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Il filosofo in prigione. Un inedito di Constantin Noica
Nel dicembre del 1958, Constantin Noica (1909-1987) fu arrestato con l’accusa di «attentare all’ordine dello Stato», diffondendo manoscritti di autori proibiti e ascoltando emittenti radiofoniche straniere. Di fatto, la dittatura comunista lo perseguitava per aver organizzato nella località di Câmpulung-Muscel (Muntenia) – dove, a partire dal 1949, Noica viveva in regime di domicilio coatto – dei seminari privati, nell’ambito dei quali venivano discusse opere di Goethe, Hegel, Cioran ed Eliade – questi ultimi considerati dai comunisti dei «legionari transfughi». Dopo di lui, furono arrestati il critico letterario Dinu Pillat e i restanti partecipanti, in tutto venticinque persone (tra le quali anche Alexandru Paleologu, Arșavir Acterian e Nicolae Steinhardt), noti alle autorità come il gruppo «Noica-Pillat». Al termine del processo, Constantin Noica subì una condanna a venticinque anni di lavori forzati – di cui ne sconterà sei presso il carcere di Jilava –, la confisca dei beni e la degradazione civica. Venne rimesso in libertà l’8 agosto 1964.
Uscito dal carcere, Noica raccontò la sua esperienza penitenziaria in un testo autobiografico, di cui nel 1971 fece recapitare, sotto forma di lettere, i singoli capitoli alla prima moglie, Wendy Muston (che dopo l’instaurazione del comunismo aveva lasciato la Romania, insieme ai due figli avuti con il filosofo), affinché fossero tradotti e pubblicati all’estero. La copia manoscritta di questa «autobiografia carceraria», conservata nell’archivio personale dell’autore, costituì la base dell’edizione Humanitas, pubblicata postuma nel 1990 e tradotta in italiano nel 1994 dal professor Marco Cugno.
La prima edizione di Rugaţi-vă pentru Fratele Alexandru [Pregate per il fratello Alessandro] si sarebbe però rivelato incompleta. Alcuni capitoli, infatti, tra cui quello che presentiamo di seguito, non giunsero mai a destinazione essendo stati intercettati e trattenuti dalla Securitate che, nel frattempo, continuava a sorvegliare lo scrittore. Restituiti nel 1994 a Mariana Noica, la moglie sposata in seconde nozze dal filosofo, i testi furono pubblicati da Marin Diaconu sulla rivista «Viața românească» (a. LXXXIX, novembre-dicembre 1994, pp. 11-12) e successivamente inclusi nell’edizione Humanitas del 2010; in quella del 1990 il capitolo XIII, qui tradotto per la prima volta in italiano, era presente solo sotto forma di riassunto (tra parentesi quadre, come di seguito, all’inizio del brano).
L’opera di Constantin Noica è conosciuta solo in parte oltre i confini della Romania. In compenso, però, i testi le cui traduzioni sono state pubblicate all’estero dopo la caduta del regime comunista si rivolgono a una platea di pubblico considerevolmente ampia e variegata: statunitense, inglese, tedesca, italiana, spagnola, brasiliana, polacca, francese, svizzera, croata e serba. L’Italia vanta un duplice primato. È il primo Paese ad avere ‘accolto’ Noica – la prima edizione di Sei malattie dello spirito contemporaneo, nella traduzione di Marco Cugno, risale infatti al 1993 (Il Mulino) – ed è anche quello che lo ha tradotto di più, con quattro pubblicazioni all’attivo: oltre ai testi già citati sono infatti usciti Saggio sulla filosofia della tradizione, Trattato di ontologia, entrambi a cura di Solange Daini (ETS, 2007) e Congedo da Goethe a cura di Davide Zaffi (Rubbettino, 2019); infine, da segnalare una seconda edizione di Sei malattie…, a cura di Mira Mocan (Carbonio Editore, 2017).
Di Rugaţi-vă pentru Fratele Alexandru, sono disponibili oggi una traduzione italiana (v. supra) e due in lingua inglese. La prima, del 1994, a cura di Wendy Muston e con una tiratura di circa mille copie, è circolata all’interno di una ristretta cerchia di amici; nel 2011 la traduzione della Muston è stata inclusa nel primo volume della Noica Anthology (edizione bilingue, romeno-inglese, Universitatea București, Contemporary Literature Press, voll. I-III, 2010-2015); del 2018 è la più recente edizione statunitense a cura di Octavian Gabor (Punctum Books, Santa Barbara, California); presso la stessa casa editrice californiana è uscito pochi mesi fa, anche la traduzione più recente di un libro di Noica: The Romanian Sentiment of Being nella traduzione di Octavian Gabor ed Elena Gabor.
