E anche Dracula teneva il diario. Il romanzo di Marin Mincu

In occasione della presentazione al Salone del Libro di Parigi, il 18 marzo, della edizione in lingua francese del romanzo di Marin Mincu Il diario di Dracula (Xénia, Sion, CH), originariamente scritto da Mincu in italiano, pubblichiamo la prefazione di Anca-Domnica Ilea, traduttrice del volume, e alcuni frammenti del testo.

Nel suo preambolo al romanzo Il diario di Dracula, scritto dapprima in italiano e pubblicato in Italia nel 1992, salutato da Umberto Eco, riscritto poi în romeno e pubblicato in Romania nel 2004, Marin Mincu (da autore-narratore) fa questa riflessione: «Un nuovo romanzo su Dracula non potrebbe esistere se non a condizione della più assoluta fedeltà alla storia». L’itinerario del libro potrà far figura di smentita – a meno di ricordarci che, al pari della realtà stessa, la Storia è elastica: quella scienza meno di esatta, interpretazione per cui ogni avvenimento ben concreto assume diversi volti, secondo la soggettività del raccontatore e/oppure le prospettive/direttive ideologico-politiche delle varie epoche. «Curioso come ogni mito si vuol documentare…», ironizza Dracula nella versione romena.
La prodezza del romanzo di Mincu è di demolire il cliché del vampiro cui Bram Stoker coi suoi epigoni ridussero Vlad III, detto l’Impalatore, principe reggente in carne e ossa della Valacchia, e di edificare nello stesso tempo un nuovo «mito». Toccherà a lui di ricostituire un ritratto del voivoda – così come egli fu, e così come egli avrebbe voluto essere (il che, in questo caso, diventa lo stesso). Guerriero senza pari, da spaventare persino Maometto II, che il papa Pio II ambiva di nominare condottiero della sua fallita crociata. Erudito, l’amico e l’eguale dell’élite neoplatonica. Sorta di superuomo dall’ego smisurato, vittima e carnefice, che forgia la propria leggenda da «un pozzo» delle carceri di Visegrád in cui langue per colpa dei suoi sleali «amici» coronati. Povero diavolo, distrutto, adolescente, dall’erranza, dalla prigionia, dalle umiliazioni e dagli stupri, per ergersi poi (a rischio di scendere a patti con le tenebre) come raddrizzatore e vendicatore della sua stirpe avvilita, calpestata per tutta la sua storia. Viaggiatore, avventuriero attraverso mondi visibili e invisibili. Infine, ma non in ultimo luogo, uno scrittore, se non addirittura lo Scrittore, che redige «storie vere sulla base di altre storie immaginarie o viceversa», esposto «nello spazio della scrittura».
In un’epoca in cui la crudeltà era la regola (vedi il martirio che Iancu di Hunedoara, un altro «atleta della Cristianità», riservò al padre e al fratello maggiore di Dracula), la diabolizzazione orchestrata contro di lui è il colmo dell’ipocrisia, che egli non esiterà a denunciare e che avrebbe potuto benissimo suscitare nell’animo di quell’orgoglioso nietzschiano, che aborre la mediocrità, assetato di assoluto in ogni cosa, la reazione che Mincu gli attribuisce, quella di scatenare il fuoco per combattere il fuoco: «Ho deciso: aiuterò in questa infame campagna contro di me. Inventerò io stesso delle infamie, alimenterò il carico delle menzogne. Sarò io stesso l’ideatore delle più mostruose vicende che si racconteranno a mio riguardo». Gesto maldororiano, rafforzato da quel sogno in cui, al pari dell’eroe di Lautréamont, egli si vedrà mutato in un albero disseccato ma dalla virilità di proporzioni cosmiche.
Non si risparmia niente, verità e fantasmi alla rinfusa: «selve di pali», sospetti di cannibalismo, incesto, zoofilia, spergiuro, tradimento, blasfemia, misoginia mista a torture feticiste fino all’omicidio, patto col diavolo… Per proteggersi dalla decadenza e dalla pazzia che minacciano, nella sua solitudine, un detenuto tanto odiato quanto temuto e stimato, fa da pazzo: la scrittura è quasi sempre un tentativo di rivincita, talvolta vittorioso. Scrivere è inoltre un esorcismo a tutti i livelli, che permette di evacuare reali colpevolezze insieme alle fittizie, di ovviare ai timori e ai dolori inflitti mediante quegli autoinflitti, di riprendere il controllo invece di un remissivo patire.
Il pericolo di tale impresa (da parte di Mincu come di Dracula) era di cadere nel macabro e nella mitomania – orbene, la derisione, la parodia, l’umorismo (truculento, nero, asciutto, proprio adatto al contesto) non mancano, suggerendo che quella dolorosa, rabbrividente testimonianza si può anche leggere au second degré, «contropelo». Cominciando con lo stesso preambolo del presunto editore di un manoscritto rimasto nascosto: un pastiche «gotico» con le sue enormi coincidenze a catena; l’ultimissima nota a piè di pagina è la ciliegina sulla torta, mettendo in dubbio l’autenticità di detta scoperta, sottintendendo una ennesima messinscena.
«Far alla sciagura lieta figura» – la quintessenza dell’umorismo romeno, una bella maniera di rivendicare la sua origine! Citando la famosa ballata Miorița, Dracula cambia apposta quella dei tre pastori, adeguandola alla perfidia che lui stesso ebbe a subire da Stefano di Moldavia e da Mattia Corvino in modo da cavarne una conclusione più ampia sui rapporti incorreggibilmente nefasti, persino nel calderone della geenna, tra Valacchi, Moldavi e Transilvani, quei «fratelli nemici»!
Documenti d’epoca, dotte citazioni, strizzatine d’occhio storico-libresche (alcune in anticipo di qualche secolo: Zalmoxis, Erodoto, Omero, Decebalo, Platone, Ovidio, Cesare, Nerone, Faust, Ermete Trismegisto, Nicola Cusano, Marsilio Ficino, Dante, ma anche Peter Schlemihl, Frankenstein, e anche Stoker!), sono tutti contraddistinti da questo doppio taglio.
Perché dunque sarebbe vietato ai romeni stessi di creare il loro proprio mito draculiano? Tanto più che – ascoltiamo le parole di Matei Cazacu, finora il suo migliore e affidabile storico e storiografo – «nessuna fonte né medioevale né moderna designa Dracula come vampiro», e che «il supplizio del palo prova piuttosto il contrario!» (Dracula, Tallandier, Parigi 2004, 2011).


