionesco e di Benjamin Fondane, preferendo il francese come mezzo d’espressione.
– Sì, nonostante ciò continuo a pensare che il romeno si presti in maniera meravigliosa all’espressione poetica. Per la filosofia, invece, e anche per la critica o la storia, c’è bisogno di una lingua più flessibile, idonea a tutte le discipline. Bisogna essere folli per non aver approfittato oggi di tutto ciò che Pascal, Voltaire, Valéry, Proust e Stendhal hanno già fatto per addomesticare la lingua francese e renderla più rigorosa e più esatta.
– La sua cura per la precisione mi ha sempre meravigliato. Lei riesce ad analizzare le angosce con la curiosità e la destrezza di un chirurgo, ovvero di un altro che non ne soffre.
– Non si può scrivere allo stesso modo in cui si piange e si geme.
– Perché no? A partire dagli ultimi testi che Baudelaire ha scritto prima di morire questo è diventato sempre più di moda. Veda per esempio Françoise Sagan.
– Françoise Sagan può permettersi il lusso di scrivere in un francese che si può sentire per strada o in metro. Ma uno straniero non può permettersi il lusso di questa libertà.
– Sì, lì si tratta di una licenza che solo un autoctono può avere il diritto di concedersi. A [Raymond] Queneau o a [Henri] Calet viene facilmente perdonata questa disinvoltura nella lingua francese, indice di una certa mansuetudine democratica, che possiede quel tipico aroma del territorio che un meteco, come lei o come me, difficilmente potrebbe acquisire. Ma io trovoanche in lei, pur essendo il più francese degli scrittori di oggi, delle tracce di pensiero slavo o tedesco, insomma un pessimismo un po’ esotico.
– Lei dimentica Léon Bloy, Joseph de Maistre e Chamfort.
– Ha ragione, ma tutti questi scrittori francesi che lei mi ha appena citato, salvo forse Bloy, li trovo di uno stoicismo molto latino, alla maniera di un Tacito o di un Seneca. Quanto a lei, sarei tentato di situarla piuttosto nella tradizione di Schopenhauer, di Nietzsche, di Kierkegaard o di Dostoevskij.
– Quando avevo vent’anni, è vero che fui sconvolto dalla lettura dell’opera del filosofo tedesco, Georg Simmel, il quale, figlio di un rabbino, era stato per certi versi il pendant tedesco di Bergson. Lessi, con entusiasmo, il suo Rembrandt, ein kunsthistorischer Versuch [Rembrandt un saggio di filosofia dell’arte]. In seguito scoprii anche Ernst Cassirer, leggendo il suo Substanzbegriff und Funktionsbegriff [Sostanza e Funzione]. Infine, ci sono tre russi, che mi hanno profondamente influenzato: Čechov, Rozanov e Lev Šestov, ed è soprattutto da quest’ultimo, piuttosto che da Kierkegaard, che ho trovato l’espressione più perfetta del tormento metafisico. Anche Camus è debitore di buona parte del suo pensiero a Šestov, ma non ha fatto nulla per far conoscere meglio i suoi scritti in Francia. Malraux, invece, molto probabilmente, deve a Šestov il suo modo di concepire la morte.
– Io credo anche che Malraux e Camus abbiano, probabilmente, attinto alle stesse fonti riguardo la loro conoscenza e il loro apprezzamento per Šestov. Ricordo che, verso il 1930, i Surrealisti dissidenti del gruppo della rivista «Le Grand Jeu», soprattutto René Daumal e Roger Gilbert-Lecomte, si interessavano molto alla filosofia di Šestov e, tra i miei amici personali, Carlo Suarès e Benjamin Fondane mi parlavano spesso della sua opera. Tale ambiente aveva inoltre dei contatti con Malraux, Roger Caillois e, più tardi, con Sartre e Camus.
– Fondane! È scandaloso che sia stato deportato e ucciso nelle camere a gas ad Auschwitz! Ed è vergognoso che non vengano ristampate ancora le sue opere, da tempo esaurite, e che neanche si ripubblichino i suoi numerosi scritti inediti.
– Possiedo ancora una copia, con la sua dedica, del suo primo libro filosofico, La Conscience malheureuse e anche una copia delle sue poesie che aveva un tempo pubblicato in Francia. Ma non ho avuto ancora l’occasione di leggere i suoi Entretiens avec Chestov, di cui spesso ci parlava. Da qualche tempo, non si ristampa più Fondane, ahimè, se non in antologie molto approssimative che raccolgono alcuni scritti di autori morti nei campi di sterminio, e in maniera del tutto superficiale. Poco prima della sua deportazione, Fondane aveva intenzione di pubblicare un eccellente studio su Baudelaire, di cui alcuni estratti sono apparsi su una rivista americana, dopo il 1945.
– Io stesso ho molto frequentato Fondane e credo, come lei, che Malraux, Camus, e molti altri, gli debbano buona parte delle loro domande tormentate. Che iniziazione all’agonia del dubbio!
– Di questa agonia, di cui si potrebbero peraltro ritrovare le fonti da Socrate nei Dialoghi di Platone, lei ne fa quasi lo stesso uso che ne faceva Tertulliano, tra i Padri della Chiesa, del concetto di fede. Egli affermava, in effetti, Credo quia absurdum, nozione che si ritrova peraltro negli scritti di quasi tutti i pensatori neoplatonici della Chiesa, compreso Sant’Anselmo. Per questa ragione, lei non ci crede e ne soffre. Vede, c’è in lei, la stoffa di un santo.
– Ma Tertulliano ci proponeva anche un assoluto dogmatico che risulta, a mio avviso, essere inaccettabile. Io non voglio negare nei miei scritti l’importanza della dimensione religiosa. Secondo me, tale dimensione resta essenziale, ma io ho la passione del dubbio, come altri hanno la passione della fede e persino del gioco, ciò che costituisce la mia apostasia è una sorta di vocazione religiosa a rovescio. Non per niente, sono figlio di un pope.
– Leggendo la sua opera, ho talvolta l’impressione che lei non sia veramente ateo, ma piuttosto un eletto refrattario.
– Sarei l’ultimo a voler negare l’importanza del concetto di elezione. In Romania, siamo stati quasi sempre segnati dall’apporto del pensiero degli Ebrei e dei Greci, che rappresentano gli elementi di civiltà più essenziali della nostra popolazione.
– E questo a dispetto dell’importanza di alcuni pensatori tedeschi o russi.
– Sì, ma questi mi hanno insegnato a sentire piuttosto che a pensare, ed è in francese che ho, in seguito, imparato a mettere in chiaro e a scrivere ciò che provavo, pur restando sempre profondamente romeno, ammesso che ci sia veramente un modo di pensare e di essere romeno.
– E quale sarebbe, secondo lei, questo modo di pensare e di essere romeno?
– Io credo che dovrebbe fondarsi su un non-so-che d’esperanto, mitigato dall’ebraico, dal greco, dall’ungherese, dal tedesco, dal russo, dal latino dell’antica Dacia, e anche dal turco.
– Di questa cucina, io stesso conosco a mala pena la ricetta. Basta aggiungervi una foglia di basilico, togliervi un pizzico di paprika, sostituendolo con una cucchiaiata di harissa, e avrà ottenuto così, mio caro Cioran, il suo ipocrita lettore, quasi suo simile e fratello, ma privo del suo genio: è proprio di me che si tratta!
Mettendo a posto vecchi manoscritti, ho ritrovato ultimamente la bozza francese della nostra conversazione che è stata in seguito tradotta in tedesco e pubblicata, con qualche taglio necessario, a Zurigo sulla rivista «Du». Ne riparlai allora con Cioran, che mi autorizzò a rimaneggiare un po’ il testo per aggiornarlo e pubblicarlo in un secondo momento. È ovvio che, né io, né lui oggi, avremmo avuto le stesse idee e gli stessi modi per esprimerle di quaranta anni fa.