Rugaţi-vă pentru Fratele Alexandru
[Pregate per il fratello Alessandro]
XIII
[Questo capitolo l’autore lo ha spedito, dal suo Paese, ben cinque volte – per posta, come tutti gli altri –, ma non è mai giunto a destinazione; il manoscritto originale è andato anch’esso perduto.
L’autore rammenta che vi descriveva i due anni trascorsi in cella da solo, all’inizio perché convalescente, dopo essere stato dimesso dall’ospedale della prigione, e in seguito, perché era troppo debole per partecipare all’opera di «rieducazione» che veniva intrapresa nelle carceri, in quegli anni, in vista della liberazione dei detenuti politici, che aveva chiesto e ottenuto in linea di principio U Thant, l’allora segretario dell’O.N.U.
All’inizio, la solitudine totale fu per l’autore un incanto. In quale maledizione si muta, tuttavia, una volta constatato che da soli non si è in grado di riempire la propria vita! Forse le tecniche spirituali orientali insegnano come abitare la solitudine – nelle foreste dell’India o anche nelle carceri dell’Europa dell’Est –, ma l’autore di queste pagine non le conosceva. Con gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola o le Meditazioni di Descartes che teneva a mente non riuscì a fare granché.
Cercò in seguito, con alcune pagliuzze sfilate da un angolo del materasso del suo letto in cemento di «costruire» una geometria, come Pascal bambino, o di riscoprirne una, conosciuta anche solo per un quarto, il calcolo vettoriale ad esempio. Di nuovo, non gli riuscì quasi nulla.
Allora l’uomo chiede perdono di esistere. «Regina» – dici a te stesso – «Madre Natura, cancellami dai registri anagrafici di coloro che esistono e concedi il perdono allo spermatozoo che ha reso possibile che io esistessi, affrettandosi a prendere il posto di un altro spermatozoo, il quale forse era destinato a generare un essere più degno di me!»
In uno di quei momenti, il secondino aprì lo spioncino e allungò all’autore di queste pagine il primo volume delle Opere complete di Marx. Avrebbe continuato ad allungargli anche gli altri, un volume dopo l’altro.]
Quando uscii dall’ospedale, mi fu chiaro che, benché fossi solo in cella, qualcosa era cambiato e che il cambiamento era in meglio. Mi fu data carta e penna, all’inizio solo per scrivere una lunga autobiografia. (Caso mai ci fosse ancora qualcosa da scoprire!) Mi precipitai a scrivere, ma presto mi resi conto quanto siano vuote le nostre vite. Nonostante molti scrivano le loro memorie di buon grado e con un segreto orgoglio, in realtà è un supplizio tremendo ripercorrere la propria vita col pensiero, con le sue occasioni mancate e le sue assurdità. Com’è interessante la propria vita! Nel presentarla a me stesso patii più di quanto non mi fosse accaduto le rare volte che fui picchiato.
Mi ricordavo persino con un certo piacere uno dei pestaggi, a cui ero stato sottoposto affinché dicessi «tutto», come faccio ora – seppur con altri mezzi –, svolgendo su 200 fogli di grandi dimensioni, una noiosa vita da intellettuale. Ero stato disteso con la faccia sul pavimento, avevano messo un pezzo di cuoio sulle parti vulnerabili del dorso, mentre il soldato che teneva tra le mani una frusta grossa e nodosa, mi dava due colpi alla volta. Il primo era, non so come, più sopportabile, mentre al secondo, che si abbatteva quasi sullo stesso punto, era molto difficile resistere. Non me ne avevano dati più di otto o dieci, eppure tutto il mio corpo sembrava rinvigorito e – mi vergogno quasi a dirlo – quando tornai in cella ebbi la digestione migliore di sempre.
È curioso quanto lo spirito sia legato al corpo. Ogni volta che ho un’idea migliore, avverto un benessere per tutto il corpo, compreso lo stomaco. Ma ora che scrivo la mia biografia, quale pesantezza sto provando!
L’unica cosa che ho scritto finora con piacere è stata la prima mezza pagina, alquanto provocatoria in un regime socialista, nella quale descrivevo il modo in cui ero venuto al mondo. «Nacqui – scrivevo – per protesta: mia mamma ballò per una notte intera per perdermi, ma io mi ostinai a venire al mondo. Probabilmente per questo – aggiungevo – sono così testardo e qualche volta impertinente». Il resto dell’autobiografia era solo prosa. Credo che sia una delle pene più crudeli quella di costringere qualcuno a redigere la propria autobiografia – specialmente in questa parte di mondo.
