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«Premi Sofia Nădejde» per celebrare la scrittura delle donne
Sofia Nădejde è stata una pubblicista, prosatrice e autrice di teatro romena, attiva a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Prima donna romena a portare a termini studi superiori, la prima ad aver guidato una rivista letteraria e ad aver pubblicato un romanzo femminista (Patimi, 1903), Sofia Nădejde ha offerto alla società romena un punto di vista inedito, lucido e progressista sulla condizione della donna e sulla necessità di un cambiamento, diffondendo nello spazio socio-culturale dell’epoca idee femministe del tutto inedite.
In omaggio a questa intellettuale, rimasta a lungo sconosciuta, nel 2018 si è svolta a Bucarest la prima edizione del Gala dei Premi Sofia Nădejde che, seguendo la stessa logica di riscoperta, nasce con l’intento di promuovere e diffondere la letteratura scritta dalle donne.
Nell’edizione di quest’anno (24 settembre 2020), sono state scelte quattro vincitrici: Deniz Otay (categoria debutto in poesia) – Fotocrom Paradise (Ed. OMG, 2020), Ema Stere (categoria debutto in prosa) – I figli di Marcel (Ed. Polirom, 2020), Gabriella Eftimie (categoria poesia) – Sputnik in giardino (Ed. OMG, 2020), Lavinia Braniște (categoria prosa) – Sonia alza la mano (Ed. Polirom, 2019).
A seguire, poesie ed estratti delle quattro opere vincitrici, ancora inedite in lingua italiana.
Deniz Otay
Deniz Otay (1993, Suceava) ha portato a termine la Facoltà di Giurisprudenza a Cluj.
Ha pubblicato poesie, nella sezione per poeti inediti, sulle rivista «Steaua», «Poesis Internațional» e «Zona Nouă».
Ha partecipato a reading di poesia come Lecturi în Atelier, Z9Festival, Reflector.
Attualmente vive a Bucarest.
«Fotocrom Paradis è un volume di poemi assolutamente meravigliosi. La voce di siri in epifania mi ha stravolto. Dopo aver letto, mi è rimasta una strana sensazione di profonda nostalgia per cose che non ho mai vissuto. E non ho più avuto voglia di dire niente de intelligente/teorico. Meravigliosi». (Ștefan Baghiu)
A volte
succede che arrivi a casa,
accolto con gioia
dalla famiglia-rovo.
lei non è scomparsa, ha vegliato
negli anni in cui ti sei tenuto lontano
adesso, nel suo movimento –
una lentezza progressiva,
ti muovi in cerchio fino allo sfinimento
spodestato dalla felicità autentica,
devastato dall’impronta e dall’incerto
sempre in cerchio ti cingerà la dinastia
spogliata della nostalgia
e della sua funzione risanatrice.
guadagna slancio, viene con forza
e ti travolgerà
quando sarai tornato nella città con le cattedrali.
Altre volte
nelle mattine in cui ti svegli
con movimenti storici a palpitare in te
potresti tornare
scollegato dal grande cambiamento,
dal mondo nuovo
scaverai un bunker
per il nostro popolo balcanico inadeguato
primitivo e scandaloso
lascerai un singolo quadrato luminoso
il resto un rifugio
che si uniformerà alla rivoluzione
all’informazione
e al minimalismo
The Separation
Sempre più spesso prima di andare a letto
ci scoprivamo a parlare
del lato buono del riscaldamento globale, entusiasti
Di sera, quando si mitigava un po’
il caldo infernale dell’ultimo piano.
Forse solo di questo c’è stato bisogno:
di una placca di cemento ardente sopra di noi
di qualche differenza
per parlare in totale accordo l’uno con l’altro
per propagare odio;
dell’estinzione della specie umana distruttrice
e dei benefici
per l’intero pianeta.
Di come l’ecosistema si libererà di noi,
di come ci libereremo l’uno dell’altro
Ema Stere
Ema Stere è giornalista di Radio România Cultural.
Ha scritto adattamenti e sceneggiature, radiofonici e teatrali, ha pubblicato prose brevi per le riviste «Ioacan» e «Capital cultural».
