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Anteprima. «Ora cinque e sette minuti» di Dumitru Crudu
Dumitru Crudu (1967, Flutura, Repubblica di Moldavia) è prosatore, drammaturgo, poeta e tra i firmatari del Manifesto Fratturista. Nel 2003 ha ricevuto il premio UNITER e il Premio della Fondazione Principessa Margareta per la migliore opera teatrale romena (Alegera lui Alexandru Sutto – La scelta di Alexandru Sutto). Le sue opere sono state messe in scena in Africa e in America Centrale. Ha debuttato come prosatore nel 2008, con il romanzo Măcel în Georgia (Macello in Georgia), e il romanzo Un american la Chișinău (Un americano a Chișinău), è stato candidato al premio Visegrad Eastern Partnership Literary Award di Bratislava e al premio per la prosa della rivista «Observator Cultural». Nel 2018 è stato insignito del Premio «Ion Creangă» dell’Accademia Romena per la raccolta di prose brevi Salutări lui Troțki (Saluti a Trockij). Nel 2019 ha pubblicato il romanzo Il compleanno di Mihai Mihailovici, sull’occupazione sovietica della Moldavia.
Ora cinque e sette minuti è una raccolta di prose brevi sulla guerra, sullo spirito e sulle conseguenze della guerra, firmata da Dumitru Crudu e pubblicata nel 2022.
Organizzati quasi come un grande racconto corale, i testi seguono un ordine più concettuale che cronologico anche se, nel loro susseguirsi, ricostruiscono in un certo modo la vita di Alexandru, un professore di storia, a volte protagonista, a volte narratore. Insieme a lui, nello svolgersi della sua esistenza raccontata in frammenti sparsi, appaiono e ricorrono anche altri personaggi, colleghi, amici o nemici di Alexandru, espediente che lega in modo organico i racconti, d’altra parte autonomi e scollegati tra loro dal punto di vista della trama, anche perché la guerra rimane la vera protagonista.
La guerra descritta da Crudu però non è solo quella combattuta dagli eserciti (sebbene sullo sfondo sia la macrostoria sovietica o post-sovietica della Repubblica di Moldavia a fornire sempre il contesto) ma è spesso quella quotidiana per la sopravvivenza, quella della memoria contro le manipolazioni, dell’emozione contro la violenza estrema, contro l’assurdo.
Allo stesso tempo, Ora cinque e sette minuti è un esercizio di liberazione individuale, una cronaca lucida sulle eterne conseguenze dei conflitti, passati e presenti, e infatti il titolo riporta l’ora esatta in cui la Russia ha invaso l’Ucraina, nel febbraio del 2022.
Lo stile di Dumitru Crudu, particolarmente concentrato in queste prose brevi, unisce la tradizione dialogica della letteratura russa all’asciuttezza diretta della prosa americana, creando piccoli mondi pieni di assurdità, tenerezza, violenza e ironia, descritti con un discorso spesso ellittico e sincopato, un balbettio che entra ed esce dai pensieri dei personaggi, come fosse la lingua di uomini incerti e spaventati che, nonostante tutto, continuano a esistere.
Era impossibile che uscissimo tutti e tre vivi dalla camera di quel dormitorio
Lo credevo morto da più di vent’anni, ma stamattina alle sette, ci siamo ritrovati faccia a faccia, difronte al Teatro Nazionale “Mihai Eminescu”, da cui io ero appena uscito e in cui lui voleva entrare. Il morto mi stringeva la mano con entusiasmo e io mi sono pizzicato una gamba per assicurarmi che non fosse un sogno. Quel giorno avevo lasciato prima il camerino di Igor Caras, dove dormivo nell’ultimo periodo, perché avrebbero iniziato le prove di primo mattino, eppure per le scale del teatro non ho incontrato Igor ma Mihai, che per tutto questo tempo avevo creduto morto e per la cui anima avevo acceso non so quante candele in chiesa. Però lui non era morto, come avevo creduto io per tutti questi anni, perché un morto non avrebbe potuto abbracciarmi con tanta forza. Mi ero tolto un peso dal cuore.
