Antologia Dino Terra. Dal romanzo «Fuori tempo»

Per l’Antologia Dino Terra proponiamo un brano dal romanzo Fuori tempo, pubblicato nel 1938 dall’editore Fratelli Parenti e riedito nel 2021 da Marsilio con l’introduzione di Gandolfo Cascio.

«Scusatelo con questo: che s’ingegna
Con questi van pensieri
Fare il suo tristo tempo più soave...»
Machiavelli

 


NOTA

Dalle origini del romanzo a oggi son caterva i manoscritti pervenuti accidentalmente nelle mani dei loro editori; v’è tutta una serie di storie ripescate nel mare entro bottiglie sigillate, ci sono i racconti scoperti in vecchi mobili a cassetti segreti, poi quelli dimenticati negli scompartimenti ferroviari e quelli rinvenuti fra le robe del morto, quegli altri spediti anonimi in plichi recapitati per errore, e via di seguito, da formarci un grazioso catalogo. Cosicché rientrava nel calcolo delle probabilità che nella mia professione di scrittore m’arrivasse, almeno una volta, quel benedetto plico da pubblicare senza troppa fatica. Dirò di più: l’aspettavo da anni. E la fede, per quanto sia, vien sempre rimunerata. Difatti un bel giorno di fine dicembre 1937 l’ho avuto anche io il romanzo per caso, precisamente questo «Fuori Tempo» che ora si pubblica.
Lo trovai di pieno giorno, banalmente, in un grosso caffè di Parigi, e precisamente, prendendo posto sul divano di velluto rosso mi ci sedei sopra. Era un quaderno da scuola, di quelli con la copertina in pegamoide nera. Nessuno lo reclamava, benché lo avessi messo sul tavolo, e allora dopo aver bevuto il mio cognac lo aprii «facendo un’aria distratta». Neppure avessi incontrato una persona amatissima, a vederlo scritto in italiano, prima ancora di capire di che si trattasse, mi era venuta calda simpatia per l’anonimo scrittore.
Rimasi in quel caffè molto più del solito, tanto che per non sfigurare col cameriere, dovetti trangugiare non so più quante bevande, e però quando venni via il quaderno me lo tenevo sottobraccio. Ma se qualcuno m’avesse scoperto e sputtanato mentre uscivo? Meglio non pensarci; comunque mi sembrava di non rubar nulla, il destino me lo aveva messo a portata di mano ed io gli ubbidivo: una voce mi aveva soffiato che quella storia era per me.

*

Il quaderno di mm. 239×191, consta di 68 fogli a quadretti non numerati. Le pagine contengono dalle 31 alle 35 righe. La scrittura è minuta, quasi dritta, abbastanza chiara. Benché la stessa mano abbia cambiato tre volte qualità di penna e d’inchiostro, la calligrafia rimane costante. Soltanto le ultime sei carte scritte a matita, hanno le lettere più grandi. Moltissime sono le cancellature, qualche volta d’intere pagine, e spesso la collezione si apre la strada faticosamente fra rigo e rigo.
È da notare che la storia comincia solo dalla nona carta, prima vi sono disparatissime annotazioni di nessun interesse letterario, alcuni disegni e più scarabocchi. Anche nel corso del racconto vi sono intercalati degli appunti che nulla ci hanno a che vedere, e lo rendono un laberinto. Sovente non si tratta che di conti meschini come ad es. latte lire 1,55; pane 2,60, sigarette L. 5, ecc. Setacciare il testo dalle note estranee al romanzo è stata l’unica fatica dell’editore, mentre al rimanente, compresa la punteggiatura, nessuna modifica è stata apportata.
Infine si avverte che l’indicazione: romanzo, manca nel testo, senonché nell’opinione degli editori il genere è chiaramente implicito dell’operetta. E benché questo romanzo, oggi con la voga dei romanzoni di migliaia di pagine (eleganti soprammobili) sia fuor di moda, ciò non dispiace in quanto reagire agli andazzi è stato sempre un segno d’onore.
A titolo di curiosità si riportano alcune scritte a stampatello messe alla fine del quaderno a mo’ d’invocazione, tre disegni e un elenco di nomi ripetuti qua e là, benché nessun rapporto presentino con la storia.
Ecco i nomi: Monsignor Pindemonte, Ceto, signor Ceto, Peppino, Tirreno, Agrippa, Cloro (ripetuto ben ventidue volte), Michelina, Lolita, Dottor Anastasi.