Il romanzo I figli di Marcel (Copiii lui Marcel) racconta la storia di una ragazza ventottenne che decide di rinunciare al suo lavoro in una multinazionale e di trasferirsi in campagna a coltivare la terra. Accompagnata da Matei e a Francisc, i tre affittano una fattoria in un villaggio nella provincia di Buzău e pongono le basi di una strana comunità, legata al personaggio di Marcel Serebreakov. Ex bambino prodigio del villaggio, Marcel è scomparso nel nulla, lasciandosi dietro racconti e sembra, molti figli illegittimi.
Torniamo un attimo alla premessa di tutta la storia: volevamo coltivare la terra ed estrarne ricchi frutti. Io, per lo meno, volevo questo. Matei e Francisc si sono uniti a me perché sembrava a entrambi una buona idea.
Invece di portare con noi i dannati semi e sotterrarli sulla collina, abbiamo pensato di assicurarci della manodopera gratis e di fare anche un po’ di giustizia divina, unendo tutti i figli di Marcel Serebreakov – che, pensavamo noi, saranno 4 o 5 o 8, al massimo. Abbiamo pubblicato online quegli annunci totalmente sballati. Ci siamo ritrovati con una tonnellata di lettere di risposta tra cui, a una prima selezione, sono rimasti 684 marcellini, il che, mettendo insieme le famiglie, presupponeva l’arrivo a Sânceni di 1.005 adulti e 312 bambini. Abbiamo chiuso l’indirizzo email «i figli di Marcel», le pagine di Facebook, abbiamo buttato le cartelle telefoniche e abbiamo tirato una linea: 20 persone al massimo, compresi i bambini. I padri di famiglia sono più motivati, lavorano di più, no? Abbiamo fatto e rifatto la lista dei marcellini, eliminando quelli strani, gli instabili, gli analfabeti. In fondo, nessuno aveva dimostrato chiaramente di essere figlio di Marcel, e il «diritto dei Serebreakov» non era sancito da un tribunale ma solo un nostra invenzione: un dono fatto a degli sconosciuti, una possibilità nella vita, una medaglia per figli illegittimi.
Naturalmente moltissimi non erano figli illegittimi! E considerando il caos assoluto in cui eravamo con i dati personali, è molto probabile che alcuni abbiano anche dato un nome falso. Non hai più importanza.
Dopo aver accolto ospiti inattesi per due giorni e un giorno prima che iniziassero a venire quelli presenti sulla nostra lista, abbiamo deciso di metterci al lavoro. Quello che ci disturbava di più era l’alloggio. Ci avevamo già passato una notte insonne, alcuni accalcati sui tre letti dei Serebreakov, altri con cuscini e coperte sistemati direttamente sul pavimento. Non siamo riusciti ad accendere l’unica stufa che sembrava funzionante e le finestre rotte, che avevo rattoppato con delle assi, lasciavano entrare spifferi di vento e fruscii di animali non meglio identificati.
L’allestimento della casa però avrebbe aspettato ancora.
Era urgente risalire la collina e vedere cosa fare con il grano, che nel frattempo era arrivato, bello imballato in sacchi, ed era stato consegnato alla porta da un camion. In totale, 600 chili. Dovevamo piantare due ettari, cioè buona parte della collina. Com’era la terra? Cosa bisognava fare? Di quante persone c’era bisogno?
In preda al panico, Matei è corso alla taverna della Pazza per un consiglio competente. Dopo tre quarti d’ora, era tornato con l’informazione che non avevamo alcuna possibilità di trovare un trattore, non senza una tassa d’urgenza. Il quattrocchi (l’unico che aveva iniziato a bere già di prima mattina) l’aveva poi informato che esisterebbero un bue e un aratro di ferro, se siamo persone serie, ma anche quelli si prendevano a pagamento, pensa un po’, da suo fratello Oatu. Questo, se non aveva da fare. Era possibile non ci fosse.
- E qualcos’altro? ho chiesto a Matei, proteggendomi il naso dal suo alito pesante, di țuica senza etichetta.
- Pare non sappia altro, perché lui non semina grano. Non gli piace l’idea.
