|
|
Come lavora un grande traduttore. Marian Papahagi e la sua lunga fedeltà a Dante
1. Uno fra i più geniali linguisti moderni, Émile Benveniste dedicò un’intera sezione del suo libro davvero indispensabile, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, al tema Dare e prendere. I titoli parlano chiaro: Dono e scambio, Dare, prendere e ricevere, L’ospitalità, La fedeltà personale [1]. Un’idea di fondo attraversa e lega queste pagine stupende: la bivalenza semantica, l’oscillazione e lo sconfinamento dei vocaboli su cui si imperniano le categorie economico-sociali del dare e del prendere, dell’offrire e del ricevere, che, scrive Benveniste, «sono legate nella preistoria indoeuropea», tanto che «in indoeuropeo «dare» e «prendere» si ricongiungono, per così dire, nel gesto» (addirittura in una lingua arcaica come l’ittita la radice significa appunto “prendere”) [2]. Anche il vasto campo semantico imperniato sui vocaboli greci per indicare il dono (dós, dôron, doreá, dósis, dotíne) riserva una sorpresa fondamentale: «non si tratta solo di un regalo, di un dono disinteressato; si tratta di un dono in quanto prestazione contrattuale, imposta dagli obblighi di un patto, di un’alleanza, di un’amicizia, di un’ospitalità: obblighi del xeînos (dell’ospite), dei soggetti verso il re o il dio, o ancora prestazioni implicite in un’alleanza» [3].
Le leggi semantiche dell’ospitalità studiate da Benveniste ci riconducono così a un dispositivo simbolico-culturale densissimo: l’amicizia e l’ospitalità, in parallelo con il gesto che associa donare e accogliere. Il messaggio di fondo depositato nella semantica profonda del pensiero è: accogliere l’Altro come amico e l’Amico come altro, sulla base dei valori umani condivisi che fanno del legame di fedeltà un sublime valore spirituale, connesso ad alcune «nozioni morali» espresse nelle lingue indoeuropee da vocaboli che «designano il patto di alleanza, l’accordo, la fede giurata», ma che esprimono anche «il senso di “dare fiducia, rassicurare, consolare”» [4]. Il latino fides «continua un valore molto antico», che non riconduce la fedeltà immediatamente alla “fiducia”, ma anzitutto alla «“qualità propria di un essere che gli attira la fiducia e che si esercita sotto forma di autorità protettrice su chi ripone fiducia in lui”» [5].
Allo stesso modo la categoria di humanitas, mediatrice nella cultura romana fra le due idee greche di philantropía e paideía, significava in primo luogo «mitezza, benevolenza, civiltà nel comportamento verso gli altri», quindi anche «educazione, cultura»; e la humanitas vitae di cui nella Naturalis historia parlava Plinio il Vecchio (XIII 68) rappresenta la capacità di «condurre una vita civile, degna di esseri che possano essere definiti uomini», e «presuppone l’uso della carta, della scrittura: in una parola, la pratica della cultura». Da questo incontro, «nello stesso tempo linguistico e antropologico», che la parola humanitas sintetizza, «ha preso vita una nozione che la civiltà europea successiva ha fatto propria e ha ulteriormente sviluppato» [6].
La traduzione, in particolare, è un gesto di umanità e di abbraccio dell’Altro, della sua lingua e del suo pensiero. Come ha scritto Antonio Prete, che è fra i nostri critici letterari migliori, traduttore elegante e finissimo teorizzatore dell’ospitalità della lingua, «tradurre è come accogliere un ospite nella casa della propria lingua. La casa spesso è disadorna, inappropriata. Ma da sempre nell’ospitalità quel che conta è il tempo-spazio di un ascolto, la convivialità di un colloquio. Quando ad essere ospitato è un poeta, ci si accorge che per costui la lingua, la sua lingua, è tutto: corpo, respiro, stile. […] L’ospitalità – questa forma mediterranea, e nomade, della conoscenza – si arrischia proprio dinanzi a ciò che è estraneo ed è lontano» [7]. Il dialogo con questa estraneità, con questa lontananza, è in cerca di «quella prossimità che solo la traduzione può dare» [8].
A riflessioni di questo tipo mi riconduce il ricordo di Marian Papahagi come persona umana, morale, politica, culturale, scientifica, e il nodo di affettività e di fiducia, di fedeltà e di mutua compensazione, di consolazione, di amicizia, di ospitalità, che univa e unisce me, noi tutti, a lui, e lui a noi. Ma questo nodo coincide con il legame che collegava noi e lui alla nostra fedeltà al pensiero e alla ricerca; anzi, voglio dirlo usando un termine dell’armonia, della musica: al nostro comune ricercare. Questa comunità umanistica di intenti è il benvenistiano «patto di alleanza, l’accordo, la fede giurata» all’idea e alle pratiche di civiltà che erano e sono nostre res communes, che ci accomunavano e ci accomunano. Ci legava e ci lega a Marian, e legava e lega noi e lui al nostro fare, al nostro pensare, al nostro ricercare, il «senso di “dare fiducia, rassicurare, consolare”». È una lunga fedeltà. È la fides che abbiamo dato a e ricevuto da Marian.
2. Non ricordo di aver mai parlato con Marian di queste pagine di Benveniste. Ma sono certo che fin da giovane le conosceva e le amava. Erano state pubblicate a Parigi, con immediato successo e rapidissima circolazione europea, nel 1969, quando Marian viveva ormai da qualche mese a Roma, nel cuore di quella civiltà romanza, soprattutto rumena, italiana, francese, portoghese, che lo aveva accolto e che lui aveva accolto, e che riempiva e ritmava il suo pensiero, il suo lavoro, la sua autorità e fedeltà culturale. In quegli anni la linguistica e l’antropologia culturale sconvolgevano il modo di guardare i testi, il mondo, la vita. La letteratura, le lingue, la linguistica, erano per Marian nutrimento quotidiano. «In quegli anni cruciali ci saremo di sicuro incrociati nei corridoi della Facoltà di Lettere della “Sapienza”, senza incontrarci e conoscerci di persona», mi disse anni dopo. Mi piacque e mi turbò quest’idea di aver frequentato da studente gli stessi corridoi, le stesse aule di quello che a me parve subito un maestro, e che non riuscivo a immaginare giovane allievo degli stessi maestri miei.
Ora che è tempo di bilanci e di valutazioni, credo che si possa ripensare all’incontro con Marian Papahagi, tanti anni fa, proprio sotto il segno dell’esattezza e della generosità, dello scambio e dell’ospitalità, della reciprocità e dell’accoglienza, della fedeltà e della fiducia basata sull’autorevolezza. E non si tratta solo di dati umani, che in lui furono spiccati, autentici. Queste caratteristiche si riflettono dall’uomo allo studioso, al suo metodo e alla sua opera, al suo concreto lavoro filologico e critico. L'accoglienza, la fedeltà, l’esattezza, la generosità, sono le virtù che Marian praticò nei confronti degli uomini e anche delle loro opere. Occorre insistere soprattutto sul patto di reciprocità e di alleanza nei confronti dei testi, ovvero su quello che chiamerei un abbraccio di accoglienza verso il testo come Altro, come Ospite, riconosciuto, ascoltato, rispettato, accolto con la sua lingua intatta nella casa della propria lingua, che per me connota la figura di Marian Papahagi.