Mi resi conto allora, ripercorrendo la mia vita, di quanto fosse vana, in un certo senso, la filosofia europea, la sola di cui mi ero occupato e del cui spirito era imbevuta la mia scrittura. Non ti insegna nulla, per quanto io creda d’altra parte che senza filosofia non si possa pensare nulla di articolato, nulla che «tenga» razionalmente, in nessuna cultura al mondo. (Le parole di Goethe valgono per chiunque: «non posso fare a meno della filosofia eppure non so che farmene». Sfortunatamente per lui, aveva accusato la mancanza della filosofia dopo la morte del suo amico Schiller, e avrebbe pagato per essa. La filosofia europea non ti insegna nemmeno a meditare, giacché non ti offre alcuna tecnica spirituale.)
Delle Meditazioni… di Descartes, che conoscevo bene, realizzai fin da subito che non sapevo che farmene. Pensai poi alle Meditazioni spirituali di Ignazio di Loyola, cercando attraverso dei vaghi ricordi di fare gli esercizi di immaginazione previsti (vedere concretamente il Cristo, col sudore sulla fronte, che porta la croce, etc.), ma anche quelli non mi potevano condurre da nessuna parte. Forse erano validi, come esercizio di meditazione, solo per fissare l’immaginazione (le peché de distraction, dicono i cattolici francesi) e per non permettere alla memoria, così capricciosa e tirannica, di sversare nella coscienza, tutte le sue atrocità, oserei dire, i suoi liquami. È come se esistesse in noi un demone che, non appena l’uomo è solo e senza far nulla, viene a prendersi gioco di tutta la nostra impotenza. Un ricordo ripugnante rifiutava di ritrarsi nella cloaca del subcosciente, per quanto volessi non pensare a quella determinata cosa, per quanto mi adoprassi per diventare più resistente, come i microbi di oggi con la penicillina.
Forse altre scuole europee di saggezza avrebbero procurato tecniche spirituali più adeguate: lo steinerismo, il guénonismo… Eppure quanto misere si sono rivelate anch’esse! Almeno avessi conosciuto un po’ di Yoga. Ma quel che mi spaventa sempre del pensiero indiano – che ha dato ai matematici il numero zero – è che annulla, piuttosto che edificare. Ad ogni modo, anche questa è un’opinione…
Non sappiamo quasi niente della vita spirituale qui, in Europa. Incontreremo presto gli asiatici i quali, siano essi grandi uomini o persone comuni, sanno qualcosa dello spirito (non solo dell’intelletto) e che, per di più, riescono con altrettanta facilità in tutto ciò che di meglio noi crediamo di possedere: la matematica, la fisica e la nostra tecnica. Che anti-mistero, queste matematiche! Sono il mistero religioso alla rovescia. Tutte le culture hanno avuto misteri e iniziazioni, con i loro simboli carichi di significato e di una buona dose di ambiguità. Soltanto noi abbiamo scoperto (e valorizzato) il simbolo spogliato del suo significato, il simbolo puro, il segno matematico. Che questo gioco di figure e segni (più tardi di strutture) fosse all’inizio nient’altro che un gioco lo affermava un genio matematico come Pascal, il quale, invitato da un matematico del suo tempo a incontrarlo in no so quale città della Francia, gli rispondeva qualcosa del genere: «Sì, sono onorato, ma parliamo di cose serie, non di matematica».
È successo qualcosa in seguito – a parte o immediatamente prima dell’applicazione delle matematiche alla fisica e alla tecnica –, forse la conquista del solo mistero che potesse agire in questo mondo profano: la conquista dell’infinito. Le nostre matematiche hanno ottenuto credito e trovato applicazione, a prescindere dalla geometria degli antichi – esclusivamente perché hanno addomesticato l’infinito (col calcolo infinitesimale), e poi perché hanno barato con esso (Cantor e la teoria degli insiemi). Solo con l’addomesticamento dell’infinito ha inizio il delirio matematico. Ma, ecco, è un delirio alla portata di chiunque, persino dei neri che portano gli anelli alle labbra.
Eppure è per modo di dire che le matematiche «siano alla portata di chiunque». Ciò che non comprende il matematico, quando gli si chiede di procedere più lentamente nelle sue dimostrazioni così da poterlo seguire, è che ci vuole una certa animalità per essere buoni matematici: un «bernoccolo», come affermava la frenologia, cosiddetta scienza dello spirito, ovvero una protuberanza cranica in più, o chissà quale increspatura della materia cerebrale. Qualcosa di simile all’animalità del pianista o del pittore. La questione più «razionale» della cultura esige anche il massimo talento irrazionale. (Guai al popolo di Israele – diceva l’ingegner Goldstein –, che ha barattato questa animalità superiore con l’animalità di prima istanza. Di questo passo, verrà un tempo in cui gli ebrei – almeno quelli di Israele – non sapranno più neanche le tabelline.)