Francisc mi ha fatto un cenno con il mento e allora ho notato fossimo tutti e tre al centro di un cerchio che sembrava disegnato col compasso, in cui erano posizionati a intervalli regolati i marcellini: sette adulti e tre bambini. Tutti ci guardavano fissi e non dicevano nulla. Ecco una raffigurazione delle nostre future relazioni di lavoro, ho pensato.
- Come diceva Gagarin: paidiom! ha detto Matei.
Abbiamo risalito la collina, cercando allo stesso tempo di misurarla in passi. Ci è sembrato fosse insolita: ai piedi della collina l’erba era bassa e le erbacce alte, con steli spessi minimo 2 o 3 centimetri. Avremmo scoperto che fino al nostro arrivo, la gente aveva lasciato le proprie vacche a pascolarci. Siccome non avevano voglia di rincorrerle sulla collina, le legavano lì.
Qua e là erano cresciuti degli alberi. Oltre il crinale e sulle porzioni laterali esistevano perfino delle zone boscose – ma lì, per quello che ci avevano detto, ci saremmo avvicinati all’unità militare. In effetti, esistevano ancora delle unità militare? Intendevo scoprirlo.
Il pendio era piuttosto regolare nella parte inferiore della collina – e dove non lo era, potevamo coltivare altro, al posto del grano. Non sarebbe stato un problema usare un trattore per i lavori se, ovviamente, avessimo avuto i soldi. Non ne avevamo.
Nelle zone troppo ripide per essere seminate, potevamo non seminare nulla. Avevamo terreno a sufficienza.
Cos’altro ho notato? Che non esiste per niente acqua corrente in zona. Il fiume locale – Secuiciu – scorre dai piedi dell’altra Collina del Morto, a circa due chilometri di distanza. Poi ho scoperto una recinzione sospetta, proprio al margine della calotta, nella parte nord – ma forse apparteneva all’Esercito. Non sembrava fatta dall’esercito, ma come saperlo? Si arrivava lì attraversando crepaccio pieno di alberi e, per quel che siamo riusciti a capire guardando tra le assi del recinto, conteneva una specie di deposito e una cuccia di cane senza cane.
Florin ci ha fatto notare le pietre, numerose come le stelle di notte. Per lo più erano piccole come unghie ma ne esistevano anche di grandi, squadrate; abbiamo deciso di raccoglierle, se avessimo avuto tempo.
Sono tornata verso gli altri, che mi seguivano pochi passi più dietro e aspettavano, e mi è venuta voglia di dire qualcosa di saggio. Allora mi sono piegata, ho tastato il terreno e con difficoltà sono riuscita a dislocare una zolla. L’ho sbriciolata tra le dita, meditabonda. Poi ho detto:
- Oro zecchino!
E lì, giuro, quegli stupidi mi hanno applaudita.
Gabriella Eftimie
Gabriella Eftimie (1981, Luduș, Mureș) è traduttrice, poetessa e performer.
Vive in Svezia dal 2011.
Ha debuttato nel 2006 con l’opera Occhi rossi polaroid (Ochi roși polaroid – Ed. Vinea), seguito dalla raccolta di versi Il Nord è uno stato d’animo (Nordul e o stare de spirit – Ed. Charmides) nel 2014.
«Con origini sconosciute, la voce dei poemi di Gabi Eftimie presenta effetti acusmatici. Non risuona nello spazio ma si assorbe rapidamente in sé. Sebbene l’enunciato sembri forzato, riesce a rimodellare la quiete. Non a caso, direi, il calco rimane la figura prediletta del volume. Sputnik in giardino segna l’ingresso dell’autrice nei territori ambientali del pastello se non proprio in quelli di una pastorale dark. Il risultato è un isolamento a doppio senso e la nascita di un genere ibrido. Inoltre, la poesia di osservazione sensoriale praticata qui, istituisce una seria di standard di una precisione sconosciuta finora nella poesia romena attuale». (Andrei Doboș)
«spazi verdi»
Fingo di essere una turista nella mia città e vado fino all’ultima fermata.
Con il pilota automatico non dura troppo e il filtro scompare.
Presto, raggiungo l’ultima. I capelli elettrizzati si allungano nel senso di marcia.