In genere nel commemorare un grande studioso e amico scomparso si portano alla luce i debiti che noi abbiamo contratto nei suoi confronti, come uomo e come maestro. Un simile «gli dobbiamo molto» si deve pronunciare a proposito dei suoi saggi come medievista e modernista, in particolare per il contributo esegetico prezioso su testi difficili anche allo sguardo degli studiosi italiani, quali Guittone e Cavalcanti, e per le magnifiche traduzioni di Dante e di Montale. Ma è sul movimento contrario che io vorrei brevemente soffermarmi, alla luce della prospettiva messa a fuoco da Benveniste: un movimento «di ospitalità e di reciprocità» grazie alle quali i testi di una cultura trovano accoglienza presso un’altra, contribuendo alla maturazione di «alleanze e scambi» di civiltà, di visioni del mondo. Vorrei, insomma, anche per sfuggire a qualsiasi pur involontaria tentazione agiografica, provare a sottolineare non solo quanto noi dobbiamo a Marian Papahagi, ma quanto lui «deve» a noi: perché è «uno di noi».
Secondo la sottile logica benvenistiana che riconosce nell’hospes in un solo momento colui che accoglie e colui che viene accolto, vorrei sottolineare come nell'economia di equilibrio e di compensazione fra «doni» e «contro-doni» il rumeno Marian Papahagi abbia ricevuto doni dalla sua nuova scuola romana, diventando italiano, e come questi doni ricevuti, ripensati e maturati, tornando abbia offerto alla Romania, per riportare infine il suo tesoro accresciuto di nuovo in Italia, all'Accademia di Romania, dirigendo la quale fece fulmineamente rifiorire, in un percorso multiplo di dare-e-avere, di donare-e-ricevere, il rapporto fra la cultura italiana e quella rumena. Non è dunque solo al Papahagi di Cluj che dobbiamo esser grati, ma anche al Papahagi di Roma, come a quello di Lisbona e di Parigi: al Papahagi studioso europeo, simplex et unus.
3. Irina Papahagi, figlia di Marian, ma anche brava allieva sua e della scuola romana di filologia romanza, sotto la guida di Luisa Valmarin e di Arianna Punzi, ha studiato a lungo e in profondità le traduzioni di Dante in rumeno, e ha illustrato l’immensa, elegante fatica svolta da Marian nella versione dell’Inferno dantesco (il destino volle che il suo lavoro fosse spezzato all’altezza del VI canto del Purgatorio). Irina Papahagi ha messo acutamente in evidenza, in un dettagliato confronto con il lavoro di altri traduttori precedenti (soprattutto George Coşbuc, 1925, ed Eta Boeriu, 1965), l’originalità dell’interpretazione di Marian, sposata al rigore filologico, la lucida fedeltà all’intero universo dantesco [9]. Ed è come dire fedeltà alla parola e alla lingua, alla cultura e alle emozioni dell’originale, all’intreccio dei richiami e delle riprese testuali, alle scelte lessicali e soprattutto a quelle rìmiche, che comportano una connessione decisiva fra il dato semiotico della prosodia e del suono e quello semantico del significato, realizzando l’irriducibile sostanza linguistica del tessuto testuale.
Nella traduzione della Commedia di Marian, che è contemporaneamente filologica e artistica, l’intuizione e l’esplorazione del nesso fra suono e senso, fra semiotica e semantica, realizzano una restituzione piena della tessitura originaria. In quest’orizzonte si può cogliere la natura più autentica di Papahagi filologo europeo riconoscendo la misura dell'accoglienza, dell'ospitalità che Marian ha propiziato in seno alla lingua rumena moderna, dell'universo complesso, multiplanare, difficilissimo costituito dalla Commedia. È esattamente in questo immenso esercizio di lettura e di riscrittura, di esegesi e di ermeneutica, sul quale meriterà di lavorare ancora molto per portarlo completamente alla luce, che credo di poter additare la più ricca e completa cifra di Marian Papahagi come grande allievo-maestro della scuola filologica romana-rumena di filologia romanza.
Di questa versione mi limiterò a sottolineare, con un solo, minuto esempio che mi sembra però altamente rivelatore, la straordinaria fedeltà filologica, l’attenzione portata ai dettagli soprattutto in sede di rima e di rimante, in quella posizione che un filosofo del livello di Giorgio Agamben ha definito versura, «dal termine latino che indica il punto in cui l’aratro si volge al termine del solco, questo tratto essenziale del verso, che forse perché troppo evidente, è rimasto innominato tra i moderni» [10]. Nella rima, dice ancora Agamben, si fa tangibile lo «scisma di suono e senso»: «poiché che cos’è la rima, se non lo scollamento tra un evento semiotico (la ripetizione di un suono) e un evento semantico, che induce la mente a esigere un’analogia di senso là dove non può trovare che un'omofonia?».
Nel luogo critico in cui il verso finisce, nella pausa di sospensione del bianco ove si attende, al verso successivo, il ritorno del senso e del ritmo, la mente di chi legge, ripetendo il gesto di chi ha scritto, si sforza di «trovare un significato» a quella versura che spezza il discorso e a quella strana eco del suono, attivando insieme la memoria di ciò che è appena stato pronunciato e l’attesa di ciò che dovrà tornare. Molto acutamente Agamben, ricordando che le prime manifestazioni di un’idea di ritorno rìmico si hanno nella poesia cristiana dell’età di Agostino, ha riflettuto sulla contiguità del tempo messianico con quella del “ritorno” di un suono attraverso cui si costituisce un senso, definendo la poesia «un organismo o un congegno temporale teso, fin dall’inizio, verso la propria fine», e insistendo sull’«escatologia interna al poema». La rima, ha concluso Agamben, «nasce nella poesia cristiana come transcodificazione metrico-linguistica del tempo messianico, strutturato secondo il gioco paolino delle relazioni tipologiche e della ricapitolazione. […] La rima […] intesa in senso ampio, come articolazione della differenza tra serie semiotica e serie semantica, è l’eredità messianica che Paolo lascia alla poesia moderna, e la storia e il destino della rima coincidono nella poesia con la storia e il destino dell'annuncio messianico. […] Quando Hölderlin, alle soglie del nuovo secolo, elabora la sua dottrina del commiato degli dei – e, in particolare, dell’ultimo Dio, Cristo -, allora, nel punto in cui assume questa nuova ateologia, la forma metrica della sua lirica si spezza fino a perdere, negli ultimi inni, ogni riconoscibile identità. Il congedo degli dei fa tutt’uno colla scomparsa della forma metrica chiusa, l’ateologia è immediatamente aprosodia» [11].