Traduzione italiana di Irma Carannante
(n. 5, maggio 2020, anno X)



* La conversazione con Edouard Roditi (Vive le français oder der Dialog der Zugereisten) è apparsa per la prima volta in «DU Magazin» (fascicolo novembre 1960), Zürich, pp. 55-56; traduzione francese, Vive le français, ou le dialogue des Métèques, pubblicata in «Plein Chant Revue», n. 45 (1989), Bassac, pp. 17-23 e successivamente in AA.VV., Cioran et ses contemporains, a cura di Pierre-Emmanuel Dauzat et Yun-Sun Limet, Pierre-Guillaume de Roux, Paris, 2011, pp. 137-142.


Édouard Roditi (Parigi, 6 giugno 1910 – Cadis, 10 maggio 1992) è stato un poeta, scrittore di racconti brevi e un traduttore americano. Ha studiato in Gran Bretagna al Charterhouse, al Balliol College di Oxford e all’Università di Chicago. Figlio di un ebreo sefardita nativo di Istanbul, e naturalizzato americano. Roditi ha pubblicato diversi volumi di poesia, di racconti brevi, e critica d’arte. È ricordato inoltre per le sue numerose interviste agli artisti: Marc Chagall, Joan Mirò, Oskar Kokoschka e Philippe Derome.