«La parrocchia» di Dan Coman e la Romania di fine regime

Dan Coman nasce nel 1975 a Gersa, nel nord della Transilvania. La sua attività letteraria, prevalentemente poetica, lo consacra douămiist con Anul cârtiței galbene (L’anno della talpa gialla), opera di debutto del 2003, per la casa editrice Timpul. Due anni dopo, nel 2005, è la volta di Ghinga (casa editrice Vinea) e ancora nel 2009, per le edizioni Cartier, pubblica Dicționarul Mara (ghidul tatălui: 0-2 ani) [Il dizionario di Mara (la guida del papà: 0-2 anni)], ad oggi sua ultima raccolta di poesie. Nel 2011 ha realizzato, insieme a Petru Romoşan, l’antologia Compania poeților tineri în 100 de titluri alese (La compagnia dei giovani poeti in 100 titoli), per la casa editrice Compania.
L’esordio di Coman come prosatore avviene nel 2010, col romanzo Irezistibil (Irresistibile), editrice Cartea Românească, seguito nel 2012, da Parohia (La Parrocchia), accolto con entusiasmo dalla critica. Nel 2004 ottiene il Premio per il Debutto dell’Unione degli Scrittori e il Premio nazionale per la poesia Mihai Eminescu, nel 2010 il Premio Opera Prima e ancora, nel 2011, il Vilenica Crystal Prize, in Slovenia. Le sue poesie sono state tradotte in inglese, sloveno, ungherese, francese, serbo, svedese e tedesco.

Il villaggio, microcosmo di un Paese

In questo piccolo romanzo c’è un paese, uno qualsiasi tra i monti e i boschi della Romania comunista alla fine degli anni ’80, e una casa parrocchiale, intorno alla quale ruota un microcosmo di tipi umani, storie e quotidianità che si muovono insieme alla terra, al ritmo delle stagioni e dei campi, in un quadro d’insieme costruito per giustapposizione d’immagini più che su base cronologica. Piccoli quadri tenuti insieme dalla voce narrante del protagonista e dalla vita del paese.
Il nostro eroe ha circa trent’anni, ma vive ancora sotto il tetto natio all’ombra della parrocchia, insieme alla madre dispotica, al padre (pope del paese) ed al fratello maggiore ritardato, tutti insieme nella casa parrocchiale, in giorni, mesi e stagioni che passano e si confondono senza che il tempo passi mai davvero: sono le tradizioni contadine e religiose a scandire il romanzo e l’esistenza quotidiana del villaggio, un’esistenza immobile e assurda.
Opposta ad una certa tradizione letteraria però, il villaggio di Parohia non è affatto il luogo dei sentimenti puri e primordiali, ma più che altro una sorta di pretesto scenografico per raccontare la condizione dell’intera società romena in preda alla follia di fine regime, in cui nulla è come dovrebbe essere, a cominciare già dal protagonista.
Anti-eroe per eccellenza, vicino all’Oskar de Il tamburo di latta, egli ricorda costantemente di avere trent’anni, che è arrivato il momento di sposarsi e di emanciparsi, sebbene poi, allo stesso tempo, il modo in cui agisce, sente e reagisce, indichino il più assoluto rifiuto di crescere. Per lui, come adulto, la vita sembra essere una sorta d’infanzia perenne ed archetipica – in cui il tempo che passa è solo l’alternarsi delle stagioni, le regole e pretese di sua madre, gli incontri proibiti con Ninia, ragazza-chimera di cui è innamorato e che alla fine sposerà – in cui però c’è anche spazio per cose «da grandi», come il sesso, la responsabilità sociale, il lavoro. D’altra parte, anche questi piccoli gesti di normalità, sono ugualmente irreali e grotteschi.
Una voce narrante così costruita, allora, permette all’autore di sviluppare uno stile a metà strada tra prosa e poesia – Dan Coman è innanzitutto un poeta – in cui dare spazio a brutale e innocente, reale e onirico, tragedia e umorismo. La descrizione è spesso sensoriale, poetica: gli odori, i colori, la terra e gli animali diventano strumenti, metafore per narrare emozioni e sensazioni mentre, per ciò che riguarda i personaggi, il processo è inverso. Oltre al protagonista, gli altri personaggi principali rappresentano concetti astratti, strutturati in corpi: la madre dispotica raffigura il bigottismo religioso e il conformismo, il fratello ritardato si riferisce all’infanzia negata dall’ignoranza e dalla violenza, il padre-pope è l’archetipo dell’intellettuale, il cui libero pensiero significa anche inerzia e lassismo.
La grande storia è sullo sfondo, apparendo di rado e in modo quasi favoloso. Ceaușescu è una sorta di personaggio mitologico spettacolarizzato (visto alla tv mentre saluta con la mano «come se volesse spolverare la finestra»), e le persecuzioni politiche arrivano al paese di notte, insieme con l’eco di certi camion a cui segue puntuale l’apparizione di certi cadaveri che impicciano il servizio del securista locale, Mîrza. Il romanzo si chiude nell’estate del 1989, pochi mesi prima che anche tutto il resto finisca.