4. Per queste ragioni, insieme con la filosofia e la teologia, anche la filologia riflette sulla rima, sul suo costituirsi come evento di una mente che si affaccia in cerca di significato sul bordo del vuoto. Roberto Antonelli ha intuito che la rima è chiamata così probabilmente perché è, appunto, «rima», cioè, in latino, frattura, fessurazione fra la parola e il vuoto, fra il senso e il silenzio, il bianco. «La scrittura poetica», scrive Antonelli «si costituisce […] intorno all'elemento più forte e rilevato del verso, l'omofonia finale, all'interno di un sistema in cui alcuni rimanti svolgono un ruolo-guida e una funzione insieme semantica e segnaletica. Le serie rìmiche (Reimbildungen) segnano con la loro fortuna alterna e le loro permanenze e varianze il percorso poetico e permettono anche di individuare con una certa facilità l'articolazione del nesso tradizione-innovazione nonché le interrelazioni interne. Una volta analizzate non solo verticalmente ma anche intertestualmente, a livello di sistema, le serie rìmiche si rivelano come la “struttura portante” del testo poetico e quindi, potenzialmente, come l’elemento trasversale attraverso cui è possibile percorrere i testi in quanto scritture» [12]. La densificazione del tempo testuale e della semantica del verso nella parola che contiene la rima, e nell’energia che, al di là del testo, si proietta nel futuro della tradizione che sceglierà o cancellerà quell’impegno di significazione, rappresenta la forza rivoluzionaria di questa tecnica costruttiva, dominante nell’Europa romanza e poi nel mondo intero, a partire dai trovatori provenzali e per quasi mille anni.
Il buon Dio, diceva Aby Warburg, si nasconde nel dettaglio; ma può nascondervisi anche il diavolo: dipenderà dalla rilevanza e pertinenza del dettaglio in ordine al suo ruolo nel sistema generale a cui appartiene, e che è chiamato a rappresentare nell’esemplificazione che ambisce a stabilire regole generali di comportamento. Un eccellente esempio di «buon dettaglio» è la categoria di serie rìmica, la catena che lega, vincolandoli, alcuni rimanti, i quali tornano solidali e si dislocano in luoghi critici e cruciali, investiti per tal via di valori aggiunti e di forza rievocativa che l’evento fonetico-semantico del ritorno della catena esalta e connota. Il ritorno dei rimanti e delle catene di rimanti costituisce tradizione e rappresenta un evento selettivo, una scelta impegnativa sul piano letterario come su quello ideologico e perfino etico, deontologico. A Roma si è lavorato e si lavora molto in questa direzione. E Marian di questi problemi parlò con noi, tanti anni fa, lasciando un’eredità viva, che oggi sentiamo echeggiare nei suoi studi e, concretamente attivata, nelle sue traduzioni, insieme al tesoro culturale di Roncaglia, di Antonelli e della loro scuola.
Credo che a Marian piacerebbero le ricerche recenti in questo settore che continuano lo slancio da lui ricevuto e nuovamente impresso, e che le discuterebbe volentieri insieme con gli autori, perché anche suoi sono i discorsi condivisi dai giovani studiosi rumeni-romani: da Monica Fekete, che ha studiato la presenza di Dante (e di Boccaccio) in Romania [13]; da Arianna Punzi, con il suo innovativo Rimario della “Commedia” per terzine [14]; da Carlo Pulsoni, con il suo importante libro sulla tecnica compositiva di Petrarca e numerose altre ricerche originali [15]; da Paolo Canettieri, con Il gioco delle forme e le ricerche sul ritorno di rimanti jacoponici nell’incipit della Commedia [16]; da Giovanna Santini, con la sua ricerca sul legame fra il lessico rìmico trobadorico e quello della lirica italiana del Duecento [17]; da Mira Mocan, con i suoi studi sulla presenza del lessico spirituale di Ugo e Riccardo di San Vittore nella poesia dei trovatori, nella Commedia e in Petrarca [18]; da Gioia Paradisi, con le sue notevoli ricerche sulla metafora cosmologico-testuale del «nodo» e del «volume legato con amore» [19].
5. Fra tutti questi studiosi mi limiterò a citare Arianna Punzi, la quale ha sintetizzato in maniera eccellente tutti i problemi di metodo relativi alla rima che sto evocando, e su cui Marian Papahagi ha riflettuto, fra Roma e Romania, mentre lavorava sulla sua traduzione della Commedia: «Le serie rimiche divengono […] la chiave di lettura dei rapporti intertestuali che ogni autore instaura con l’universo letterario circostante sia sul piano sincronico […] sia in diacronia, tanto da consentirci di misurare la lunga durata della tradizione. La costanza di determinate serie rìmiche all’interno della produzione di un singolo poeta rivela, inoltre, la presenza di un “sistema” e di un orizzonte d'attesa che si realizza internamente all’opera stessa, attraverso una serie di connettivi testuali fra luoghi diversi del testo. Nella Commedia, organizzata anche sul piano macrostrutturale in maniera da creare precisi collegamenti interni, le serie rìmiche rappresentano una componente importante del tessuto memoriale dell’opera, tessuto sostanziato di immagini e parole, ma anche di suoni che riverberandosi da un punto all’altro del poema arricchiscono di nuovi sensi la lettera del testo» [20].
Marian avrebbe sorriso di felicità e di fierezza se avesse potuto leggere queste parole (che sono del 2001) di un’allieva dei suoi stessi maestri, e forse in parte anche sua. Qui, infatti, trovo la prova più limpida dell'appartenenza reale di Marian Papahagi alla scuola filologica romana: nell’attenzione, durante il concreto lavoro di ermeneutica attiva costituito dalla traduzione della Commedia in endecasillabi e in rime scandite in terzine, per il luogo in cui la rima incarnandosi in una parola aumenta il potenziale semiotico-semantico del testo, condensandone l’energia e riversandola a ritroso sull’intero verso e su quelli che ad esso si sono legati e si legheranno.
Soprattutto, nel trasporre da un codice linguistico all’altro, Papahagi dimostra di aver riconosciuto l'importanza delle rime e dei rimanti scelti da Dante, e la necessità di conservarne non tanto lo slittamento di identità mot à mot, ma di certo la struttura, il sistema, la serie. Ho detto che avrei richiamato un solo, minimo dettaglio altamente significativo, capace di incarnare il metodo di lavoro di Marian. Si tratta di un elemento di carattere linguistico ma anche grafico, di filologia materiale. Anche sul piano delle architetture strutturali il traduttore fedele in profondità ai valori formali, oltre che a quelli semantici e ideologici del testo che sta volgendo nella propria lingua, riconosce nell’originale e ricostruisce nella traduzione cellule identiche riprese intenzionalmente dall’autore, e dunque anche dal suo accogliente ermeneuta-traghettatore.