Ecco le epigrafi, da sagrestia:

IN TE DOMINE, SPERAVI,
NON CONFUNDAR IN AETERNUM
IN JUSTITIA TUA LIBERA ME.

*
AVE, REGINA COELORUM,
AVE, DOMINA ANGELORUM
SALVE, RADIX, SALVE, PORTA,
EX QUA MUNDO LUX EST ORTA.
GAUDE, VIRGO GLORIOSA
SUPER OMNES SPECIOSA;
ET PRO NOBIS CHRISTUS EXORA.

*
IN MANUS TUAS DOMINE, COMMENDO SPIRITUM MEUM.


*

C’è il caso che l’autore venendo a conoscenza della pubblicazione si faccia vivo. Intervento di cui gli editori sarebbero i primi a rallegrarsi, senonché, per via di quel cadavere gettato nel fiume, è difficile che si palesi.
Tutti i giornali han parlato del giovanetto rinvenuto sul greto della Magliana, e la polizia ricerca sempre gli autori del mostruoso delitto; per quante ragioni e discriminanti possa tirar fuori l’amico Riccardo, sarebbero sempre grandi noie, e col pericolo del peggio.

D.T.

I

Come nacque l’invidia dell’arcangelo troppo bello? Se nella sua libertà (e non rimangono altri cammini) traendo oltre i limiti si immerse nell’orgoglio più solfureo, ahi troppo, troppo infido fu l’abbagliante dono. Far guidare un’automobile a un ragazzo inesperto è grave azzardo, e in caso di sciagura chi permise la brutta esperienza rimane con una responsabilità ben più pesante di quella del conduttore. Senonché dubitiamo che la libera disposizione dell’Atto sia stata cosa talmente semplice: genere fattoressa che apre il pollaio affinché le galline vadano a razzolare pei campi «liberamente» (e perciò ingrassino).
Di qualunque sorta siano state le specie di nutrimento della nostra vaga esperienza per l’aiuole della terra, il Creatore non poteva, no, decisamente proprio non poteva, dimenticare per lo meno il pericolo delle faine; salvo che codeste rapaci bestiole non sopraggiungano alla strage, guidate da una luce che rimane tenebra ai nostri occhi. Ecco appunto dove miravo, al serpente che s’addenta la coda: il ponte contro la soluzione di continuità. Capite? Questo serpente unisce gli estremi, potremmo dire: la corsa del bellissimo circolo riconduce andando; cioè la nostra disposizione d’arbitrio (dono talmente pericoloso) sarebbe una necessità attentamente regolata, un sistema ferroviario in cui i binari fanno da destino e noi siamo le carrozze... – o le motrici – che ci corrono. Insomma, mi preme stabilire la mia relativa innocenza negli avvenimenti da cui esco a malapena. Se quella sera persi il treno non credo fosse per colpa mia, ormai dovevano avermi stretto nella corda impeciata, quella corda che di lì a poche ore, dopo avermi condotto qua e là, mi avrebbe buttato giù dai confini, nella frana dei sensi, vicino all’altro Signore.
Ora l’avventura è trascorsa, scappando senza vergogna mi son potuto rifugiare fra gente ignara, la catastrofe come un’onda mi ha ruzzolato sulla spiaggia, fuori da quelle acque maledette, e così adesso gradatamente cerco di ripigliar fiato; ma non è facile, soprattutto perché non so ancora se ne sia fuori davvero... Ecco, sarebbe inutile nasconderlo, Vario non è morto, e che ne so io se adesso voltandomi non me la trovi accanto?
Non c’è, per fortuna.
Del resto chi è Vario, paragonato ai suoi amici?
Ma perché dovrebbero aver bisogno proprio di me, chi sono io se non un uomo qualunque d’appena ventisei anni?
Se non sono uno stupido, ho pure sufficiente comprendonio per sapere che non sono un genio, né ho specialità che potrebbero attrarli particolarmente; a rigor di logica dovrei
averli serviti per puro caso... salvo che almeno ci sia codesta benedetta causalità! In ogni modo non chiedo altro che d’esser lasciato in pace; m’accontento di fare una vita mediocre, anzi lisa e umile, pur di non fare il marinaio di Vario nelle sue esplorazioni peccaminose. La esperienza l’ho avuta, abbondantissima, adesso mi occorre un lungo riposo.
Magari! Ma come, come afferrare la tranquillità se non dimentico gli amici di Vario, e Vario medesimo e l’ineffabile Oreste? come ritrovare la quiete di prima fra le macerie di
ogni orizzonte? Ah, proprio non so come rimediare a me stesso malconcio dalle negre avventure per uno stupido treno che se ne è andato giusto mentre giungevo nella stazione.
Eppure quanta gente c’è che ha perso il treno senz’altra conseguenza che la noia per un ritardo di qualche ora! Mentre io... Bene, è segno che lo spago impeciato già mi portava.
Non c’è niente di più comodo carminativo emolliente antiacido del fato; un sacco igienico per le immondizie dei nostri atti, meraviglioso setaccio della responsabilità.