Raccolgo le briciole lasciate dagli altri e cerco di indovinare: pane, biscotti, falafel? Di fronte
«il parco: polmone verde della città».
Nell’abisso più profondo, i pesci s’incatenano, durano per sempre come l’uranio.
Il gracchiare dei corvi ha smesso di farsi strada.
La strolaga maggiore lancia il suo urlo come una rete da pesca sulla superficie dell’acqua.
Mi abbandono agli stimoli. Meditazione guidata.
Il parco ha l’audio spento, anche lui disperso nello spazio.
A quest’ora, solo i piccioni tubano ancora i loro mantra.
bevo con un calabrone dallo stesso bicchiere
non importa da quale angolo, la casa è inondata di margherite e papaveri
faccio un gesto di compromesso: lascio la finestra socchiusa,
né buio, né luce esuberante,
festeggio la vita e non proprio
hai notato che nel punto più critico
il tempo si dilata come una gomma da masticare quando fai i palloncini?
sei prosciugato dentro, ti sei bloccato come un calabrone, sbatti la testa contro la finestra
e nessuno ti mostra dove sia socchiusa
c’è della pioggia nel tuo caffè
in un mondo parallelo, qualcun altro, non io,
passa accanto alla nostra casa e guarda pieno di desiderio verso la finestra illuminata
si vede il sole attraverso me
in auto,
i gabbiani schierati in fila su una zolla sembrano
buste di plastica fosforescenti,
buttate a casaccio,
lì dove fa capolino il faro,
il fiume scorre oltre una foca, s’insinua nel mare
ma il mare sembra imperturbabile,
dissolve prima di tutto le mie dita dei piedi,
poi le caviglie, poi le ginocchia, il tronco, gli omeri,
il petto e il collo,
l’ultima a scomparire in quiete è la sommità del capo,
in breve tempo,
divento anch’io acqua bassa,
un’alga raccolta dall’alto,
sulla superficie appena torbida,
colorata in marrone dal fosfato portato a valle.
Lavinia Braniște
Lavinia Braniște (1983, Brăila) è traduttrice, poetessa e scrittrice.
Ha debuttato nel 2006 con la raccolta di poesie Racconti dove ci sono io (Povești cu mine– Ed. Paralela 45), seguita nel 2011 dalla raccolta di prose brevi Cinque minuti al giorno (Cinci minute pe zi – Ed. Casa de Pariuri Literare). Nel 2014 pubblica il suo primo romanzo, Fuga (Escapada – Ed. Polirom), e Interzo zero (Interior zero – Ed. Polirom) nel 2016.
Sonia alza la mano (Sonia ridică mâna) è un romanzo in cui si va «alla ricerca del comunismo perduto, della provincia perduta, della famiglia perduta, dell’identità di genere, di nuove configurazioni sociali dell’odierno mondo metropolitano.
La sua immersione nel passato provoca il presente a uscire allo scoperto». (Mihai Iovanel)
In alcune fotografie, sua madre ha ritagliato la sua immagine e in altre no. Quelle in cui lui ha un volto nitido e bello e luminoso sono rimaste intatte. Il suo viso attraente ha salvato le foto.
- Cos’hai provato quando hai scoperto che è morto? le chiede Sonia.
- Mi è dispiaciuto, dice sua madre.
Tutte le foto di gioventù con lei e il padre di Sonia sono dentro la busta di una farmacia. Domanda a Sonia se ne vuole qualcuna.
- Ma non ho saputo esattamente quanto dispiacermi. Sono stata sua moglie molti anni fa. Nella sua vita ci sono state altre che l’avranno compianto di più.
- L’hai amato? domanda Sonia a sua madre poco dopo.
- Sì, moltissimo. E per molto tempo dopo averlo cacciato, l’ho amato.
Ma Sonia sa che l’ha anche odiato allo stesso tempo, forse sempre tantissimo, perché altrimenti non avrebbe voluto fargli del male nascondendogli sua figlia, demonizzandolo agli occhi di sua figlia.
Ora lui è morto già da un anno e sua figlia non ha alcun parere su di lui. In passato sembrava che lo scopo della vita di sua madre fosse solo quello di tenere sua figlia per sé a ogni costo.