6. A Marian e alla sua memoria offro un esempio splendido di come la comprensione di un testo poetico in ogni sua dinamica intrinseca, in ogni campo di tensione nella forma e nei contenuti, sia il presupposto ineludibile alla versione; e di come l’ermeneutica della traduzione consenta anche di arricchire il valore del testo originale. Nel canto I, proprio all’inizio del testo, Marian deve tradurre uno dei versi più celebri dell’intera Commedia: «esta selva selvaggia e aspra e forte» (v. 5). Ha davanti a sé alcuni problemi fondamentali: conservare anche in rumeno la misura metrica dell’endecasillabo, la dispositio verborum, soprattutto la parola in rima, senza alterare il valore semantico del verso. La soluzione scelta è splendida, e parla chiaro intorno al suo genio di traduttore, uno dei migliori in assoluto in tutte le lingue romanze: «pădurea păduroasă, aspră foarte» è la resa di Papahagi. Si rispettano tutte le contraintes (come le chiamava Raymond Queneau) dislocate dall’autore, anche la figura etimologica, con attenzione per gli equilibri sottili che stringono quel verso ad altri: così «pădurea» (“selva”) riprende il «pădure» che, già in rima al v. 2, di necessità scalza l’aggettivo «oscura», rimante nell’originale, anticipato con «beznă», “buio”: «mă pomenii în beznă-ntr-o pădure».
Il dato morfosintattico e fonetico da sottolineare è che là dove l’italiano dice «aspra e forte» la resa in rumeno, fedelissima sul piano semiotico e di conseguenza, grazie all’intensità di coincidenza dei suoni, anche su quello semantico, è: «aspră foarte», ossia, alla lettera, “molto aspra” (o meglio “aspra molto”). Con questa scelta Marian, conservando la struttura di frase imperniata su «aspra»/«aspră», annulla la dittologia e disloca il senso dell’aggettivo «forte», che in rumeno sarebbe «puternic», «tare», sull’avverbio intensificativo «foarte», “molto”. Una soluzione geniale. Marian Papahagi ha intuito perfettamente che la difficoltà maggiore posta dal testo della Commedia è la creazione linguistica, la forza della metafora, la carica semantica affidata alla potenza allusiva della parola.
Credo che Dante, se Marian gli spiegasse le regole del rumeno, accetterebbe che «aspră foarte» renda il suo «aspra e forte». La definizione splendida di Paul Valéry, «Le poème – cette hésitation prolongée entre le son et le sens» [21], ha di certo guidato le scelte di Marian: nella sua versione il suono e il senso si ritrovano finalmente uniti. Pochi versi dopo, in «lo passo / che non lasciò già mai persona viva» (Inf., I 26-27), il vocabolo-chiave «il passo» è reso semplicemente con «pasul», anche se Papahagi sente il bisogno di precisare, in nota: «Trecătorea (în original: lo passo), cu alte cuvinte pădurea plină de primejdii» [22]. Il termine ricompare, amplificato nel sintagma «alto passo», in Inf., II 12: «prima ch’a l’alto passo tu mi fidi»; e qui Marian conserva l’ampio respiro dantesco: «cât pasul marii treceri nu-i făcut». Nella nota, dovuta allo stesso Marian, si mette in luce l’importanza del verso nell’economia del ruolo dello stesso autore nel viaggio oltremondano: «Ezitarea lui Dante și, mai târziu, precedentele invocate au menirea să sublinieze din nou, prin contrast, unicitatea destinului rezervat de providență poetului» [23]. Molti canti dopo, nel cruciale racconto di Ulisse sul «folle volo» («zborul nebun»: Inf., XXVI 125) del viaggio suo e dei suoi compagni oltre i confini del mondo, verso la «montagna bruna» del Purgatorio, la memoria filologico-poetica di Marian gli consente di avere dinanzi agli occhi, con lucidità, il collegamento di questo luogo con il II canto, nella ripresa del sintagma «l’alto passo», che stringe esplicitamente in uno stesso nodo semantico il viaggio di Dante e quello di Ulisse: «poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo», che diventa: «de când în marea trecere ne-am prins» (Inf., XXVI 132). E qui si può individuare uno straordinario esempio di memoria testuale interna nella Commedia compresa e conservata nella sua struttura lessicale, anche al di fuori della posizione vincolante della serie rìmica.
In realtà questa mnemotecnica intratestuale si rivela ancor più luminosa e complessa grazie all’individuazione di una fonte segreta che interferisce in maniera sotterranea nel lavoro di traduzione, creando un nuovo campo di tensione di formidabile potenza. A metterlo in luce è stata per prima un’ottima allieva di Marian a Cluj-Napoca e mia quando insegnavo alla “Sapienza” di Roma, Mira Mocan, ormai maestra a sua volta, a cui si devono studi fondamentali su Dante, autrice anche dell’Introducere all’edizione rumena del 2012 e, con gesto di pietas umana e filologica, di una preziosa completarea comentariilor a partire dal canto VII dell’Inferno. Nella nota da lei redatta a proposito di Inf., XXVI 132, Mira fa cenno con acuta sobrietà a una raccolta lirica del 1924 del grande poeta rumeno Lucian Blaga, intitolata appunto, con intensa evocazione dantesca, În marea trecere: «Traducerea expresiei alto passo în limba română trimite, printr-o fericită intuiție, la Lucian Blaga» [24].
La felice intuizione è in realtà di Mira Mocan, e ci svela un’originale, felicissima intuizione di Marian Papahagi: la memoria poetica di Blaga ha conservato e per così dire iperconnotato il senso dell’«alto passo» dantesco, accogliendolo nella «casa della propria lingua». In questo modo è impossibile per un orecchio rumeno non cogliere Dante in Blaga – e Blaga in Dante – e Dante e Blaga insieme, ormai fusi in un nodo inestricabile, in Marian Papahagi. Adattando la fortunata formula di Gianfranco Contini secondo cui, al di là delle appartenenze ideologiche, dopo Croce non possiamo più non dirci post-crociani («Il solo modo di essere crociani è di essere post-crociani») [25], così sosterrò che dopo În marea trecere di Blaga il verso di Dante «poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo» non può essere tradotto in rumeno («de când în marea trecere ne-am prins») senza che l’eco della lirica moderna interferisca con l’accoglienza del poema antico.
