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I libri di Umberto Eco nelle case dei romeni
Alla scomparsa del nostro straordinario contemporaneo mi domando, forse come tanti altri, in che misura i suoi stimolanti scritti sono entrati nelle case dei miei concittadini. Non pochi volumi e interventi pubblici dei nostri linguisti, semiologi, teorici delle arti o della comunicazione fanno evidente il fatto che i loro autori hanno seguito sin dall’inizio le pagine speculative e saggistiche di Umberto Eco, in originale o in altre lingue straniere. In romeno solo ultimamente il ritmo delle traduzioni si è intensificato. Se prima della caduta del regime comunista se ne sono tradotti pochi volumi teorici (tra cui l’Opera aperta e il Trattato di semiotica generale), dopo, il loro numero è sensibilmente aumentato anche grazie alle case editrici spuntate negli ultimi 25 anni, ad onta delle lamentele sulla fine dell’Epoca Guttenberg. Eco stesso aveva osservato anni fa che, paradossalmente, il numero e le dimensioni delle librerie erano in continuo aumento. Oltre alle ristampe, sul mercato librario romeno, ci sono ora molti altri titoli che illustrano l’impressionante cultura, l’acutezza e la capacità di dedicarsi a svariati campi del pensatore piemontese, quali Cinci scrieri morale, Arta și frumosul în estetica medievală, Jurnal sumar. În căutarea limbii perfecte, A spune cam același lucru: experiența de traducere, Interpretare și suprainterpretare, Pliculețul Minervei, Vertigo. Lista infinită, De la arbore la labirint, Apocaliptici și integrați, În ce cred cei ce nu cred, Confesiunile unui tânăr romancier, Cum ne construim dușmanul și alte scrieri ocazionale oppure la propedeutica Cum se face o teză de licență accanto a volumi a cura o con la partecipazione di Umberto Eco: Istoria frumosului, Istoria urâtului, ecc. Inoltre, negli ultimi anni, si è accorciata la distanza tra la data dell’apparizione della versione romena rispetto all’originale. È anche il caso di Pendulul lui Foucault, Insula din ziua de ieri, ecc.
La grande sorpresa nel seguire la parabola dei libri di Umberto Eco in Romania è la pubblicazione del suo primo romanzo, che lo ha reso famoso al di là della cerchia elitaria degli addetti ai lavori. Nel 1984, quando l’autolesionista autarchia culturale pesava come solo chi l’ha subita sa quanto condizionava le esistenze, la traduzione di Il nome della rosa pare un miracolo. Per fortuna ci sono stati momenti astrali quando si potevano sfruttare le incrinature del sistema. A quanto si sa, il merito di aver proposto e fatto benissimo la traduzione spetta a Florin Chirițescu. Per ragioni puramente amministrative essa non è apparsa presso la casa editrice Univers, Bucarest, dove egli era redattore, ma alla Dacia di Cluj-Napoca. Le ristampe della Polirom di Iași e della Hyperion di Chișinău continuano a riscuotere successo.
Le nuove edizioni hanno correttamente ripreso la Postfazione, dove Florin Chirițescu fa la doverosa confessione che non avrebbe potuto fare la traslazione nella sua lingua materna senza il dotto contributo della classicista Stella Petecel, la quale non solo ha tradotto passi in latino, ma gli aveva chiarito parti erudite, oscure per lui, come per tanti altri. La Postfazione elenca quindi le categorie di scelte fatte nel trasporre il contenuto del libro in romeno nel rispetto della semantica, a scanso di forzature, ma anche per assicurare la fluidità della lettura. Tali spiegazioni mettono nel contempo in luce peculiarità della scrittura echiana e attirano l’attenzione su aspetti che potrebbero sfuggire al lettore. I versetti, per esempio, sono stati conservati in latino: la loro traduzione li avrebbe privati di giustificazione in quanto le loro lettere iniziali, come si sa, danno la chiave di lettura della mappa di orientamento nel labirinto della celebre biblioteca. Scelte puntuali avevano imposto anche i versi nel tedesco medievale e ciò che in traduttologia viene chiamato realia. Il termine manca nella Postfazione, ma di essi vi si parla con competenza.