Ci siamo scambiati le ultime parole il 24 maggio del 1992, nel bel mezzo della guerra russo-georgiana in Abkhazia, nella nostra camera di dormitorio a Tbilisi, dove avevamo ricevuto un alloggio come dottorandi di storia, prima che un tizio ossuto si lanciasse sulla nostra porta, che non chiudevamo mai a chiave, e si precipitasse su di noi, domandandoci se fossimo moldavi. Noi l’abbiamo guardato contrariati.
- Siete moldavi o no?
- Sì, lo siamo.
- Vuol dire che cercavo proprio voi, ci disse il tizio.
- Si accomodi, ho spinto una sedia nella sua direzione.
Il tizio si è seduto.
- Io sono Ghevorg, sono un armeno di Tbilisi e vado al fronte ad aiutare i fratelli dell’Abkhazia, perché odio a morte i georgiani, ma anche più dei georgiani detesto i moldavi, ci ha informato l’uomo con una voce glaciale e ho sentito un blocco di ghiaccio scivolarmi lungo la schiena. Sussultò sulla sedia anche Mihai. Ci siamo scambiati un rapido sguardo.
- Che c’è, non mi credete?
- La crediamo, gli ho detto io con voce flebile.
- Oh! i vostri mi hanno fatto di tutto, per due anni, quanto sono stato nell’esercito. La vedete questa cicatrice sulla fronte?
- Sì, la vediamo, ho balbettato io.
- Sapete chi me l’ha fatta?
- Chi?
- Uno dei vostri moldavi, che mi ha colpito in testa con una sedia di ferro.
- E noi che abbiamo a che fare con questo? lo affrontò Mihai.
- Come, credete di non averci niente a che fare?
- Sì, questo crediamo.
- Vi sbagliate, fratelli.
- Ma come?
- Non siete moldavi anche voi?
- Ma sì, lo siamo.
- Allora dovete pagare per quello che mi hanno fatto i vostri moldavi due anni fa, urlò l’uomo e puntò una pistola contro di me, poi contro Mihai e di nuovo dall’uno all’altro. Da dove l’aveva tirata fuori e com’era possibile che non l’avessimo notata fino a quel momento? Dove l’aveva tenuta tutto quel tempo? Dietro la schiena?
La puntò contro di me, mirando alla testa. Mihai riuscì a colpirgli la mano con un calcio e il proiettile mi fischio accanto all’orecchio e colpì la parete. Quello sparo a vuoto lo aizzò ancora di più. Si lanciò su Mihai e lo mise al tappeto, facendolo rotolare sul pavimento. Gli monto con il culo sul petto e cominciò a prenderlo a pugni senza pietà, selvaggiamente. Mihai mi gridava tra i colpi di raccogliere la pistola e di sparargli alla nuca.
- Ma io non so sparare. E se centro te?
- Allora colpiscilo alla testa con la pistola. E sbrigati che questo bastardo mi ammazza!
L’ho raccolta ma subito l’ho gettata di nuovo sul pavimento. L’idea che avrei potuto uccidere una persona mi faceva orrore. Al posto di quello, ho afferrato il tizio per un braccio e l’ho tirato verso di me con tutta la forza che avevo, con l’intenzione di farlo scendere dal torace del mio compagno di camera, ma l’energumeno con l’altra mano mi colpì alla mascella, così forte da farmi saltare un dente e lasciarmi un istante tramortito, provocandomi un dolore assordante. E come se non bastasse, era anche riuscito a recuperare la sua pistola da sotto la sedia e con quella colpì Mihai alla testa, dopo di che la rivolse verso di me. Allora mi sono mosso rapidamente e sono fuggito da quella stanza, dove Ghevorg, che si dirigeva in Abkhazia per combattere al fianco di russi e abcasi contro i georgiani, aveva fatto uno scalo e aveva sparato un nuovo colpo contro di me, di nuovo, senza colpirmi.
Quella notte ho dormito alla stazione. Il giorno dopo sono tornato nella nostra camera, e l’ho trovata vuota. Ho pensato che Ghevorg avesse ammazzato Mihai e avesse gettato il suo cadavere in qualche pozzo, perché non lo trovasse nessuno. Avevo paura che tornasse, perciò ho raccolto le mie cose e ho lasciato quella stanza e, quella stessa sera, anche Tbilisi, rinunciando a terminare quella scuola dottorale.