Un altro interessantissimo, speculare esempio dell’eco memoriale che si riverbera nella traduzione di un classico la colgo nella bella versione russa della Commedia realizzata fra 1939 e ’45 da Michail Lozinskij. Quando giunge a rendere i versi famosi del V dell’Inferno, Lozinskij per tradurre «e come i gru van cantando lor lai, / faccendo in aere di sé lunga riga» (Inf., V 46-47) usa la formula «kak djuravlìnij klin», letteralmente «come un cuneo di gru…» [26]. In apparenza si tratta di una libera versione: ma il suo valore diventa altissimo se si ricorda che Lozinskij fu legato al movimento dell’acmeismo a cui parteciparono Anna Achmatova e Osip Mandel’štam, il quale nel 1933 scrisse Разговор о Данте (Discorso su Dante), forse il più bel saggio su Dante di tutto il Novecento, a lungo rimasto sommerso nell’oblio, e recuperato attraverso il samizdat da Angelo Maria Ripellino nel 1967, con la traduzione di Maria Olsoufieva [27]. In una poesia di Mandel’štam di molti anni prima (1915), aperta dal verso Notte d’insonnia, Omero. Vele tese laggiù e tramata da evocazioni omeriche e dantesche («Vsjo dvìžetsja ljubòv’ju», ossia «L’amore tutto muove», forse con l’interferenza del virgiliano «Omnia vincit amor») [28] si scoprono almeno altri due sintagmi che sono espliciti innesti danteschi. Remo Faccani li traduce con «corteo di gru» e «cuneo di gru»: ma l’originale è, appunto, «kak djuravlìnij klin», cioè esattamente l’emistichio inserito da Lozinskij nella sua versione. Come Marian Papahagi sentirà risuonare nella memoria filologico-poetica rumena il “suo” Blaga che citava Dante, così, traducendo la Commedia, Lozinskij non poté non ascoltare e accogliere l’eco letterale del verso del “suo” Mandel’štam, ospitandola nella casa del suo testo.
7. Nei primi anni Duemila, subito dopo la scomparsa di Marian, parlai a lungo di simili problemi legati alla traduzione di un classico con Irina Papahagi e con Mira Mocan, mentre stavano apprestando l’edizione che sarebbe apparsa poi nel 2012. Irina, in particolare, prese a studiare le carte manoscritte oggi a Cluj, e riuscì a portare alla luce, fra le varie stesure del lavoro [29], oltre ai manoscritti con il testo rumeno, che Marian come sempre numerava per terzine (nella TAVOLA I l’incipit del I canto dell’Inferno), in particolare un foglio molto interessante (TAVOLA II) che contiene l'abbozzo della traduzione di Inferno IV, versi 37-72 (i successivi sono nella TAVOLA III, che si riproduce). Nel semplice, consumato foglietto pieno di correzioni e cancellature riprodotto nella TAVOLA II è celato, eppure perfettamente in vista, come la «lettera nascosta” di Poe, il «dettaglio del buon Dio».
Nel 1997 Marian stesso pubblicò la versione sulla rivista «Apostrof»: ma il minuto particolare della fatica preparatoria è ovviamente scomparso, cancellato dal lavorìo correttorio in vista della stampa. Invece nella fotografia si vede bene che alla fine del primo foglio, sulla sinistra, in corrispondenza dei vv. 60-64 ma con riferimento ai vv. 70-72, Marian appuntò per propria memoria la serie dei rimanti rumeni da utilizzare: parte (al v. 73: corrispondente all’italiano «parte»), desparte (al v. 75: ossia «divide», «separa»). Essi compaiono infatti nella versione completa. E subito prima, nell’elenco, si legge departe (che significa «lontano»), parola con cui Marian apre il v. 71: pur non essendo un rimante, ma l’attacco di una terzina, il traduttore raffinato sente il bisogno di costruire una catena semantica aperta proprio dall’avverbio «departe» (con cui è reso il dantesco «di lungi»), il quale viene così ad aprire la prima delle due terzine che contengono i rimanti parte e desparte:
Departe nu eram noi mai deloc,
așa încât eu pricepui în parte:
lume cinstită sta în acel loc. 72
«O, tu, care cinstești științe și arte,
cine-s acești, cinstire-având, semeață
încât de ceilalți totul îi desparte?» [30] 75
Marian Papahagi, scrivendo intorno alla traduzione della Boeriu, a proposito del «diritto del traduttore di inventare» si domandava: «si può collaborare con Dante?». Rispondeva di sì, perché «qualsiasi traduzione è [...] un atto di interpretazione» [31]. Ma poi, quando era lui a tradurre, non “inventava” neppure una parola, e invece di inventare preferiva invenire, cioè “trovare” la verità nella fedeltà alle parole di Dante. Quel che mi pare notevole, infatti, è che qui Marian, con un gesto che è davvero un abbraccio amorevole, colse un luogo di magnifica affinità semiotica e semantica fra italiano e rumeno, dove grazie alla prossimità lessicale delle due lingue romanze, si poteva conservare la specularità delle parole italiane in quelle rumene: «in parte» / «în parte», v. 71; «arte» / «arte», v. 73; «diparte» / «desparte», v. 75. E tutta la serie, come ho detto, è aperta dall’iniziazione/fondazione «departe» che traduce «di lungi», al v. 70. In questo modo Marian è riuscito a rappresentare performativamente nella serie dei rimanti la splendida figuralità del tema trattato: quello della lontananza, del dipartirsi, fissato nella circolarità fra l’incipitario «departe» e il conclusivo «desparte».
Nel ricordare Marian, oggi, stiamo parlando in realtà ancora di questo: di una lontananza, di una dipartita, di un’attesa ininterrotta. E cerchiamo consolazione nella fedeltà alla parola data, nella corrispondenza fra ciò che abbiamo ricevuto e ciò che offriamo in contro-dono.
8. Non sfuggì a Marian che nell'intreccio dei rimanti danteschi (parte 71, arte 73, diparte 75), così fedelmente e acutamente rispecchiati in quelli rumeni da lui scelti insieme con un incipit solidale (departe, parte, desparte), a quest'allegoria della dipartita e della perdita, della lontananza come figura della poesia, della vita e della morte, si intreccia l’altro dell'«onora[re] scïenzïa e arte» che, come si ricorderà, lega proprio in un abbraccio fra amici legati da fiducia reciproca i sei poeti, cinque antichi e uno moderno, che s’incontrano nella «bella scola» dall’«altissimo canto», con il ritorno di Virgilio “dipartitosi” per cercare Dante, separato dal gruppo, andato lontano e atteso con speranza.
Il rumeno di Marian è specchio fedele e bellissimo dell’italiano di Dante, ne riflette la luce e le simmetrie architettoniche. Ma è il gesto della sua mano sul foglio, che ripete quello della sua mente, a colpirci. È lo stesso gesto che fu forse di Dante, e che è certo dei poeti quando scrivono, e dei filologi quando li trascrivono e li studiano. In realtà non si trovano molte prove concrete di questa pratica di lavoro, fissate con sicura evidenza testimoniale su un solo foglio, che consenta di riconoscere e decrittare la progressione nelle fasi di scrittura. Un affine gesto di consuetudine lavorativa, che corrisponde a una pausa di riflessione del pensiero proprio in rapporto con Dante lo si ritrova anche nei libri che Marian possedeva e studiava: ad esempio (debbo anche questo documento prezioso alla generosità di Irina e di Adrian Papahagi) nella traduzione della Commedia della Boeriu che Marian studiò e meditò evidentemente anche negli anni in cui si chinava sul “suo” Dante.