Marin Mincu (1944-2009), dottore in lettere dell’Università di Bucarest, insegnò come lettore alle Facoltà di lettere e di filosofia delle Università di Torino (dove si laureò in semiologia nel 1978) e di Milano, poi, come professore incaricato, a quella di Firenze. Autore di volumi di critica e di romanzi pubblicati in Romania e in Italia (i più notevoli in doppia versione), di poesia (alcuni versi tradotti in italiano, serbo, tedesco e francese), di prefazioni, collaborò a tutte le riviste letterarie romene, a parecchie riviste italiane; traduttore di critica italiana, presidente del Museo della Letteratura Romena, membro dell’Unione degli Scrittori, poi dell’ASPRO, membro fondatore, rettore poi decano dell’Università Ovidius di Constanţa, creò inoltre la rivista Paradigma e le edizioni Pontica, e anche un premio di letteratura che oggi porta il suo nome.
Premi ricevuti: Premio dell’Unione degli Scrittori 2000; Premio internazionale Eugenio Montale (Roma 1989); Premio Carlo Betocchi 1993; Premio Herder (Vienna 1996); Premio nazionale Narrativa (Bergamo 1998, per Il diario di Ovidio), e nominazione (col Diario di Dracula) per il Premio di Bergamo 1993 e il Premio Giuseppe Acerbi 2005, così come (con Ovidio) per il Premio dell’Unione Latina (Roma 1998).
Opere: Poesia romena d’avanguardia (con Marco Cugno, Feltrinelli 1980); Ion Barbu. Eseu despre textualizarea poetică (Cartea Românească 1981; Minerva 2000); Avangarda literară românească (Minerva 1983, 1999; Pontica 2006); Intermezzo (romanzo, Albatros 1984; Gramar 2000; Polirom 2007); Pradă realului (poesia, Cartea Românească 1985); Nuovi poeti romeni (con Marco Cugno, Vallecchi 1986); Despre fragilitatea vieţii (poesia, Eminescu 1987); Poeți italieni din secolul XX (antologia commentata, Cartea Românească 1988); Fiabe romene di magia (Tascabili Bompiani 1989); Intermezzo II (Cartea Românească 1989); Mihai Eminescu e il romanticismo europeo (con Sauro Albisani, Bulzoni 1990); Il diario di Dracula (romanzo, Bompiani 1992); Il diario di Ovidio (romanzo, Bompiani 1997); Intermezzo IV (Pontica 1997); Paradigma eminesciană (Pontica 2000); Intermezzo III (Albatros 2002); Drehung (poesia tradotta in tedesco da Christian W. Schenk, Dionysos-Verlag 2002); Jurnalul lui Dracula (romanzo riscritto in romeno, Polirom 2004, tradotto in portoghese del Brasile da Talita Tibola, Autêntica Editora 2015, e in francese da Dominique Ilea, Xenia, Svizzera 2018); Moartea la Tomis. Jurnalul lui Ovidiu (romanzo riscritto in romeno, Polirom 2005).