Per tutti questi anni ho creduto che Mihai fosse morto e mi sono sentito profondamente colpevole della sua morte, accusandomi di essermela data a gambe invece di aiutarlo. Sì, certo, avrei potuto aiutarlo ma io ho pensato solo a come salvarmi la pelle. L’avevo tradito, e questo gli era costato la vita. Per questo motivo, in tutti questi anni ho fatto centinaia di offerte per la sua anima e ho acceso migliaia di candele in chiesa, mentre lui era vivo e vegeto e ora si trovava di fronte a me e m’invitava a bere qualcosa. Sulla strada verso Jaba, gli ho confessato quanto avessi sofferto, in tutto questo tempo, per averlo abbandonato in quella sera nefasta, quando siamo stati attaccati quel tipo che si dirigeva in Abkhazia, per combattere con russi e abcasi. Sono stato un…
- Dai, lascia stare Alexandru.
- Hai tutto il diritto di vendicarti.
- Vendicarmi? Vendicarmi per cosa? mi domandò lui quando entrammo al Jaba.
- Ti offro tutto quello che vuoi.
- Allora ordina una bottiglia di vodka e due pacchetti di noccioline.
Bevevamo vodka e frantumavamo noccioline tra i denti, quando lui mi disse:
- Chi lo sa se avrei fatto anch’io come te.
- Tu? Non credo.
- Ma lui ti ha sparato contro due volte, chi non sarebbe scappato?
- Tu non saresti scappato.
- Mi sopravvaluti.
- Ma com’è finita quella sera? Io per tutto questo tempo ho creduto ti avesse ucciso.
- Uccidermi? ma figurati!
- Ma ti aveva messo al tappeto e per di più aveva anche recuperato la pistola!
- Capirai che impresa!
- Cioè, cosa vuoi dire?
- Voglio dire che io l’ho ucciso.
- Ma come? Gli hai sparato?
- E che sono matto? Se gli avessi sparato, ci avrebbe dato la caccia tutto il dormitorio.
- E allora?
- L’ho strangolato.
- Ma come hai fatto? Se ti stava addosso!
- Eh, ma hai dimenticato dove ho fatto il militare io?
L’avevo dimenticato.
- Nei paracadutisti, in Afghanistan.
- E che ci hai fatto col cadavere?
- L’ho infilato in un sacco, l’ho caricato in spalla e l’ho portato nel bosco, dove l’ho bruciato e la cenere l’ho gettata nel Kura.
- Per questo sei scappato il giorno dopo?
- Sì, per questo, Alexandru.
- E io che credevo ti avesse ucciso e avesse buttato il tuo cadavere in un pozzo perché non ti trovasse nessuno. Sappi che ho cercato il tuo cadavere in tutti i pozzi della zona, ma anche in tutti i bidoni dell’immondizia del campus, e a un certo punto la gente ha iniziato a guardarmi storto.
- E la milizia non è venuta a cercare il tizio?
- Non è venuto nessuno.
- E nemmeno i suoi conoscenti l’hanno cercato?
- No.
- Ma quelli da cui stava nel dormitorio?
- Non sono venuti nemmeno loro. O forse ci sono stati la notte in cui io non sono rimasto in camera e tu sei fuggito, poi magari avranno pensato che Ghevorg era già partito per il fronte e combatteva in guerra. Ma tu dove sei scappato allora?
- A Bender.
- Ma a Bender si combatteva, no?
- Proprio per questo sono andato a Bender, perché lì c’era la guerra e io volevo solo cancellare le mie orme. Chi mi avrebbe cercato in guerra? Ma ho combattuto fino a quando non è finita e, ovviamente, con i moldavi.
Abbiamo ordinato un’altra bottiglia di vodka e altri due pacchetti di noccioline e mentre gli riempivo il bicchiere, ho pensato che in quella sera di maggio del 1992 sarebbe stato impossibile uscire tutti e tre vivi dalla camera di quel dormitorio a Tbilisi. Che fosse lui o fossimo noi, qualcuno doveva morire. È morto lui, che andava a combattere con i russi e gli abcasi, mentre noi siamo rimasti vivi. Ma sarebbe potuto accadere tranquillamente il contrario.