Si vede con chiarezza come, procedendo nella traduzione, anche mentre verificava la corrispondenza delle scelte altrui con l’originale italiano, andava abbozzando una propria diversa soluzione, che infatti si ritrova puntualmente nella stampa. In questo caso si tratta dell’ultimo verso del I canto dell'Inferno, che la Boeriu aveva reso con: «Pornii atunci şi eu pe urmă lui»; Papahagi aggiunge, nel rigo bianco sottostante: «Porni atunci, eu m-aţinui pe urmă». Nella pagina successiva, all’altezza dei vv. 7-9 di Inferno II, accanto alla versione della Boeriu («O Muze, -o, geniu, ajutaţi-mi vrerea / şi tu, o minte, care-ai scris şi crezi / cîte-ai văzut, aici să-ţi văd puterea!») Marian tracciò una linea verticale sulla destra, e accanto aggiunse a matita: «Inf XXVI / vrere / putere», rinviando a un luogo in cui nella sua memoria riappariva la stessa serie rìmica.
In queste lievissime tracce, minuzie che rivelano un modo di pensare e di operare, il moto rapido della mano rappresenta e ferma nella concretezza di un segno grafico il gesto della mente: è un ponte lanciato dalla mente attraverso la mano verso il futuro, annodando un progetto alla sua realizzazione a venire. Ad esempio un rimante o un sistema di rimanti pensati e annotati prima che il testo poetico nasca, con l’inglobamento nella tessitura verbale di quella parola o di quella sequenza di parole. In questo caso diviene possibile usare un dettaglio minuto e in sé inessenziale come chiave per aprire la porta della “stanza della creazione”. Così si entra nel laboratorio del poeta, o del suo traduttore-ricreatore, portando alla luce «come è avvenuta la costruzione del testo poetico da parte dell’Autore, per tutta la durata della poesia rimata, e dunque qual è il rapporto reale che si istituisce sul piano effettuale, “creativo”, fra verso e rima» [32].
Dopo lunghe ricerche mi è riuscito di scovare qualche altro campione di simili rarissimi, minuscoli, preziosi gesti grafici capaci di mostrare come la ricerca della serie rìmica preceda la scrittura del testo poetico. Una l’ho trovata fra gli appunti di lavoro, ma anche creativi, di Angelo Colocci, filologo cinquecentesco a me caro (gli ho dedicato numerosi studi), che ebbe anche qualche velleità poetica di onesto sapore petrarchistico. Così nel codice Vat. lat. 4831, un suo zibaldone pieno di materiali lirici originali pubblicato e studiato con eccellente acribia e finezza ermeneutica da Marco Bernardi [33], l’egloga dialogata Da poi che semo in queste verde pratora offre un microscopico esempio di lavoro sui rimanti riconducibile a una fase genetico-correttoria che può essere puntualmente descritta, e che permette di illustrare «la tecnica con cui Colocci sembra costruire i suoi componimenti. […] Certi punti del testo invitano a supporre che egli partisse da un’ossatura rimica almeno parzialmente predeterminata» [34]. Al fol. 4v (TAVOLA IV), verso la metà della carta, «un verso rimasto incompiuto per la presenza al suo interno di una cassatura non più sostituita, reca la parola-rima che l’autore intendeva utilizzare in clausola, isolata al fondo del verso e scritta nell’interlinea» (TAVOLA V). Un rimante raro e sdrucciolo («nuguli», per «nugoli»), è annotato, ma il verso sulla sinistra rimane incompleto, bianco; quella parola andrà intesa «come semplice appunto per introdurre la nuova rima che Colocci aveva intenzione di usare» [35], nella serie con i successivi frugoli e fugoli.
La traccia fermata con questo lemma in vista di un suo inserimento entro un verso ancora da farsi è per così dire il fermo-immagine di un gesto mentale, la fotografia di un’idea colta nel suo divenire azione che prelude a un’altra azione futura, compiuta o no (sì nel caso del filologo Papahagi; no in quello del poeta-filologo Colocci). Quando poi si scopre in un altro zibaldone colocciano, il Vat. lat. 4818, ai fogli 117-124, un lungo elenco di parole sdrucciole raccolte per rima, e in una sezione dell’elenco (fol. 121v, III colonna in basso: cfr. TAVOLA VI e TAVOLA VII) si ritrovano proprio i rimanti utilizzati nel corpo dell'ecloga del Vat. lat. 4831 (frugoli / nugoli / fugoli / strugoli / jugoli), le successive azioni mentali e manuali compiute dal Colocci filologo e dal Colocci poeta diventano trasparenti, comprensibili, ordinabili.
9. Un altro esempio, questa volta nelle carte di un poeta vero e grande, l'ho trovato per una lirica di Giovanni Pascoli, poeta che fu anche profondo filologo (TAVOLA VIII, tratta dall’edizione critica curata da Giuseppe Nava) [36]. Si tratta dell’abbozzo di una mediocre poesia (Il bove), che però permette di vedere chiaramente in sequenza la serie di tre rimanti (brume, fiume, lume) fermati in alto a destra (la zona di sinistra è in parte riempita con abbozzi di singoli versi), in corrispondenza verticale con Nume, che invece chiude un verso compiuto («come le mandre dell'antico Nume»), il quale diventerà l'ottavo del sonetto. La serie completa, brume, fiume, lume, Nume, entra poi nella redazione piena della lirica, che nella seconda parte del foglio si apre con «Dal verde poggio di tra vaghe brume».
Mi piace chiudere qui questo mio ricordo di Marian, sul gesto della mano di uno studioso e poeta, di un filologo che prepara il proprio lavoro di scrittore e che, rapido, come facevano nei loro zibaldoni Leonardo e Leopardi con centinaia e anche migliaia di “eccetera”, appunta il desiderio di tornare là dove lo scontro fra la velocità della mente e la tardezza del corpo non consentiva di fermarsi mentre la forma fluens del pensiero scorreva e prendeva il profilo definitivo.
La vediamo nettamente, la mano di Marian, mentre, come facevano Giovanni Pascoli e Angelo Colocci e di certo anche tanti altri filologi e poeti quando creavano e studiavano, annota la serie dei rimanti, e per così dire scrive da destra verso sinistra, cioè pensa e realizza la traduzione secondo la stessa scansione cronologica e lo stesso percorso attraverso cui l’autore pensò e creò il testo: a partire dal rimante. «La scrittura poetica si costituisce […] intorno all’elemento più forte e rilevato del verso, l’omofonia finale, all’interno di un sistema in cui alcuni rimanti svolgono un ruolo-guida e una funzione insieme semantica e segnaletica. Le serie rìmiche (Reimbildungen) segnano con la loro fortuna alterna e le loro permanenze e varianze il percorso poetico e permettono anche di individuare con una certa facilità l’articolazione del nesso tradizione-innovazione nonché le interrelazioni interne. Una volta analizzate non solo verticalmente ma anche intertestualmente, a livello di sistema, le serie rìmiche si rivelano come la “struttura portante” del testo poetico e quindi, potenzialmente, come l’elemento trasversale attraverso cui è possibile percorrere i testi in quanto scritture» [37].