Non sa più quando, ma già tardi, quando era già grande, Sonia ha sentito in alcune occasioni che sua madre avrebbe voluto parlarle di lui. Ma lei non poteva già più farlo.
Leggendo della memoria collettiva, è arrivata a leggere della memoria individuale e ha letto che, quando ricordi un fatto, in realtà ti confronti con il ricordo più recente di quel fatto e non con il fatto in sé, che si trasforma. Nel tempo, suo padre ha preso molte forme nelle menti di entrambe.
Avrebbe voluto poter credere in sua madre, che fosse in grado di farne un ritratto corretto, ma qualsiasi cosa le avesse detto di lui, non poteva crederle.
Adesso che è morto, è troppo tardi. Magari adesso sua madre riuscirebbe a controllarsi e magari le offrirebbe un racconto onesto, ma ora non ha più importanza.
È sorprendente quanto abbia dimenticato sua madre delle cose successe tra loro. Quante critiche e punizioni riemergono adesso quando tutto va bene, in modi che sua madre non capisce e che Sonia non sa come spiegare.
Certe volte ci prova.
E sua madre non riconosce niente. Oppure non le crede. Oppure le crede e poi dice stizzita: «Ovviamente non mi perdonerai mai!». Altre volte, semplicemente le viene da piangere.
E poi Sonia si sente malissimo.
Nel rapporto con sua madre, ha creduto che le cose non si possano risolvere se non parlandone, ha creduto profondamente nel potere della parola, che dà un ordine alle cose, ma ora pensa che la cosa migliore sia lasciarle sprofondare. Il primo passo è astenersi, non farsele più uscire di bocca. I passi successivi, molti e opprimenti e che si volgeranno dentro di lei, saranno ripetersi ancora e ancora che entrambe adesso sono persone diverse.
Non ricorda consigli di vita di sua madre, tranne uno che ha fatto ridere entrambe quando sua madre l’ha tirato fuori con noncuranza.
«Fai la finta tonta.»
Si parlava di uomini, all’inizio, quando ancora parlavano di uomini. Sonia era studentessa e lui era un tipo considerevolmente più grande di lei e non pienamente disponibile, che le avrebbe complicato la vita. Prima che lei si fingesse tonta, l’uomo aveva perso interesse oppure aveva dato prova di un incredibile buonsenso e si era ritirato senza più insistere. Sonia ha scelto di credere alla seconda possibilità ma molto più tardi, quando ha capito che il passato può ricordarlo come preferisce lei.
Sono stata amata e protetta, diceva a se stessa. Sono stata bella e lo sarò ancora.
Ad ogni modo, «fai la finta tonta» diventa un consiglio sempre più interessante e più utile.
- Lo sai che suo padre è stato securista? dice sua madre in quella conversazione con risposte rare che hanno sul divano della cucina, di fronte al televisore che trasmette a basso volume un programma culinario.
Sonia si volta verso di lei e la guarda a lungo.
- Mio suocero… Insomma, è stato il suocero anche di altre, non so se dovrei più chiamarlo così. Tuo nonno, in sostanza. Forse ti aiuta per il tuo libro. Se vuoi andare da lui.
- È una sceneggiatura, non un libro.
- Eh, quello che è.
- Come, se voglio andare da lui?
Non ha mai pensato a questa possibilità.
- Posso metterti in contatto con lui. Puoi stare dalla tua madrina, le farebbe piacere rivederti. Oppure direttamente da lui, credo viva da solo.
- Ma parli ancora con la mia madrina?
Sua madre risponde con un cenno del capo. Non ha il coraggio di dire una parola. Lei è rimasta in contatto con tutti e ha continuato a sapere tutto di tutti.
- Come hai potuto escludermi da questa storia? dice Sonia.
- Ho creduto che non volessi più sapere niente di lui…
Fai la finta tonta, le grida l’angelo dalla sua grotta.
E poi le dice anche.
Vacci.
E ora lo sente chiaramente, tanto da avere l’impressione che quello abbia lasciato il suo libro per un attimo e abbia sollevato la testa verso di lei.
A cura e traduzione di Clara Mitola
(n. 10, ottobre 2020, anno X)
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