Da «Parohia»

Estate

Maledetta zoppa, sibilava mamma tra i denti quando le passavamo accanto per entrare in casa.
Maledetta zoppa.
Avevo appena compiuto 30 anni.
Non l’avevo ancora detto a nessuno, ma i preparativi fervevano: mi spinsi a chiamare Ninia addirittura fino al recinto, passandole rapidamente tra le assi delle pietroline rotonde e mazzolini di trifoglio.
Riuscivo a parlarle per poco, fino a quando appariva mamma e la cacciava via con la scopa.
Sciò sciò! gridava.
Sciò, pussa via! correndole dietro fino in fondo alla strada. 
Abitavo con i miei nella casa parrocchiale.
Mamma preparava la zuppa
mamma tagliava la gallina in due per lo spezzatino
mamma mescolava la polenta –
io la aiutavo sempre mettendo le patate sul fuoco.
Dopo aver mangiato, buttava i piatti nella bacinella azzurra e andava fuori a lavarli. La seguivo fino in cortile e mi sedevo sul ceppo rovesciato. Mio fratello ci correva intorno, clacsonando.
Papà mangiava separatamente, lentamente, accanto alla finestra.

***

Alle spalle di casa c’era un campo. La sera ci venivo a fumare. Per prima cosa mi portavo le mani alla bocca e facevo la civetta. Poi camminavo svelto-svelto lungo il recinto. Oltre il recinto la aspettavo.
Ninia si fermava e sollevava il bastone in aria. Gli animale di cui si occupava subito facevano un gran baccano di fronte a lei. Per quanto durava quel macello, mangiavamo insieme le fette di pane con la marmellata che portava lei.
Se ci avvicinavamo l’uno all’altra, il terreno secco sotto di noi faceva come il topo.
Portava sigarette senza filtro, rubate dalle tasche di sua madre. Ci rannicchiavamo sull’erba e stavamo così ore intere. Ninia tossiva quasi dopo ogni tiro. Inumidiva moltissimo l’estremità da cui tirava.
Quando non tossiva, controllava che la donna alta non venisse a spaventarci di nuovo.
Dopo un po’ si sentiva mamma.
Ninia sollevava immediatamente il bastone e spariva tra gli animali.
Tornavo indietro anch’io, rapidamente, lungo il recinto. Giravo la testa ogni volta che fischiava per ordinare la mandria.

***

Quell’estate le ho detto:
Ninia, ho deciso di sposarmi.

