Daniela Marcheschi: Ricordo di Silvio Guarnieri

Conobbi Silvio Guarnieri nel 1973, durante il mio primo anno di università a Pisa. Ero un po’ smarrita: ancora non capivo a fondo come funzionasse un ateneo, quali corsi fosse più opportuno seguire per avviare al meglio il mio iter di studentessa che ci teneva a far bene. A imparare, a chiedere, a lavorare duro sotto la guida di maestri di cultura e di vita: due cose per me inscindibili e di cui avevo sentito tanto parlare con trasporto di affetti e di ideali, ascoltando le storie di amici di famiglia nelle veglie d’estate.
Mi trovavo invece a frequentare lezioni di docenti che svolgevano il loro compito sia con un certo compiacimento se non proprio vanità, sia tenendo gli studenti a distanza, come si fa con chi rechi solo fastidi. Dispiaceva anche la loro esibizione di sprezzatura – di cui una certa borghesia italiana ama ancora fare sfoggio in campo culturale, pensando di essere signorile mentre è il contrario –, nei confronti di tutto ciò che apparteneva alle discipline umanistiche. Non ci credevano o ci credevano molto poco. Eppure insegnarle dava loro il pane e un tenore di vita non modesto per quegli anni, in cui si faceva un gran parlare di rivoluzione e di proletariato.

A un certo punto decisi di affidarmi alle mie passioni e di seguire le lezioni di discipline che amavo da sempre, in particolare i corsi di Storia del Risorgimento, Letteratura umanistica e Letteratura Italiana moderna e contemporanea. Li tenevano nell’ordine Giorgio Candeloro, Piero Floriani (presto amico con un peso determinante nella mia vita, in quanto fu lui a spingermi a sostenere l’esame di ammissione alla Scuola Normale Superiore, dove avrei continuato gli studi dal secondo anno di università in poi) e Silvio Guarnieri.
Altri docenti: chiari nell’esporre, coinvolti e interessati alle loro discipline, agli allievi; insomma, tutto un altro mondo.
Guarnieri, che era arrivato a insegnare a Pisa grazie a Luigi Russo, aveva un viso quasi fanciullesco e, insieme, capace di esprimere una nobiltà di galantuomo, ma anche di assumere all’improvviso un aspetto di disincanto, una piega di amarezza, come di un uomo che vivesse o avesse vissuto delusioni gravi. Quell’anno il corso si soffermava sulla letteratura della Resistenza, e il modo di insegnare di Guarnieri appariva lineare, semplice nel profilare un quadro storico, diretto come solo un esperto uomo di scuola sa fare: scopersi dopo che continuava a svolgere l’attività di preside negli istituti medi superiori. Lui era preciso, e le nozioni abbondavano; e le sue letture amavano indugiare su temi legati alla memoria come necessaria costruzione del sé e sui risvolti psicologici di situazioni e personaggi narrati nei romanzi che stava illustrando.
Fatti e persone inventati eppur ‘veri’, quelli creati dagli autori. La letteratura lo riguardava da vicino, gli premeva tanto come un elemento vitale: era, del resto, anche uno scrittore in tempi in cui la figura del professore-scrittore era rara, e guardata con sospetto, come se la serietà degli studi ne ricevesse nocumento. Professori-poeti come Carducci e Pascoli erano d’altronde ancora percepiti più che altro come retori; Carducci ottimo come prosatore, ma non come poeta... Lo sguardo nei loro confronti sarebbe del tutto mutato solo alcuni anni dopo, e, per Pascoli, grazie anche al peso del lavoro di Gianfranco Contini, Felice Del Beccaro, Cesare Garboli, Giuseppe Nava.

Quando era uscito per Einaudi il libro di racconti di Guarnieri Utopia e realtà, nel 1955, Elio Vittorini aveva scritto nel risvolto: «[...] questo libro che ora appare nei ‘Gettoni’ è il suo primo di narrativa, non nuovissimo rispetto all’insieme della sua figura di castigamatti, eppur nuovo o almeno singolare rispetto al panorama di racconti e romanzi che si è venuto formando in Italia. Poiché il Guarnieri cerca nella realtà quale è quello ch’essa potrebbe essere, e la rappresenta impregnata di una verità ideale, con personaggi e vicende che mette in piedi a furia di ragionare su cose osservate, portando la narrazione ad avere lo stesso rigore moralistico, la stessa intransigenza razionale e la stessa pervicacia oratoria di cui ha già dato prova nella critica e nei saggi». In conclusione, era la medesima maniera in cui Guarnieri porgeva la letteratura: la interrogava e, così, la presentava in una luce diversa ai nostri occhi di diciannovenni, più ricca rispetto a quella «cerimoniale», formalistica e perfino inappellabile, a cui eravamo abituati.
In lui quella morale era una vera e propria urgenza, qualcosa che premeva da dentro per zampillare con forza, per essere affermata, e che lo induceva a scatti improvvisi, rapide scosse del corpo che sorprendevano nell’uomo educato, signorile, che era. Appassionato. Vero, e diverso da quei docenti che, pur criticando il sistema borghese, ne assumevano i modi studiati e salottieri di noncuranza nei confronti della letteratura, quello snobistico non aspettarsene niente, a cui ho già accennato in precedenza.