Ancora una riflessione. Nel pubblicare il primo numero di «Critica del testo», espressione della “scuola romana di Filologia romanza”, nel 1998, l’anno prima che Marian scomparisse e interrompesse il suo lavoro di lunga fedeltà a Dante accogliendo della propria lingua quella del più alto fra i poeti, Roberto Antonelli sottolineava l’importanza del rimante come luogo di inizio nella scrittura interiore del testo poetico: «Il poeta inizi[a] dalla fine» [38]. Negli anni precedenti, a Cluj-Napoca, dove nel 1994 aveva fondato la cattedra di Filologia romanza, quindi, dal dicembre 1997 al gennaio 1999, a Roma, dove diresse l’Accademia di Romania, Marian Papahagi svolgeva in factis le stesse riflessioni, che aveva accolto nel dialogo con i suoi maestri romani, primi fra tutti Aurelio Roncaglia e Luciana Stegagno Picchio. Nel 1997, come ho detto, i primi canti dell’Inferno tradotti apparvero su «Apostrof».
Marian comprese perfettamente come l’energia semiotico-semantica che viene a concentrarsi nel rimante, conquistato attraverso un lavoro valutativo e selettivo, si distenda fulmineamente in due direzioni: verso sinistra, coinvolgendo e arricchendo di nuovi valori il verso che è appena stato cesellato e che il rimante sigilla; verso destra, scavalcando la «rima», la frattura versale, la fessurazione del significato imposta dal bianco della pagina, e proiettandosi in questo slancio in direzione dei versi successivi, ove quel rimante incontrerà infine la sua eco e il suo specchio, già contenuti in lui così come l’avvento del Messia lo è nel suo annuncio e nell’attesa di un ritorno, che ne consegue.
Con il lieve movimento delle dita che stringono una penna si attiva il gesto culturale della traduzione, e insieme si avvia anche un’interpretazione. Questo movimento infinitesimale è capace di abbozzare in forma di parola quello che Michelangelo chiamava il disegno interiore. Il foglio manoscritto con l’elenco di una serie rìmica trasmette una minima, importante traccia di memoria, riflesso di una dinamica mentale, dinamogramma interiore, per usare un termine di Aby Warburg.
Così Marian, pensando a come rendere nella partitura linguistica l’ordito verticale delle rime e dei rimanti e la trama orizzontale delle undici sillabe di ciascun verso italiano, colse il volo della mente di Dante: con il gesto culturale della sua traduzione lo trasmise a noi, illuminando tacitamente le ragioni del testo rumeno, ma anche accrescendo l’interpretazione di quello italiano.
Tutto questo avviene e si manifesta in un attimo, attraverso il guizzo della mente sua, della sua mano, davanti ai nostri occhi, e nella mente di noi suoi fedeli lettori e amici, vent’anni dopo.
Corrado Bologna
(n. 10, ottobre 2019, anno IX)
Tavola I - Ms. autografo di M. Papahagi
Cluj-Napoca, Ms.D.Cj.1982, Inferno, c. I, vv. 1-27
Tavola II – Ms. autografo di M. Papahagi
Cluj-Napoca, Ms.D.Cj.1982, Inferno, c. IV, vv. 37-72
Tavola III - Ms. autografo di M. Papahagi
Cluj-Napoca, Ms.D.Cj.1982, Inferno, c. IV, vv. 73-114
Tavola IV Vat.lat. 4831 fol.4v
Tavola V Vat.lat. 4831 fol.4v dettaglio
Tavola VI Vat.lat. 4818 fol.121v
Tavola VII
Vat.lat. 4818 fol.121v dettaglio
Tavola VIII ms
NOTE
1.Cfr. É. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 2 voll., Les Éditions de Minuit, Paris 1969, I, Économie, parenté, société; tr. it. Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, 2 voll., ed. it. a cura di M. Liborio, Einaudi, Torino 1976, I, Economia, Parentela, società, Sezione seconda, pp. 47-90.
2. Id., Dare, prendere e ricevere, ibid., pp. 59-63 (alle pp. 59-60).
3. Id., Dono e scambio, ibid., pp. 47-58 (a p. 50; i corsivi sono dell’autore).
4. Id., La fedeltà personale, ibid., pp. 76-90 (a p. 77).
5. Ibid., p. 76.
6. M. Bettini, Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico, Einaudi, Torino 2019, pp. 97-98.
7. A. Prete, L’ospitalità della lingua. Baudelaire e altri poeti, Manni, Lecce 1996, Premessa, pp. 5-11 (a p. 5), ripresa anche nella nuova ed. ampliata, ibid. 2014, pp. 7-11 (a p. 7). L’idea della traduzione come accoglienza nella casa di un’altra lingua per chi, come l’autore che si traduce, viene da lontano, è stata svolta a partire dall’allegoria dell’amor de lonh di Jaufre Rudel da A. Berman, La traduction et la lettre ou l’auberge du lointain, Paris, 1999, tr. it. La traduzione e la lettera o l'albergo nella lontananza, a cura e con un saggio di G. Giometti, Quodlibet, Macerata-Roma 2003.
8. A. Prete, Premessa alla nuova edizione, in L’ospitalità della lingua, ed. 2014 cit., pp. 5-6 (a p. 5).
9. Irina Papahagi discusse la sua tesi di laurea, dal titolo La Fortuna di Dante in Romania. Appunti sulle traduzioni della DivinaCommedia in rumeno, nell’a. a. 2003-2004, presso l’Università “La Sapienza” di Roma (relatore P. Stoppelli, correlatrice L. Valmarin). Uno studio sui manoscritti e dattiloscritti della versione di Marian, e di alcune notevoli varianti “genetiche”, è stata da lei presentata nella prefazione a: Dante Alighieri, Divina Comedie. Infernul, Traducere din italiană și comentarii de Marian Papahagi, cu o Prefață de Irina Papahagi. Ediție îngrijită, introducere și completarea comentariilor de Mira Mocan, Humanitas, București 2012, pp. 7-17.
10. G. Agamben, Idea della prosa, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 21-23. Di Agamben sono fondamentali le riflessioni sul valore poetologico di fenomeni tecnico-formali raccolte in Id. Categorie italiane. Studi di poetica, Marsilio, Venezia 1996; nuova edizione: Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura, con postfazione di A. Cortellessa, Laterza, Roma-Bari 2010; si veda in particolare il saggio La fine del poema (1996), ed. 2010, pp. 138-144 (alle pp. 139-140; da qui anche le citazioni che seguono).