***

La domenica mi svegliavo per primo e dopo aver indossato la camicia bianca e i pantaloni di stoffa lasciati la sera prima sull’appendiabiti dell’ingresso, mi affrettavo a suonare la campana per la santa messa.
Era l’unico giorno in cui fumavo a stomaco vuoto.
Ninia arrivava al campanile molto prima di me. La trovavo ancora assonnata, raggomitolata sul masso a destra della porta, circondata dagli animali.
Correvo via.
Non durava più di un minuto: quanto ci voleva a spalancare la porta della chiesa, mettendoci una scopa di traverso perché non entrasse ancora nessuno. Prima di tornare indietro, raccoglievo dell’erba brusca da sotto le balconate e la cacciavo in tasca con soddisfazione. Salivo sul masso accanto a lei e tiravo con forza il lucchetto del campanile. Dopo essere entrati, mi porgeva la sigaretta già accesa e prendeva i martelli per la toaca [1]. Le facevo segno con la testa e mentre tiravo la robusta cinghia di pelle, facendo sobbalzare la campana, sbuffavo il fumo e le sorridevo. Le sarebbe piaciuto molto battere sulla toaca, ma non potevo lasciarglielo fare.
Suonavo la campana e, se non guardavo lei, guardavo i suoi animali giocare nel campanile angusto, saltando uno sull’altro e galleggiando nell’aria per qualche secondo, lungo le linee di fumo e luce che entravano dalle crepe tra le assi di legno. 
Scivolavano da sole, facevano piccole onde di spuma sul pavimento di cemento.
Quando smettevo, gli animali prendevano a tremare qualche istante come pieni di freddo.
Finivamo di fumare e uscivamo.
Gli uomini cominciavano a scendere verso la chiesa. Bisognava muoversi rapidamente, che non ci vedesse nessuno. Serravo il lucchetto e indugiavo ancora un po’ sul masso. Mi piaceva guardarla andar via di corsa, mentre si allontanava verso il fiume, con l’omero sinistro prima lanciato in basso, poi ad alzarsi velocemente e scendere di nuovo radipo, pronta-pronta a rotolarsi tra le margherite. La gamba corta sembrava entrasse nella terra fino al ginocchio quando ci si appoggiava, torcendosi notevolmente all’esterno e lasciando orme larghe come se un cane si fosse rotolato in quel punto. Quando avanzava con l’altra, s’innalzava bruscamente e il fazzoletto le svolazzava sulle spalle, scoprendole i capelli raccolti in una coda di cavallo.

Toglievo la scopa dalla porta della chiesa e via verso casa. Incontravo la gente che scendeva dalle colline per la messa. Non aspettavo fossero loro a darmi il buongiorno. Li precedevo e, ad un metro di distanza, dicevo a voce alta e chiara: Gesù è risorto! Davvero è risorto [2], si ritrovava a rispondere qualcuno e poi immediatamente Dio ce ne scampi e liberi, puah per la miseria – ed io di corsa in mezzo a loro ridendo a crepapelle, sentendo come si sputavano in petto rumorosamente. Mi divertiva vedere quanto potessero spaventarli parole del genere nel bel mezzo dell’estate e come si fermassero subito a farsi il segno della croce mentre io, morendo dal ridere, proseguivo. Non ero nemmeno arrivato alla porta che incontravo già mio padre, nella sua tonaca nera e lunga fino a terra. Mamma si è svegliata? Non rispondeva mai. Nemmeno aspettavo che rispondesse, tiravo dritto e mi fermavo solo in veranda.

Mentre mia madre finiva di vestirsi, uscivo in cortile con mio fratello. Prendevo la corda e, dopo averla fissata per bene al recinto, gliela passavo due volte intorno alla caviglia, facendo un nodo alla marinara. La corda era lunga a sufficienza, poteva muoversi senza problemi in tutto il cortile fino al nostro ritorno. In più, lasciavamo libere le galline, mio fratello si parcheggiava rumorosamente il corpo in retromarcia per ore di fila, lo sparviero non si sarebbe avvicinato. Versavo il latte nella scodella dei gatti, davo un pugno di mangime alle galline, mi lavavo le mani nel catino sulle scale. Se mi bagnavo i capelli per sistemarli, non mi lasciava più uscire di casa, perché non mi ammalassi, neppure d’estate.
Mamma appariva sulle scale indossando il suo abito viola da chiesa, con il cappello nero calato quasi sugli occhi, si soffiava il naso energicamente in un grande fazzoletto di stoffa, quanto basta per tutta la mattina, per poter stare tranquilla durante la santa messa. Controllavo ancora una volta il nodo alla gamba di mio fratello, poi uscivamo.
Attraversavamo la strada e aggiravamo il campanile, passando tra le tombe in direzione della chiesa. Il cimitero era alle spalle, sul pendio, qui riposavano solo gli ex preti con le loro mogli. Quando mamma non era attenta, sputavo senza far rumore su certe sporgenze del terreno.