Quanto a me, posso dire che finirò i miei giorni rimpiangendo di non essere stato un matematico. Mi costringo ora, nella solitudine in cui mi trovo e con i rimasugli di carta a mia disposizione, dopo aver terminato e consegnato l’autobiografia, a fare un po’ di matematica da solo. Non dice forse Platone, in assoluto, che la divinità, rimasta sola, geometrizzava? Ci provo anch’io, da omiciattolo quale sono, a scoprire o almeno a riscoprire (come Pascal bambino) un po’ di matematica. Conosco, ad esempio, i rudimenti del calcolo vettoriale. Prendo dal materasso alcune pagliuzze – perché la carta va via alla svelta e non posso sperare che me ne venga data dell’altra, benché sarei stato smentito di lì a poco – e comincio a darmi daffare. Mi perdo fin dai primi teoremi. Come ha fatto Descartes a estrapolare dal nulla (praticamente dans un poêle, come diceva lui stesso, in una stanza dotata di stufa, dov’era acquartierato durante l’inverno in quanto… ufficiale), dal nulla, cioè giocando con gli assi delle coordinate, la geometria analitica? La riprendo, poiché ne conosco perfettamente le basi, ma mi arresto di nuovo, sebbene abbia ancora spazio per scrivere a margine di qualche foglio di carta alcune formule ritrovate.
Passo allora alla «topologia» moderna. Magari si può fare un tentativo con quella. So che la topologia è «la scienza della gomma» (ovvero lo è stata in passato, finché non è diventata una disciplina massimamente astratta), cioè di figure più o meno distorte, che ciononostante conservano determinate relazioni costanti. Ma anche questa volta qualcosa mi respinge fermamente – come una bella donna molto ambita. So perfettamente che una volta che si è «posseduta» la matematica, le altre scienze non sono interessanti («Chi sa quanto faccia uno più uno sa tutto quello che possa conoscere lo spirito umano in quest’ambito», affermava Descartes), come quelle povere donne che sono solo belle. Ma che sofferenza non poterle possedere!
Come una benedizione, un giorno mi viene allungato, attraverso lo spioncino, il primo volume dell’edizione completa delle opere di Marx ed Engels. Capisco che mi verranno consegnati tutti, uno alla volta, se voglio. Mi porto avanti con la lettura – leggere, la sola forma di vita spirituale dell’uomo europeo! – e, sebbene la traduzione segua l’edizione russa, nella quale mancano le pagine profonde dei Manoscritti economico-filosofici, resto incantato. Mi piace veramente Marx? Mi sono ridotto a baciare la mano che mi ha percosso? O piuttosto la mia aridità interiore, la mia incapacità di geometrizzare, meditare e di creare nel vuoto mi fa sentire come una benedizione finanche questa lettura, nella misura in cui si tratta di carta stampata, dunque, per me in quanto europeo, di verità, di vita? «Io sono la Via, la Verità e la Vita» aveva detto all’uomo europeo il Libro, alcuni secoli fa…
Leggo febbrilmente il primo volume, e fin dal principio comprendo qualcosa che mi sembra essenziale sia per il successo del marxismo sia per il suo deplorevole fallimento ideologico tra coloro che sono costretti a impararlo. La dottrina marxista ha senso unicamente per le persone senza cultura, in particolare per le masse degli operai e solo per loro, fornendo ad esse degli slogan; oppure ha senso per coloro che vantano una formazione culturale più solida. È qualcosa di elementare o di molto raffinato. A un livello medio di comprensione non regge. Ma, dopo il suo trionfo, proprio a questo livello medio viene insegnata la dottrina – e da ciò dipende la sua catastrofe nelle coscienze. Invece di lasciare che le persone approdino ad essa, cominciano da quella, continuano con quella e a quella si fermano, essendo costrette a superare esami e a imparare leggi (sentite bene: leggi in filosofia!), e magari qualcuno crede persino di capirci qualcosa, e ti spiega la contraddizione dialettica nel senso che una stessa cosa può essere e non essere: «Ascolta, compagno, questo cappello è; se lo metto dietro la schiena, non è più». Ho provato a dire a uno di questi propagandisti che, per la contraddizione dialettica, poteva ricorrere piuttosto alle parole di un umorista francese, mi pare Allais: «Com’è triste sapere che un bicchiere mezzo pieno è un bicchiere mezzo vuoto». Ma quello mi ha risposto che è un discorso da ubriaconi, che mal si accorda con la morale proletaria.
Constantin Noica
© Humanitas, 1990, 2010
Traduzione e presentazione a cura di Igor Tavilla
(n. 6, giugno 2022, anno XII) |
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