Il rapimento di un mio collega di Europa Libera
Un ragazzo minuto e uno più alto procedevano sui due lati di strada Maria Cebotari, il bassetto sul marciapiede di sinistra, lo spilungone sul marciapiede di destra, ed entrambi seguivano l’uomo robusto di fronte a loro, che avanzava tenendo un ragazzino per mano. I pedinatori si sono fermati quando anche l’uomo vigoroso si è fermato a guardare il parco giochi oltre la recinzione, dove un altro ragazzino era caduto sbattendo un omero e aveva iniziato a singhiozzare. Emil lo guardava con compassione. Nel frattempo i suoi pedinatori avevano abbassato lo sguardo, fingendo di studiare la punta delle loro scarpe.
All’incontro dei veterani della guerra russo-moldava del 1992, che non era finita da molto, Emil aveva avuto alcuni interventi incendiari, con suo figlio sulle spalle. È stato intervistato da radio e televisione, nonostante fosse lui stesso un giornalista di Radio Europa Libera, dove lavoravo anch’io in quel periodo. Voglio dire, eravamo colleghi e l’ho intervistato anch’io, perché Emil, tra le altre cose, era stato anche soldato e aveva combattuto a Tighina e sull’altopiano di Coșnița dal primo e fino all’ultimo giorno di guerra.
Gli correvo dietro per avvisarlo che lo stavano pedinando, facendogli dei cenni con le mani. Con Emil eravamo amici già dai tempi di Flutura. Ci siamo diplomati alla stessa scuola e abbiamo frequentato la stessa università. Abbiamo giocato anche a calcio nella stessa squadra, allenata da Pavel Pavlovici Nicolau.
Ho alzato le braccia e le ho agitate in aria, quando ho notato di avere anch’io uno spilungone alle costole. Era proprio alle mie spalle e mi guardava minaccioso, pronto a tapparmi la bocca immediatamente se avessi iniziato a gridare.
Emil procedeva su Maria Cebotari, tenendo suo figlio per mano, con i pedinatori dietro.
Non avevo mai assistito a un pedinamento ed ero curioso di scoprire come si sarebbe svolto tutto il processo, ma soprattutto mi preoccupava che Emil non avesse idea di cosa avessero in serbo per lui quei due. In realtà, quei tre, perché quello che mi stava col fiato sul collo, di fatto, seguiva comunque lui.
Squillò il telefono dello spilungone. Camminava con il telefono all’orecchio e gli occhi puntati sul mio collega dell’Europa Libera, che all’epoca di Coșnița aveva dato prova di un coraggio folle, salvando la vita a diversi dei suoi compagni. Credo ricevesse istruzioni. La mia domanda era da chi e cosa gli comunicassero, e se avessi saputo questo, avrei saputo anche perché quei tre lo stavano seguendo e soprattutto per chi lavoravano.
Il veterano della guerra russo-moldava del 1992 svoltò su strada Șciusev, tenendo sempre per mano il figlioletto Vasile. Svoltarono anche i suoi pedinatori, sgusciando dai due marciapiedi opposti su quello dietro di lui. Uno più avanti e l’altro più dietro. Mentre il terzo stava alle calcagna del sottoscritto. Ad ogni modo, io mi sono fatto coraggio e ho gridato il nome di Emil, ma lo spilungone alle mie spalle mi ha tappato la bocca a metà della parola e si è sentito solo un Em, e quell’Em non ha raggiunto il mio collega di redazione. Che spinse delicatamente dalle spalle suo figlio verso lo scivolo del parchetto, dove un uomo con gli occhiali da sole teneva per mano la madre del piccolo Vasile e dove Emil stava per entrare. Mentre il bambino si arrampicava in cima allo scivolo e si lasciava scivolare giù, dalle due automobili con targhe transnistriane saltarono fuori altri tre bestioni e tutti e cinque infilarono Emil nel portabagagli della prima automobile, poi entrambi i veicoli partirono sgommando.
