Daniela Marcheschi: Ricordo di Silvio Guarnieri Conobbi Silvio Guarnieri nel 1973, durante il mio primo anno di università a Pisa. Ero un po’ smarrita: ancora non capivo a fondo come funzionasse un ateneo, quali corsi fosse più opportuno seguire per avviare al meglio il mio iter di studentessa che ci teneva a far bene. A imparare, a chiedere, a lavorare duro sotto la guida di maestri di cultura e di vita: due cose per me inscindibili e di cui avevo sentito tanto parlare con trasporto di affetti e di ideali, ascoltando le storie di amici di famiglia nelle veglie d’estate. A un certo punto decisi di affidarmi alle mie passioni e di seguire le lezioni di discipline che amavo da sempre, in particolare i corsi di Storia del Risorgimento, Letteratura umanistica e Letteratura Italiana moderna e contemporanea. Li tenevano nell’ordine Giorgio Candeloro, Piero Floriani (presto amico con un peso determinante nella mia vita, in quanto fu lui a spingermi a sostenere l’esame di ammissione alla Scuola Normale Superiore, dove avrei continuato gli studi dal secondo anno di università in poi) e Silvio Guarnieri. Quando era uscito per Einaudi il libro di racconti di Guarnieri Utopia e realtà, nel 1955, Elio Vittorini aveva scritto nel risvolto: «[...] questo libro che ora appare nei ‘Gettoni’ è il suo primo di narrativa, non nuovissimo rispetto all’insieme della sua figura di castigamatti, eppur nuovo o almeno singolare rispetto al panorama di racconti e romanzi che si è venuto formando in Italia. Poiché il Guarnieri cerca nella realtà quale è quello ch’essa potrebbe essere, e la rappresenta impregnata di una verità ideale, con personaggi e vicende che mette in piedi a furia di ragionare su cose osservate, portando la narrazione ad avere lo stesso rigore moralistico, la stessa intransigenza razionale e la stessa pervicacia oratoria di cui ha già dato prova nella critica e nei saggi». In conclusione, era la medesima maniera in cui Guarnieri porgeva la letteratura: la interrogava e, così, la presentava in una luce diversa ai nostri occhi di diciannovenni, più ricca rispetto a quella «cerimoniale», formalistica e perfino inappellabile, a cui eravamo abituati. Oggi, che sono una studiosa quasi con l’età che Guarnieri aveva allora, non posso non ripensare a certe sue osservazioni e trovarle meno persuasive o meno soddisfacenti, rispetto a quanto io stia cercando nella critica della letteratura. Ma lui era anche uno scrittore. E, poi, nell’arte della critica è proprio la verità soggettiva a contare. Lo sguardo di un critico, come di ogni altro intellettuale, è tanto più prezioso quanto più è soggettivo ed eticamente centrato sui principi della responsabilità e della verità. Solo se vi sono tante solide verità soggettive – frutto della consapevolezza intellettuale, di una cultura la più vasta possibile e dello slancio etico a costruire oltre sé stessi e insieme con gli altri –, si può partecipare attivamente alla letteratura. Inoltre, solo così può nascere la possibilità di comparazione e quella tensione virtuosa, persuasiva, verso la conoscenza della verità: che è movimento condiviso, viaggio perpetuo verso la meta intraveduta all'orizzonte, anche se non la potremo mai raggiungere davvero o catturare una volta per sempre. In facoltà, Guarnieri non godeva sempre «di buona stampa». Amato dagli allievi, il suo nome, pronunciato davanti ad alcuni, era accompagnato con sussiego e talvolta perfino da risolini e mezze parole ironiche che ne sminuivano la persona. Alle spalle, in modo vile. La sua bontà, poi, faceva sorridere tanto quanto la sua risaputa intransigenza morale. È anche vero che Guarnieri non faceva mistero di certe riserve sulle modalità di relazione fra intellettuali e Partito Comunista Italiano, espresse poi nei saggi del volume L'intellettuale nel partito, pubblicato nel 1976 a Venezia, presso Marsilio. Guarnieri vi chiamava in causa il socialista Emilio Lussu e altri intellettuali non comunisti, asserendone la dignità delle posizioni e del pensiero, vi affermava una istanza etica per esprimere perplessità che non potevano incontrare molto favore in un contesto, da un lato, ideologizzato come era quello degli ancora contestatari primi anni Settanta a Pisa, e, dall’altro, sempre più permeabile a logiche clientelari e di potere ben poco gramsciane, che hanno finito con lo svilire il ruolo degli intellettuali in Italia. Purtroppo sempre meno indipendenti, perché l’etica non è stata più considerata un elemento della cultura umana, quale invece è sul piano antropologico, e perché il crollo dell’utopia marxista è stato semplicisticamente identificato con l’impossibilità stessa di ogni utopia. Per tornare a quel 1973, nel suo corso Guarnieri forniva tanti nomi di autori che non conoscevamo, ne citava le opere altrettanto non conosciute, ne raccontava i contenuti e alcuni tratti dello stile, parlava di verità, e di falsità di quei testi letterari in cui si faceva mostra di bei sentimenti, adornati da una scrittura che mascherava in realtà un vuoto di valori: tacciava apertamente di «malafede», in aula, il romanzo autobiografico Il voltagabbana (Milano, il Saggiatore, 1963) di Davide Lajolo, politico di spicco dell’allora P.C.I., e ce ne faceva notare i passaggi stilisticamente più ambigui. Le parole giudicano chi le pronuncia e le scrive. Guarnieri risultava spiazzante per le matricole: il conformismo può essere tanto più rassicurante per dei giovani alle prime armi. Daniela Marcheschi (n. 5, maggio 2022, anno XII) |