 

III

Attraversato il ponte levatoio allungai il braccio per sentire la qualità della porta – era di ferro o di legno? – ma non vi riuscii; come stendevo la mano, il battente si ritrasse, aperto dall’interno, e da quell’antro nero due occhi fosforescenti mi guardavano.
Se non caddi nel fossato lo debbo all’animo che scivolò fino ai calcagni, lasciandomi vuoto e leggero come il guscio dell’uovo. Vana difesa. Gli occhi eran lì, mentre io restavo talmente trambustato da non connettere abbastanza per riuscire a muovermi.
Molti ad affacciarsi da un campanile provano le vertigini: sorta d’indigestione per la eccezionalità del nuovo modo di essere: in bilico su un mondo verticale. Perché v’è di sicuro una stretta parentela tra la vertigine e la nausea del troppo mangiare; qualcosa che non va, che non si sopporta, e appunto il vomito ne è il sussulto, per cercare la liberazione. A un tratto dalla pacifica passeggiata (orizzontale), quella porta aperta che mostrava un abisso, il precipizio in un altro mondo (di fantasmi)... ma era poi vero? Bisognava aggrapparsi al muro, supporre una puerile suggestione, rammentare la guardia in bicicletta, incontrata poco prima, e la brigata nottambula e la cara, carissima banalità delle cose... ma non erano che implorazioni della coscienza sospesa nel vuoto.
Finalmente quegli occhi parlarono (non vedevo altro):
«Sarebbe meglio entrasse», una voce ovattata e cautelosa che invitava remissiva. Com’ebbe detto, forse coll’intenzione del cicisbeo sventagliante la dama svenuta, un pipistrello venne a svolazzarmi sotto il naso; e infatti mi ripresi. Però l’urto del disghiaccio poco mancò non mi uccidesse come un palombaro troppo rapidamente tratto alla superficie: acerba impressione del sangue che schizzasse via dai pori.
D’altronde, se io ristavo di fuori, nell’interno mi danzavan le budella, manco fossero un cespo di serpenti arrabbiati.
A buon punto la voce tornò a soccorrermi: «Venga per favore... e non abbia paura. È una proposta da gentiluomini.
Si accomodi senza timore». Ebbene: con tutta la mia paura potei rispondere: «Sì, grazie». E per quanto sia vero che mi rinfrancava il tono bene educato, avrei risposto ugualmente anche se fosse stato minaccioso; gli è che avevo risolto la paura col rigor della logica, così: comunque, trattandosi di spiriti se non mi vogliono lasciar fuggire non ci posso far niente; quindi sarà meglio non volger loro le spalle; eppoi, tralasciando l’esperienza rarissima, tutt’al più si tratta di morire.
Con ciò non è da credere tenessi poco alla vita. Tutt’altro: era semplicemente la soluzione decorosa. Più che morire non si può. (Ma se poi si potesse, allora tanto meglio... segno che non si muore per sempre).
Direi d’essere stato abbastanza eroico avventurandomi nel vano e specie quando sentii richiudere la porta alle spalle.
Dirò di più: in quei momenti fui talmente eroico che discernendo un corpo agli occhi coi quali avevo parlato, temetti una delusione: che peccato fosse soltanto un guardiano ubriaco!
Non corsi questo pericolo; pure col corpo di carne ed ossa, l’avventura prometteva bene, bastava la mano ardente che mi stringeva la mano guidandomi, non immaginavo dove.
Eravamo in una sorta di straduccia chiusa da muraglie, eppure la fettina del cielo senza luna schiariva abbastanza da scompartire i contorni. Chiesi se c’era da far molta strada; la guida mi zittì raccomandando il silenzio se non volevo farmi imprigionare. Del resto eravamo quasi arrivati; aprì una porta, entrammo, richiuse cautamente. Adesso non distinguevo neppure un’ombra e fu proprio in quell’antro che la guida mi fece tastare una sedia aggiungendomi di sedere. Non gli ubbidii e accesi un cerino. Temevo peggio. Per quanto strano, pur si riconosceva un signore, e l’antro non era poi che una brutta stanzetta, un arsenale di ferracci; consumato il cerino, il personaggio che era inutile e pericoloso accenderne un altro.