Oggi, che sono una studiosa quasi con l’età che Guarnieri aveva allora, non posso non ripensare a certe sue osservazioni e trovarle meno persuasive o meno soddisfacenti, rispetto a quanto io stia cercando nella critica della letteratura. Ma lui era anche uno scrittore. E, poi, nell’arte della critica è proprio la verità soggettiva a contare. Lo sguardo di un critico, come di ogni altro intellettuale, è tanto più prezioso quanto più è soggettivo ed eticamente centrato sui principi della responsabilità e della verità. Solo se vi sono tante solide verità soggettive – frutto della consapevolezza intellettuale, di una cultura la più vasta possibile e dello slancio etico a costruire oltre sé stessi e insieme con gli altri –, si può partecipare attivamente alla letteratura. Inoltre, solo così può nascere la possibilità di comparazione e quella tensione virtuosa, persuasiva, verso la conoscenza della verità: che è movimento condiviso, viaggio perpetuo verso la meta intraveduta all'orizzonte, anche se non la potremo mai raggiungere davvero o catturare una volta per sempre.

In facoltà, Guarnieri non godeva sempre «di buona stampa». Amato dagli allievi, il suo nome, pronunciato davanti ad alcuni, era accompagnato con sussiego e talvolta perfino da risolini e mezze parole ironiche che ne sminuivano la persona. Alle spalle, in modo vile. La sua bontà, poi, faceva sorridere tanto quanto la sua risaputa intransigenza morale. È anche vero che Guarnieri non faceva mistero di certe riserve sulle modalità di relazione fra intellettuali e Partito Comunista Italiano, espresse poi nei saggi del volume L'intellettuale nel partito, pubblicato nel 1976 a Venezia, presso Marsilio. Guarnieri vi chiamava in causa il socialista Emilio Lussu e altri intellettuali non comunisti, asserendone la dignità delle posizioni e del pensiero, vi affermava una istanza etica per esprimere perplessità che non potevano incontrare molto favore in un contesto, da un lato, ideologizzato come era quello degli ancora contestatari primi anni Settanta a Pisa, e, dall’altro, sempre più permeabile a logiche clientelari e di potere ben poco gramsciane, che hanno finito con lo svilire il ruolo degli intellettuali in Italia. Purtroppo sempre meno indipendenti, perché l’etica non è stata più considerata un elemento della cultura umana, quale invece è sul piano antropologico, e perché il crollo dell’utopia marxista è stato semplicisticamente identificato con l’impossibilità stessa di ogni utopia.
Poco dopo, frequentando Eugenio Montale e amici lucchesi del gruppo benedettiano come Guglielmo Petroni e Romeo Giovannini, che al caffè fiorentino delle Giubbe Rosse erano stati di casa, avrei invece sentito nominare Guarnieri sempre con rispetto (era stato fra i primi a indicare il rilievo dell’opera di Carlo Emilio Gadda ad esempio) e gratitudine: in specie da Petroni, che non si stancava di ripetere con quanta generosità Guarnieri lo avesse economicamente sostenuto, per consentirgli di trattenersi a Firenze e godere della compagnia dei tanti intellettuali che si ritrovavano in quella città.

Per tornare a quel 1973, nel suo corso Guarnieri forniva tanti nomi di autori che non conoscevamo, ne citava le opere altrettanto non conosciute, ne raccontava i contenuti e alcuni tratti dello stile, parlava di verità, e di falsità di quei testi letterari in cui si faceva mostra di bei sentimenti, adornati da una scrittura che mascherava in realtà un vuoto di valori: tacciava apertamente di «malafede», in aula, il romanzo autobiografico Il voltagabbana (Milano, il Saggiatore, 1963) di Davide Lajolo, politico di spicco dell’allora P.C.I., e ce ne faceva notare i passaggi stilisticamente più ambigui. Le parole giudicano chi le pronuncia e le scrive. Guarnieri risultava spiazzante per le matricole: il conformismo può essere tanto più rassicurante per dei giovani alle prime armi.
Erano gli anni in cui si faceva un gran parlare della nuova linguistica, di scienza e metodi della letteratura: anche per un frainteso senso di ‘scientificità’, che le scienze stesse e la filosofia si sono peraltro premurate di rilevare presto. Guarnieri si richiamava invece a cose che apparivano ‘sorpassate’, a parole che avevano un peso antico: alla verità della parola letteraria, al sentimento che – in essa e attraverso di essa – si mettesse per intero in gioco una possibilità di realizzazione del destino umano. Guarnieri incarnava in breve una idea di letteratura che, in varie declinazioni, era stata tanto fertile e viva ai tempi della rivista fiorentina «Solaria», presso le cui edizioni aveva pubblicato fra l’altro, nel 1934, i saggi Lo spettatore appassionato; e che egli avrebbe ulteriormente declinato, dopo i disastri della Seconda guerra mondiale, per tradurla in una attività politica che lo aveva visto impegnato pure come amministratore locale.
Per l’enfant terrible di «Solaria» continuava a valere non solo la letteratura come fine, ma anche la letteratura come totalità di una esperienza umana e intellettuale  rispetto a una realtà resa sempre più asfittica: un tempo dal Fascismo; negli anni Settanta dai prodromi di un tradimento degli intellettuali sempre meno fedeli a certi valori ideali, sempre meno rispettosi della cultura di cui avrebbero dovuto essere i paladini, sempre più attratti da un individualismo esasperato e dal potere per il potere. Al momento del suo pensionamento, di tutto questo Silvio Guarnieri avrebbe fatto concretamente, e ingiustamente, le spese. 


Daniela Marcheschi
(n. 5, maggio 2022, anno XII)