Anca-Domnica Ilea

Frammenti da Il diario di Dracula

Dilemma

Sono diventato una curiosità, una pubblica attrazione. Mattia si vanta ovunque di me, di avermi imprigionato e sottratto ai miei compiti di guerra. Principi e artisti vengono a godersi lo spettacolo della mia prigionia, e tutti mi guardano con ansia, con la deferenza che si ha per le cose e le persone che incutono il rispetto del terrore. E se fossi davvero questo? Ma io mi sento un falso, che disattende le aspettative dei suoi visitatori. Capisco che si tratta di una doppia trappola: da un lato essi non sono convinti della mia esistenza reale; dall’altro si rassegnano alla mia evidenza per la statura terrificante che i miei testi hanno contribuito a formare. Che devo fare? Uscire dall’anonimato con una fuga, o seppellirmi definitivamente nelle mie storie? Nel primo caso c’è il rischio di non essere più riconosciuto: tanto i miei amici quanto i miei nemici potrebbero sostenere che non sono io. Stigmatizzato come traditore dalla lettera trasmessa a papa Piccolomini, non vorranno legittimarmi nella mia reale persona. Dopo quella lettera, tutto ciò che accade è automaticamente ascritto alla leggenda, passa nell’anonimato.
E se fossi un pazzo che si spaccia per Dracula, che si vuole Dracula? In questo caso non resta che seguire la traccia della scrittura. Le storie della mia violenza circolano nel mondo a gran velocità. Per potermi manifestare come soggetto vivo dovrei acuire l’elemento di violenza delle storie. A nessuno interessa la realtà letterale delle cose. Tutti chiedono una realtà fittizia, che soddisfi le loro ossessioni, bloccate nell’intimo per ragioni di nobile convenzione. E nella finzione non posso esistere «realmente» se non rispettando il divieto imposto. Ma via via che scrivo capisco che mi sto inventando un’identità che non è più mia. Mi sono costruito un mio doppio, che ormai decide per me e mi detta le regole del gioco. La mia esistenza si sposta, sempre più definitivamente, nello spazio della scrittura.

***

Incesto

Io, Dracula, non ho soltanto ucciso. Io sono stato ucciso, in quanto sono stato scritto. Ho scritto. Ho ucciso. La mia autopunizione attraverso il diario porta alla prescrizione della mia colpa. Io mi pre-scrivo il mio stesso castigo. Mi impalo nella mia scrittura. Scrivo nella lingua di Dracula tutto quello che ho fatto. Ho voluto eiaculare nel ventre di mia madre e poi farlo a pezzi per strappare di dentro il seme e punire il suo peccato di adulterio. È possibile scrivere letteralmente la realtà? E io ho fatto ciò che ho scritto oppure ho scritto ciò che ho fatto? Davvero mia madre mi ha tradito – tradendo mio padre, con me –, oppure io l’ho messa incinta e l’ho uccisa? Ho impalato la vergine o la «lettera»? Che cosa ho fatto? Ciò che ho scritto! Quel che ho scritto ho scritto, e quel che ho fatto ho fatto. Io, Dracula, ho ucciso. Egli, Dracula, ha scritto. Quale dei due è morto, e quale scrive?