– Come vuole. Ma gradirei sapere cosa aspettiamo adesso qui, e perché mi voleva.
Mentre per un verso ero stato rassicurato dall’ambiente, dall’altro mi dispiacque, e la contraddizione suonava anche nelle mie parole sforzatamente dure; ma rauche d’emozione.
L’incognito garbato mi spiegò:
– Egregio Signore, qui ora non si aspetta nessun altro; l’ho pregata di accomodarsi per farle convenevolmente le mie offerte. Ho bisogno di un assistente di fiducia. Le offro il posto. Si vuole ingaggiare?... – E visto che tardavo a rispondere aggiunse: – Allora, lo facciamo questo ingaggio?
Lo capivo benissimo, voleva farmi rimaner locco locco, magari con la bocca aperta. Poverino! Invece gli risposi tranquillo tranquillo come se m’avesse chiesto una sigaretta:
– La ringrazio dell’offerta; scusi, Lei è ufficiale di Marina?
– Ben altri mari navighiamo.
– Non ne dubito. Conosco anch’io il vascello dell’animo, o come dicevano i classici: «il vascello, nel procelloso mare della vita».
– Allora giovanotto? – Parlava come se gli facessi perdere del tempo prezioso.
– Allora che?
– Allora siamo intesi, accetta? È un posto di fiducia.
– Ma come vuol che acconsenta se non so di che cosa si tratta? Tutto ciò mi sembra la fiera delle stramberie.
– Le ho detto, se non erro, che ho bisogno di un assistente, non divaghi, non sia così miope formalista! Vuole ingaggiarsi?...
– e aggiunse con la superbia di un Napoleone: – Il premio sta nel servizio medesimo.
– Grazie della fiducia, solo non so perché dovrei... Ma capisca! Ammetterà spero la stranezza della proposta. Di che si tratta? E poi, scusi tanto, ma prima di spiegare il genere d’assistenza, vuol essere tanto gentile da dire come mai s’è azzardato a chiamarmi e per quali referenze? Non direi che ci fossimo già conosciuti, vero? (Avevo acceso un altro cerino, lui mi guardava impassibile).
– Lei ha ragione, ma badi che si brucia le dita.
Irritava quel tono d’inaccessibile olimpica superiorità; tanto più irritava perché giusto mi ero scottato; lo attaccai con perfido manierismo.
– Molto gentile, e le sarei infinitamente grato se, pur non avendo l’onore di conoscerla, volesse rispondere alle mie legittime domande. (Feci pausa, non rispondeva, continuai).
Il suo invito, questo luogo, l’ora, la proposta... tutto ciò mi sembra abbastanza strano e specialmente codesta maniera di trattare gli affari nel buio pesto – spero ne convenga – rende ancor più buia la situazione. Alle corte, a che giuoco giochiamo?
Si può sapere che cosa vuole da me? (feci lume per la terza volta, il personaggio non s’era scomposto, soltanto sorrideva come se l’avessi divertito; una folata di vento – ma da dove arrivò? – spense il cerino).
– L’ho pregata di non far lume – mi avvertì l’enigmatico signore.
– Ed io l’avevo pregata di spiegarsi – replicai secco secco.
– Mio caro giovanotto –, rispose affabile, – sono perfettamente convinto della legittimità del suo desiderio, ed è nelle mie intenzioni accontentarla per quanto mi è possibile, purché me ne lasci il tempo.
– Sarebbe a dire?
– Ascolti. In poche parole eccole un principio di presentazione.
– Scandiva ogni sillaba, allineandole con grosse pause, come un gioielliere che mostra il suo tesoro: – Seguace delle Alte Scienze ho percorso strade difficilmente accessibili
raggiungendo tale sapienza da possedere molti gravi segreti della natura. (L’ascoltavo diffidente, ma erano riapparsi gli occhi fosforosi e la mia baldanza se ne era ita più presto di com’era venuta).
– Da qualche tempo – continuò sempre sottovoce – mi affatico per realizzare una certa scoperta, e appunto per questi... diciamo... collaudi, i quali del resto hanno già avuto un risultato efficientissimo, dunque per queste realizzazioni, ho bisogno di un collaboratore. Ecco perché l’ho invitata.