Giusto accanto alla balconata della chiesa c’era la tomba dei miei. La croce l’hanno portata da lontano, marmo nero con fiorellini bianchi intarsiati. Non restava altro che scolpire la data di morte a destra del nome, quando sarà come sarà. La loro foto incorniciata rotonda era l’unica fotografia a colori di tutto il cimitero. Avevo dipinto con mio padre il piccolo recinto di legno in azzurro poi, per le insistenze di mamma, gli ho dato due mani di bianco. Qualcuno rompeva continuamente la porticina.

Prima di entrare in chiesa, mamma si piegava e strappava le erbacce cresciute lì, tra i fiori. Aveva sistemato il terreno in una maniera tale che adesso sembrava un giardino a due strati. Puliva via la polvere dalle fotografie, si puliva le mani, si segnava con grandi croci prima di entrare.
Mi dovevo piegare, la vecchia chiesa di legno era molto piccola, solo tra gli uomini riuscivo a star dritto.
Proprio all’ingresso c’erano le donne.
Sopra alle donne c’era la balconata.
Sulla balconata c’era il coro.
Da sempre ho sognato di poter stare anch’io la domenica sulla balconata. Ero ammaliato soprattutto dai canti liturgici che il coro eseguiva da lì, dove mamma non mi ha mai lasciato andare. Lì non è per il figlio del pope. Non è per te. Non farci vergognare, che non siamo chiunque in paese.

 

Autunno

Lungo il fiume hanno trovato un corpo. Poi è stato necessario entrare in acqua fino alla cintura e da lì usare delle pertiche per un tizio con la barba lunga e brizzolata, che quasi-quasi lo perdevano. Fino a sera ne avevano messi insieme cinque. Nessuno li conosceva. Mîrza ci ha costretto a passargli accanto, uno per uno inutilmente, non li conoscevamo.
Certi sono apparsi con delle cariole, le donne hanno portato delle coperte. Dopo essersi fatto buio sul serio, è arrivato papà nella sua tonaca nera e ha recitato una preghiera proprio lì, lungo il fiume. Mîrza per tutto il tempo ha annotato qualcosa sul suo quaderno con la copertina verde. Si era raccolta molta gente. Li abbiamo portati con le carriole, in una ce ne stavano due. Per arrivare in cima, tra i pini, bisognava attraversare tutto il cimitero. Risalire tranquillamente il pendio. Per questi non ci si fermava dodici volte, come per i morti del paese. E nessuno aveva le candele. C’era solo una lanterna accesa, alle spalle di quelli con la carriola, per illuminare la strada.
Si procedeva con calma. Papà in testa, io e mamma alla sua destra, con il capo sempre girato. Mîrza era già su, ci aspettava al margine della fossa, accanto ad altri più giovani che avevano appena terminato di scavarla. Uno continuava a dar fuoco all’accendino, aveva ancora qualcosa da scrivere sulla croce di legno.
Di fosse così, ce n’erano già più di dieci.
Eroi sconosciuti, ho visto in nero sulla croce, quando la lanterna si è fermata sopra di essa. Ancora una croce per quelli che troviamo qui ogni autunno. L’anno scorso furono molti di più: è vero che dopo, immobile dietro le tende, mamma ha contato quattro camion venir giù dal bosco.
Hanno trovato anche una donna tra loro, cosa che ha creato a Mîrza molti problemi. Ha fatto un sacco di domande, ha scritto un sacco di cose sul quaderno, ha ritardato di molto la processione, la gente cominciava a spazientirsi.

Alla fossa, papà ha recitato ancora una preghiera. Nessuno piangeva, il coro non cantava. L’avevo visto solo da bambino, quando avevano seppellito il padre di Ninia, suicida.