Quando Vasile scoprì che suo padre era sparito, scoppiò in singhiozzi.
Ho fermato un taxi e l’ho pregato di seguire le automobili con le targhe della Transnistria.
- Andiamo dove vanno loro, ho detto al tassista e così abbiamo raggiunto la frontiera transnistriana che quelle due automobili hanno attraversato rombando, senza che nessuno le fermasse. Solo allora ho capito chiaramente che i miliziani o i securisti transnistriani avevano rapito Emil. Non ho osato proseguire. Me ne stavo con la faccia incollata al parabrezza e guardavo le due auto avvicinarsi a Bender, con il veterano della guerra russo-moldava del 1992 a bordo di una delle due.
Siamo tornati indietro.
- Dove la porto? mi ha domandato il tassista quando siamo entrati a Chișinău.
- Al Parlamento della Repubblica, gli ho detto.
- Ok.
- Quanto le devo? ho domandato quando sono arrivato a destinazione.
- Tremila lei, mi ha detto mentre scendevo.
- Quanto?
- Tremila lei, ha ripetuto quello.
- Ma perché così tanto?
- Per me è anche poco, mi ha detto. Mi paga o devo chiamare i miei colleghi?
L’ho pagato. Per fortuna quel giorno la radio mi aveva pagato lo stipendio e avevo soldi. Non avevo fatto in tempo a spendere nulla. Se avessi comprato qualcosa, non avrei potuto pagare la corsa in taxi. Ho pagato e sono sceso.
Sono risalito verso la strada dov’era stato pedinato il veterano.
Vasile non era andato via. Il ragazzino continuava a salire e scendere dallo scivolo, mentre sua madre e l’uomo con gli occhiali da sole cercavano di convincerlo a tornare a casa. Lui non voleva. I miei superiori mi pregarono di non divulgare informazioni sul rapimento di Emil fino a quando non ne avessero parlato in esclusiva alla radio. Vasile sperava ancora che suo padre tornasse.
Il colonnello Pavel Feodorovici Zveri vide Emil camminare su strada Maria Cebotari tenendo il figlio per mano e si scoraggiò. Il problema era il bambino. Aveva pensato a tutto ma a quel bambino no. Non lo aveva assolutamente previsto. Che Emil partecipasse al meeting con il figlioletto di cinque anni per mano.
Il piccolino aveva mandato all’aria tutti i suoi pianti, perché non avrebbe voluto rapire anche lui. No, qualsiasi altra cosa, ma anche lui no.
Sembrava essere un ragazzino viziato, e i viziati sono terribilmente insopportabili, piangono tutto il giorno perché vogliono sempre qualcosa. E il colonnello non voleva che quella piccola peste piagnucolasse nelle sue orecchie per tutto il viaggio, ininterrottamente, versando lacrime di coccodrillo. Perché questo odiava più di tutto al mondo: vedere un bambino che piange. Questo dopo che sua moglie, che lui teneva per mano, era stata schiacciata dalle ruote di un bolide che correva per le strade di Tiraspol con la velocità di un aereo, e lui era stato costretto a tornare a casa da solo. Ebbene, da allora suo figlio non riusciva più a smettere di piangere. Singhiozzava incessantemente, giorno e notte, e niente era in grado di calmarlo. Naturalmente il colonnello aveva beccato il trafficante che guidava la Mercedes ubriaco marcio e l’aveva freddato nel bosco di Sucleia, senza processo. Ma questo non aveva consolato per niente il ragazzo, lui rivoleva indietro sua madre e non accettava l’idea che fosse sparita per sempre dalla sua vita. Per questo soffriva terribilmente. Per questo anche il colonnello non poteva più sopportare la vista di bambini che piangono, perché ripensava subito a Vladic e a quanto sentisse la mancanza di sua madre.
Quando vide cosa lo aspettava, decise di rapire Emil solo dopo che quello avesse consegnato il bambino alla madre. Per rapirlo aspettava il momento in cui l’uomo avrebbe sospinto il piccino verso lo scivolo. Dovevano acciuffarlo rapidamente, in modo che il bambino non si accorgesse di cosa succedeva e non cominciasse a piangere, e se doveva piangere, che fosse almeno lontano dalle orecchie del colonnello.