11. G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 82-84. Il libro, che è una mirabile letture delle prime parole della lettera paolina, contiene al suo interno anche un’ermeneutica fondamentale del rapporto fra «il poema e la rima» (pp. 77-84), dell’«escatologia interna al poema» (p. 78), dello stretto legame fra testo poetico e «tempo messianico» (p. 82).
12. R. Antonelli, Tempo testuale e tempo rìmico. Costruzione del testo e critica nella poesia rimata, in «Critica del testo», I/1 (1998), Il testo e il tempo, pp. 177-201.
13. Cfr. M. Fekete, La presenza di Dante in Romania, in Leggere Dante oggi. Interpretare, commentare, tradurre, Aracne, Roma 2011, pp. 213-220; Ead., La presenza di Boccaccio in Romania, in In memoria di Bruno Porcelli, vol. I, Boccaccio come modello, a cura di A. Casadei, M, Ciccuto, D. De Camilli, G. Masi, ed. F. Serra, Pisa 2013 (= «Italianistica. Rivista di letteratura italiana», XLII/2-3), pp. 97-106.
14. Cfr. A. Punzi, Rimario della Commedia di Dante Alighieri, Bagatto Libri, Roma 2001.
15. Ricordo solo un paio di notevoli saggi metricologici di C. Pulsoni: La tecnica compositiva nei Rerum vulgarium fragmenta. Riuso metrico e lettura autoriale, Bagatto libri, Roma 1998; Id., La sestina nel Novecento italiano, in E vós Tágides minhas.Miscellanea in onore di L. Stegagno Picchio, Viareggio-Lucca 1999, pp. 541-49.
16. Cfr. P. Canettieri, Laude di Iacopone da Todi, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Le Opere, vol. I, Dalle Origini al Cinquecento, Einaudi, Torino, 1992, pp. 121-152; Id., La sestina e il dado. Sull’arte ludica del «trobar», Roma 1993; Id., Il gioco delle forme nella lirica dei trovatori, Bagatto libri, Roma 1996; Id., La metrica e la «numerabilità» del tempo, in «Critica del testo», I/1 (1998) cit., pp. 141-176; Id., Iacopone e la poesia religiosa del Duecento, Milano, 2001; Id., Metrica e memoria, in «Rivista di filologia cognitiva», gennaio 2003 (on line).
17. Cfr. G. Santini, Tradurre la rima. Sulle origini del lessico rimico nella poesia italiana del Duecento, Bagatto libri, Roma 2007.
18. Cfr. soprattutto: M. Mocan, La trasparenza e il riflesso. Sull’«alta fantasia» in Dante e nel pensiero medievale, Bruno Mondadori, Milano 2007; Ead., «Lucem demonstrat umbra». La serie rimica ombra : adombra e il lessico artistico Dante e Petrarca, in «Critica del testo», XIV/2 (2011 = Dante, oggi, 2), pp. 389-423; Ead., L’arca della Mente. Riccardo di San Vittore nella Commedia di Dante, Olschki, Firenze 2012.
19. Cfr. G. Paradisi, Icone nella parola: il «volume»«legato con amore» (Pd, 33, 86), in «Critica del testo», XIV/2 (2011 = Dante, oggi, 2), pp. 349-387.
20. A. Punzi, Rimario della Commedia di Dante Alighieri cit., p. 15.
21. P. Valéry, Rhumbs, in Tel Quel, in Id., Œuvres, 2 voll, éd. par J. Hytier, Bibliothèque de la Pléiade, Paris 1960, II, p. 636.
22. M. Papahagi, nota a Inf., I 26, in Dante Alighieri, Divina Comedie. Infernul cit., p. 339.
23. Id., nota a Inf., II 12, ibid., p. 344.
24. M. Mocan, nota a Inf., XXVI 132, ibid., p. 510.
25. Cfr. G. Contini, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, Einaudi, Torino 1972 e 1989, p. 52. Sulla questione epistemologica posta da Contini si veda anche il volume collettivo: Riuscire postcrociani senza essere anticrociani. Gianfranco Contini e gli studi letterari del secondo Novecento, a cura di A. Pupino, SISMEL, Firenze 2004.
26. Dante Alighieri, Bojestvennaja Komedia, trad. M. Lozinskij, Gosudarstvennoe Izdatel’stvo Chudojestvennoj Literaturi, Moskva 1961, p. 45.
27. Cfr. O. Mandel'štam, Discorso su Dante, in Id., La Quarta Prosa. Sulla poesia. Discorso su Dante. Viaggio in Armenia, Bari, De Donato, 1967. Un’altra edizione è stata curata da Remo Faccani: O. Mandel'štam, Conversazione su Dante, a cura di R. Faccani, Genova, Il melangolo, 1994 e 2004.
28. Cfr. O. Mandel'štam, Cinquanta poesie, a cura di R. Faccani, Einaudi, Torino 1998 (poi Id., Ottanta poesie, a cura di R. Faccani, Torino, Einaudi 2009). La proposta di cogliere sotto l’eco dantesca anche quella virgiliana è dello stesso Faccani, nella nota al v. 9, p. 124 di Cinquanta poesie.
29. Su questi aspetti di elaborazione genetica si veda I. Papahagi, Prefață, in Dante Alighieri, Divina Comedie. Infernul cit., pp. 7-17 (per la descrizione dei manoscritti e dattiloscritti cfr. p. 8).
30. Dante Alighieri, Divina Comedie. Infernul cit., p. 75; questo il testo italiano, fondato sull’ed. Petrocchi (a p. 74): «Di lungi n’eravamo ancora un poco, / ma non sì ch’io non discernessi in parte / ch’orrevol gente possedea quel loco. / “O tu ch’onori scïenzïa e arte, / questi chi son c’hanno cotanta onranza, / che dal modo de li altri li diparte?”» (corsivi miei).
31. Traggo l’informazione e la frase virgolettata di Marian dalla tesi di laurea di Irina Papahagi citata in nota 7. Lo stesso per i dati seguenti circa la traduzione della Boeriu.
32. R. Antonelli, Tempo testuale e tempo rìmico cit., p. 178.
33. M. Bernardi, Lo Zibaldone colocciano Vat. Lat. 4831. Edizione e commento («Studi e testi», 454), Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 2008, p. 170.
34. Ibid., pp. 49-50 (da qui anche la frase virgolettata che segue).
35. Ibid., p. 50, nota 130.
36. G. Pascoli, Myricae. Edizione critica per cura di G. Nava, 2 voll., Sansoni, Firenze 1974.
37. R. Antonelli, Tempo testuale e tempo rìmico cit., pp. 181-182. Qui (p. 184), su mio suggerimento, Antonelli fece cenno a Colocci e a Pascoli, ed aggiunse anche un richiamo a Belli, rinviando a R. Merolla, Il laboratorio del Belli, Bulzoni, Roma 1984, pp. 121-133.
38. Ibid., p. 182.
|
|