Era una sera fredda, le donne si fregavano piano le braccia. I primi colpi di pala hanno coperto il fruscio dei loro abiti.  A me sarebbe piaciuto tantissimo buttare due o tre vangate di terra nella fossa profonda in cui hanno buttato quei cinque, però mamma non voleva nemmeno sentirne parlare. Non siamo chiunque sulla strada, diceva.

***

Mamma è stata quella che ha risolto tutto. All’inizio dell’autunno è stata presa la decisione, mio zio aveva mantenuto la parola.
Al di là del direttore, che insegnava matematica, fisica e chimica, nella scuola c’era solo una maestra e il professore di letteratura che, oltre al romeno, insegnava anche latino e geografia. Quando mamma mi ha detto che sarei stato professore, sono uscito furioso per i campi. Le ho gridato di lasciarmi in pace, che nemmeno per sogno faccio una cosa del genere, non è da me –anche se alla fine mi ci sono accomodato in modo incredibilmente rapido.
Domani-dopodomani hai trent’anni, non puoi stare a casa e basta, a farci ridere dietro da tutti.
In totale erano quattordici bambini. La maggior parte, otto, stava con la maestra. Due di prima, quattro di terza e due di quarta. Avevano una bella stanzetta, la più grande della scuola, l’unica con la stufa a segatura,
le tende a fiori,
le pareti coperte di oggettini cuciti a mano,
stampe con lettere colorate,
foto di animali.
Risultava che avrei insegnato storia, agricoltura e costituzione. In più, mi avevano dato tutte le ore di sport.
In quinta classe non c’era nemmeno un bambino, in sesta erano due, una femmina e un maschio, i gemelli piccoli di Mîrza. In settima c’erano tre ragazzi, quello grasso veniva sempre con una mappa che tirava fuori dalla tasca, la stendeva sul banco e, curvo su di essa, non poteva contenersi nel sillabare i nomi di tutte le località della zona. Nessuno poteva distoglierlo da questo. In ottava c’era una sola ragazza, alta e pienotta, con seni già molto grandi. D’inverno veniva sempre col suo fidanzato, uno più o meno della mia età, che se ne stava immobile nel banco, accanto a lei. Non disturbava, lo lasciavamo tutti in pace, solo il direttore lo metteva a tagliare la legna per la scuola, a spalare la neve per poter aprire la porta d‘ingresso.
In ogni modo, di rado erano tutti presenti a scuola. Fino all’inizio dell’inverno, i due gemelli di Mîrza venivano ogni giorno, accompagnati in auto dal padre. Gli altri erano dispersi tra le colline, con genitori e animali, nei lavori dei campi.

Il primo anno non ha fatto quasi niente. Passavo giornate intere con il direttore e il professore di letteratura nel cortile della scuola, su una panca sotto un noce, a giocare a sette [3]. Passavamo dalla scuola solo per bere un bicchier d’acqua o per ripararci dalle raffiche di pioggia. I bambini li lasciavamo tutti insieme dalla maestra, gli dava lei qualcosa da scrivere.
Quando gli altri erano occupati, me ne stavo in cancelleria, alla finestra, e mangiavo mele. Alle volte per strada passava una vacca, oppure un maiale sporco e indolente che si sfregava contro il recinto. Quando appariva un uomo, lasciavo subito la finestra e, sputandomi rapidamente in petto, facevo il segno della croce con la lingua, casomai mi facesse il malocchio.


Presentazione e traduzione di Clara Mitola
(n. 4, aprile 2013, anno III)


NOTE

1. Si tratta di uno strumento a percussione simile ad un asse di legno, usato nel rito ortodosso. La toaca insieme alle campane sono i soli strumenti accettati dalla chiesa ortodossa.
2. L’autore si riferisce alla formula pasquale Hristos a înviat! Adevărat c-a înviat, appunto Cristo è risorto! Davvero è risorto.
3. Si tratta di un gioco di carte in cui il sette è la carta vincente.