Antologia Dino Terra. Dal romanzo «La Grazia»

Per gentile concessione della Fondazione Dino Terra proponiamo un brano da La Grazia (Garzanti 1941; Marsilio 2023).


Tempo fa la Signora X, donna ancora giovane, si imbarcò in una molteplice vita, di più uomini contemporaneamente. Fece talmente male a sé e a quegli uomini che a un certo punto vi furon degli spari. Accusata del disastro che per colpa sua era accaduto, pur dicendosi addolorata di quel guaio, rigettò nel modo più categorico la propria colpevolezza. Lei era «fatta così» diceva, e non potevano accusarla del suo carattere, cioè della sua costituzione ereditaria. Aggiungeva, ai più intimi, con molta franchezza, che proprio non le era stato possibile fare a meno di uno di quei suoi patiti. Ma se davvero quella duplicità era colpa, allora se ne accusassero i nervi, il suo animo bislacco, come a dire la disfunzione delle glandole a secrezione interna. E in un grido di logica e di buona ragione aggiunse: «Che colpa ne ho io di esser fatta male?».
Proprio così.
E appunto se la teoria delle glandole a secrezione interna ha avuto quell’enorme successo che ha avuto, gli è che scavalcando varie scienze la teoria endocrina ha fatto presa nella morale, e la morale la più comoda, tanto da occupare il trono di una novissima maestà redentrice. La ragione è semplice: la nova glandologia toglie tutte le noie della responsabilità. Il succo vuoi della tiroide o della pituitaria che sia, produce questo e quest’altro: tenacia, melanconia, allegrezza, ira, accidia, intelligenza, ecc. dipendono da quei certi umidori; è provato, è scienza esatta. E allora, dicono, visto che la dosatura degli ormoni fa il carattere dell’individuo, allora la responsabilità individuale diviene di molto ma di molto «irresponsabilizzata».
Deliziosa dottrina! Si scancella il tormentoso inferno, i peccati non si perpetrano più, ma anzi noi stessi siamo le vittime dei nostri peccati; la responsabilità diventa quanto mai relativa, il male cambia colore, diventa pietosa malattia, perché la colpa, tutta la colpa, sta nel sugo glandolare. Comodo cotesto sugo, comodo, gratuito e ampiamente lucrativo. A dirla alla spiccia non ci si crederebbe che abbia preso tanto potere da deformare il senso generale della moralità, ma in effetti la più gran parte della gente coltivata campa con questa piacevole reggenza. Tempo fa il gran Dottore di Vienna serviva da «paracolpa», accusandosi le coscienze profonde e sconosciute, prima c’erano stati molti altri pretesti, come il culto frenologico del Dottor Gall che nel secolo passato mandò in visibilio medici e signore, ed ora infine l’endocrinologia ha raccolto le diverse successioni. Sarebbe un eldorado pronto e libero a tutte le ore se non fosse, all’opposto, la distruzione pura e semplice dell’uomo come uomo. Poiché, è pur evidente, proseguendo la logica della Signora X, che se la coscienza non dipende più dalla nostra volontà ma è la risultante di combinazione chimica, far bene o male non sono più azioni belle o brutte, e allora tutto è lecito. Addio ammirazione per Socrate, bando agli sdegni per lo schifoso Monsieur Landru; ognuno è quale il Destino (leggi: glandole) l’ha fatto.
Ma per quanto comoda riesca la nuova dottrina, (pur senza criticare la fragilità della tesi, facilmente arrovesciabile: la quantità d’ormoni potrebbe risultare dall’energia dello spirito), non dobbiamo crederci per la stima del personaggio umano. Quanto cani si possa essere, e cugini ai peggiori sudici cagnacci lo siamo di certo, tuttavia non siamo soltanto dei cani.
Al solito ci si ritrova sempre al vetusto e barbosissimo, inquietante problema dell’umana libertà. Né pare possibile possa trovarsi una qualche scappatoia. O la società è la cattedrale costruita dall’aspra volontà umana, o si tratta di termitaio all’ingrosso. Nell’un caso abbiamo nobiltà, paradiso e rischio incessante, nell’altro mera fisiologia, innocenza animale, mai colpa.
È difficile, sì, stabilire senza lotta una delle due disparatissime ragioni. Tuttavia non dovrebb’esser punto difficile (in teoria) vivere in un qualche modo conseguente. E invece troppi, quasi tutti, cercano stupidamente di conciliar gli opposti: liberi ma irresponsabili.
Se Prosdocimo crede alla libertà del suo arbitrio, dovrebbe stare infinitamente più attento ai suoi atti, o inversamente, asservito all’innocente determinismo, dovrebbe lasciarsi portare con molta più libertà dall’istinto. Ma quel pretendere di salvar capra e cavoli, è viltà quanto mai nociva, collusione per campare comodamente, al prezzo della rinunzia al rango d’uomini. Con tutto ciò giammai ci arrischieremo a condannare i troppi Prosdocimi, né tanto meno le troppe signore X della nostra singolare società; possiamo rimproverarli, sì, compiangere o disprezzare, ma non di più, conoscendo fin troppo bene la frattura irrimediabile che separa la buona ragione dalla pratica, la pericolosissima pratica.
Ma anche se la più gran parte di noi campa da ciechi e da sordi, di continuo incespicando e sbagliando, sciaguratamente ignari della grazia, tanto tanto più riesce commovente, quando c’è, l’oscuro e infantile anelito a un ordine, a un rigoroso ordine, che è speranza e salvazione.
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Gli argomenti qui accennati, e in particolar modo il problema della responsabilità dei nostri atti, hanno sospinto l’autore a scrivere il romanzo che ora segue.



Dal romanzo La Grazia di Dino Terra (Marsilio, 2023)

Per gentile concessione della Fondazione Dino Terra


(n. 6, giugno 2024, anno XIV)