– Ma lei non spiega come mai ha potuto pensare a me!
Le servo forse come il primo venuto; una scelta del caso, oppure mi conosce? Lo sa come mi chiamo, i miei studi, cosa faccio?
– Giovanotto, qualche volta nel percorso dell’Alta Scienza ho potuto scomodare Esseri anteumani – rapporti rispettosi, di pura speculazione filosofica –. Quelli conoscevano il mio bisogno e perciò, un quarto d’ora fa all’incirca, trovandomi a far ricerche in questa tomba, m’avvertirono che il mio collaboratore m’aspettava fuori, al ponte levatoio dove son venuto a prenderla.
Non intesi altro. Ero rimasto sempre in piedi stringendo la spalliera della sedia coll’intenzione di valermene, al caso; come arme e scudo, ma quando udii nominare gli Esseri misteriosi, mi prese siffatto tremore che mi ci afflosciai sopra.
Lo sapevo, dicevo a me per rinfrancarmi da un’altalena turbinosa, eppure lo sapevo di che genere doveva essere l’avventura, l’avevo ben capito appena allungai la mano, e allora perché ne sopporto la conferma così male? Scemo e pusillanime!
Altro che gita a Napoli! mi capita la fortuna – forse – e tremo quanto una sciocca donnetta. Vigliacco! Ah no, riprenditi, Riccardo, riprenditi, mi suggerivo pieno d’affetto.
Questa sì che è una gita sopraffina. Coraggio. E chissà che poi non trovi da sistemarmi per benino?
– Dunque? – sussurrò lo scienziato.
– Perché no? – risposi fingendo la massima noncuranza.
– Soltanto m’occorre qualche altro schiarimento. Primo, il genere del lavoro; secondo, lo stipendio; terzo, il rischio.
– Apprezzo la di lei pratica serietà. Al primo punto non posso rispondere finché ella non abbia preso l’ingaggio; si tratta, come le ho già accennato, di Alta Scienza per la quale anche un imperatore potrebbe farmi da aiutante. Pel secondo punto, lo stipendio, può esser tranquillo, sarà pagato più di un ministro; quanto poi al terzo, il rischio materiale, ebbene non direi che non ce ne sia molto di più dall’andare in bicicletta. Le va? È contento? Adesso però si decida, abbiamo fatto tardi e ci son cose da sistemare innanzi giorno.
– Accetto – mormorai – a condizione che non ci buschi una dannazione eterna.
E accesi il quarto cerino. Lui chiuse gli occhi, riparandoli anche con la mano, ma non capii se fu la mia richiesta che lo disturbava o semplicemente la fiammella accosto al naso; in ogni modo si riprese subito, e con un sorrisetto fin troppo dolce mi disse: – Caro pupo, quante preoccupazioni! Suvvia non esageriamo le cautele, tanto i pericoli non poterono evitarli nemmeno gli eremiti nel deserto. Così, scientemente, la posso assicurare dipende da lei passarla liscia. Non faccia lo sventato, stia attento. Anche i marinai possono morire affogati, ma non si arruolano mica per far quella brutta fine. Ha capito? E siccome poi nel nostro patto non è inclusa l’ultima condizione cui ella ha accennato, allora mio caro giovanotto dica il suo nome e mi stringa la mano, l’ingaggio è concluso.
Ma cosa c’era nella stanza, il mosto? mi prese un’esaltazione euforica, manco avessi bevuto lo sciampagna in quei discorsi, e dovevo tenermi alla sedia come il bambino al cavalluccio della giostra.
– Ogni lasciata è persa, evviva l’avventura! Accetto, mi metto al servizio dell’Alta Scienza, quant’è vero che sono stato battezzato a San Giovanni in Laterano coi nomi di Riccardo Jacopo Enea Maria.
Avrei dovuto aspettarmelo, non avevo finito d’elencarmi quando cominciò il temporale, tradizionale assistente di questi affari: fulmini e saette da arricciare i capelli.


Dal romanzo Fuori tempo di Dino Terra (Marsilio, 2021)
con l'Introduzione di Gandolfo Cascio

Per gentile concessione della Fondazione Dino Terra


(n. 5, maggio 2024, anno XIV)