Quando il padre lo spinse verso lo scivolo e il bambino corse ad arrampicarvisi, gli hanno rapidamente bloccato le braccia dietro la schiena e l’hanno infilato nel portabagagli, scomparendo in un batter d’occhio dal campo visivo del bambino. Quando il piccolo toccò il suolo con i piedi e si alzò, semplicemente non capì dove fosse suo padre e cominciò a correre disperatamente ora qui, ora là, chiamandolo per nome sconsolato.
Quando scoppiò a piangere, il colonnello stava già uscendo dal centro della città e non lo sentì. Invece sentì Emil che si lamentava ma non gli importava niente della sua sofferenza. Gli era stato ordinato di metterlo nel portabagagli, e lui ce l’aveva messo. Fatto questo, non erano affari suoi come si sentiva quello dentro il portabagagli.
Da strada Kotovski svoltò su strada Dzerjinski e da lì su Suvorov, e su tutte queste strade non vide nessun bambino e ne fu felice. Solo di fronte alla loro sede centrale c’era un ragazzino che attraversava da solo la strada. Il ragazzino sorrideva e il colonnello girò la testa dall’altra parte e scese dall’auto, per tirare fuori Emil dal portabagagli e spingerlo all’interno del palazzo. Salendo le scale, Emil inciampò, cadde e si ruppe una mano.
Pavel Feodorovici Zveri non si lasciò impietosire dai gemiti di dolore di Emil e lo spinse dentro il palazzo. Da lì, lo strattonò lungo un corridoio tortuoso, e poi dentro l’ufficio del loro grande capo che, quando lo vide, rimproverò il colonnello per non aver offerto alcun soccorso a Emil e glielo offrì proprio lui, lì sul posto, bendandogli la mano e somministrandogli un calmante contro il dolore. Poi lo abbracciò come un vecchio amico, attento a non toccargli la mano ferita. Dopo di che montarono tutti sull’auto del colonnello, e portarono Emil in ospedale perché fosse visitato dal loro chirurgo migliore. I due presero posto sui sedili posteriori, domandandosi a vicenda delle loro mogli e soprattutto dei loro figli, ed Emil raccontò che Veronica aveva una relazione con il proprietario della caffetteria della stazione, dov’era cameriera, e che ora lui viveva da solo.
Dopo l’ospedale, il generale in persona si preoccupò di trovare un alloggio per Emil in una delle loro abitazioni più lussuose, nel centro storico di Tiraspol, mentre continuava a rimproverare al colonnello di averlo portato da lui dentro il portabagagli, dimenticando si trattasse proprio di un suo ordine.
Quando gli consegnarono le chiavi, il generale e il colonnello gli presentarono anche i colossi che sarebbero rimasti di guardia alla casa perché non fuggisse, ma su questo i due non aggiunsero altro. Il colonnello aspettò in strada fino a quando il generale non andò via.
Lui non sapeva perché il generale l’avesse rapito e cosa avesse in mente di farci con Emil, ma per lui era lo stesso. Ci facesse anche il brodo con quello, a lui non interessava.
Montò nella sua Mitsubishi arancione e partì in direzione dell’ipermercato Șerif, dove comprò per suo figlio tutti i tipi di cioccolata in vendita sugli scaffali e un sacco di giocattoli. Ma Vladic rifiutò tutto e si gettò a pancia in giù sul pavimento, chiedendogli una sola cosa: di riportargli sua madre. Lui sapeva fosse impossibile, ma lo stesso non valeva per suo figlio. Il ragazzo pensava che semplicemente suo padre non volesse farlo perché, se avesse voluto, avrebbe immediatamente riportato sua madre a casa e, per ammorbidirgli il cuore, cominciò di nuovo a singhiozzare. Il colonnello non riuscì a resistere e uscì in giardino. Accese la sua Mitsubishi e passò tutta la sera a guidare per la città, senza avere il coraggio di tornare a casa.
A cura e traduzione di Clara Mitola
(n. 7-8, luglio-agosto 2023, anno XIII)
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