***

Il riccio e l'ape

A Roma mi divertii a raccontare a Cusano, che era molto malato, un mito della creazione dal quale risulta che Dio non è proprio onnipotente e onnisciente, e deve chiedere l’aiuto del riccio per completare l’opera della creazione. È curiosa, questa visione della Genesi che sa di paganesimo, e che corrisponde alla concezione della gente del villaggio in cui per qualche tempo soggiornai.
Il mito dice: «In principio, quando Dio creò il mondo, fece prima il cielo e poi la terra. Tuttavia quando fece la terra ebbe il riccio come aiutante. Dio infatti, avendo stabilito la distanza tra il cielo e la terra tramite un gomitolo di filo, affidò il gomitolo al riccio. E il riccio, astuto, che voleva indurre Dio in errore, mentre lo vedeva tutto preso dalla sua creazione svolse pian piano il filo del gomitolo; così, solamente alla fine, Dio si accorse che la terra era venuta più grande del cielo, perché il riccio gli aveva alterato la misura. Il riccio intanto era fuggito e si era nascosto nell’erba. Dio, dopo aver pensato e ripensato inutilmente a un rimedio per fare in modo che la terra non fosse più grande del cielo, mandò l’ape dal riccio per chiedergli la soluzione. Il riccio tuttavia si rifiutò di svelarla. L’ape allora, anch’essa astuta, finse di andarsene e invece si nascose in un fiore. Il riccio, credendosi solo, disse fra sé: “Ma come? Che razza di Dio è questo che non sa neppure costruire una cosa semplice come la terra? E sì che basta così poco: un po’ di terra, da stringere fra le mani facendo venir fuori tutti i monti, le valli, le colline...”. L’ape allora uscì dal suo nascondiglio e prese a volare tra i fiori, e il riccio, che comprese di essersi tradito e di essere stato ingannato, le gridò: “Ehi tu, ladra! Potesse colui che ti ha mandata mangiare di te ciò che non si può mangiare!”».
È evidente che il riccio, furioso, bestemmia contro Dio («colui che ti ha mandata»), augurandogli di mangiare la merda dell’ape. Ma se intendiamo invece che la merda dell’ape sia il miele, allora non si tratta più di una bestemmia, bensì di un rimprovero ironico, quasi carezzevole. Ed è probabile che Dio, udendo l’imprecazione del riccio, ne abbia sorriso, e che alla fine della creazione abbia davvero mangiato «la merda dell’ape». Anche Cusano si divertì e mi disse che avrebbe raccontato questa storia ai «commissari» papali, invitandoli alla fine a mangiare anch’essi «ciò che non si può mangiare»... Gli ho consigliato di stare attento, che la cosa poteva diventare pericolosa. In quel caso infatti, se erano «i commissari» a far la parte dell’ape, era il Papa «colui che li aveva mandati», ed era il papa dunque che avrebbe dovuto mangiare «ciò che non si può mangiare» dei suoi commissari. Ci siamo persi in questa discussione poco seria senza alla fine decidere chi dovevano essere i mangiatori di merda. In ogni modo, Cusano rimase molto impressionato dall’argomento di fondo della storia diretto contro i teologi sostenitori dell’onnipotenza divina. «Se fosse pubblicata da qualche parte – disse – la citerei». Ecco, di nuovo, un inciampo nella maledetta oralità della cultura valacca. Ma chissà che prima o poi, nel futuro, ciò non divenga un pregio.


(Selezione di testi a cura di Anca-Domnica Ilea)
(marzo 2018, anno VIII)