La densità degli elementi di raffinata, rara erudizione, da una parte, il desiderio di non interrompere l’azione, dall’altra, hanno imposto l’esclusione delle note esplicative che avrebbero soffocato il testo, col loro numero e proporzioni.
Da sperimentato traduttore, Florin Chirițescu ha scartato consapevolmente anche il pericolo di usare termini foneticamente (non solo etimologicamente e semanticamente) simili ai loro corrispondenti italiani, allor quando le date della loro entrata in uso li collocano nelle loro lingue in registri diversi. In fine, come Eco, anche egli ha preferito la lingua standard attuale, rifuggendo arcaismi e autoctonismi.
Interessante è anche la precisazione che, non diversamente dall’autore italiano, ma nello spirito della propria lingua materna, egli ha reso i nomi propri.
Tali spiegazioni, di indubbia utilità, danno maggior risalto ai meriti di Eco di quanto facciano le frasi assertive, secondo cui l’affascinante romanzo sarebbe ameno, ludico, storico, sociale, politico, di attualità, insomma, totale. Nel riprendere nel 1984 le etichette che avevano accompagnato dalla sua apparizione nel 1980 il libro, la Postfazione aggiunge le posizioni dei vari lector in fabula di quegli anni.
Un secondo peritesto di Numele trandafirului, l’edizione Polirom, è a portata di mano dei lettori romeni: Eco-ul dintre William Ockham și Sherlocck Holmes di Horia-Roman Patapievici. Nella passeggiata da lector sul filo diegetico che serpeggia nel monastero, è Umberto Eco stesso che fa da cicerone. Come sempre, il saggista romeno parte con metodo dalla più sicura fonte documentaria, nel caso specifico, da altri scritti echiani espositivi (come Marginali e glosse al Nome della rosa) e finzionali. Lo comprova tutta la sua dimostrazione, non solo le pagine raggruppate sotto i titoli, rispettivamente, Masca e Lector in fabula. Sulla scia del mosaico ricavato dalle idee dell’autore italiano, Patapievici si prende la libertà, spiccatamente retorica, di iniziare con giudizi non proprio lusinghevoli: la trama poliziesca del romanzo sarebbe piuttosto inabile e gli stucchi dei recitativi medievali puramente decorativi. Sotto la stessa guida egli dimostra che al centro del libro non sta la vicenda, la trama, bensì la tensione intellettuale, il dramma epistemologico dell’investigatore che, ad onta della sua acutezza, arriva a scoprire la verità per vie sbagliate. Di conseguenza, il labirinto monastico del giallo è la maschera del labirinto cognitivo. D’altronde Umberto Eco stesso aveva detto per primo che si tratta di un falso giallo e che la maschera medievale gli era servita per non cadere nella banale mediocrità di assumersi direttamente la paternità di quello che intendeva dire. La legge stessa della modernità impone oggi l’obbligo di affidare il proprio messaggio ad altri emittenti.
Conformemente alle pagine della Prefazione intitolate L’investigatore, il romanzo focalizza la situazione quotidiana, perenne, quindi anche moderna, non solo teologica, che spinge l’uomo insidiato dalla fallacità, a interrogarsi sulle vie da seguire nella vita. L’epistemologia di Guglielmo, il monaco investigatore trecentista, va riportata a William Ockham (alla cui biografia Eco ha attinto particolari per il suo protagonista) e al moderno Sherlock Holmes, il quale, però, per forza, non può più peccare di eccesso di fiducia nell’empirico.
Non mancano dunque i materiali in grado di orientare il lettore romeno comune, ma anche il lettore ideale, del più letto romanzo echiano. Molto più ampio e complesso sarebbe invece il discorso sul ruolo stimolante delle opere scientifiche e saggistiche del rimpianto piemontese per i teorici romeni che hanno continuato e continuano a ritornare alla sua concezione.
Doina Condrea Derer
(n. 3, marzo 2016, anno VI)
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