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«Marzolino», uno spaccato della Romania degli anni Sessanta
Nel suo romanzo Marzolino (Edizioni dell’Orso, 2024), Celestina Fanella dipinge uno spaccato della Romania degli anni Sessanta. Per gentile concessione dell’autrice, pubblichiamo un brano estratto dal capitolo L’ultima primavera su Ada Kaleh, la ‘mitica’ isola, celebre meta turistica in mezzo al Danubio, sorta di Atlantide balcanica, fatta sommergere nel 1970 dalle acque fluviali per la costruzione di una centrale elettrica, in cui sono stati sacrificati per strette ed egoistiche necessità tecnologiche non solo i ricordi intimi dell’autrice, ma anche tutta un’epoca della storia romena.
Selina aprì la busta grande tappezzata di francobolli da entrambi i lati. C’erano le foto della vacanza, un disco di Sergio Endrigo e, scritto a macchina, un sostanzioso riassunto della relazione di Luigi Longo presentata alla sessione del Comitato Centrale del PCI.
Cosa pensano i comunisti italiani della nuova linea politica del partito comunista cecoslovacco.
Pensano che l’obiettivo sia lo sviluppo della democrazia socialista volto a realizzare una sempre più profonda unita del partito, della classe operaia e del popolo attraverso un consenso operoso e convinto di militanti, di operai, di lavoratori, attorno a una linea politica di lotta per la realizzazione piena della democrazia socialista e del comunismo e per la vittoria del socialismo nel mondo.
Credono nella funzione dirigente del Partito attraverso una crescente egemonia, un crescente prestigio grazie alla capacità dei comunisti di risolvere i problemi della costruzione e dello sviluppo della società socialista.
E dell’amicizia con l’Unione Sovietica?
Di fronte all’aggressione nazista e fascista, il popolo cecoslovacco trovo nell’Unione Sovietica la sola grande potenza democratica che ne difese coerentemente l’indipendenza e che, a prezzo di tanto sangue, diede al popolo cecoslovacco l’aiuto decisivo a riconquistare la propria sovranità e libertà.
E cosa pensano dell’alleanza con gli altri partiti socialisti, in particolare con il Patto di Varsavia? Noi abbiamo disapprovato l’intervento militare, non potendosi ammettere la violazione dell’indipendenza di ogni Stato e la violazione dell’autonomia e sovranità di ogni partito comunista. Autonomia e diversità nell’unita sono per noi principi essenziali. Tuttavia, nonostante la disapprovazione di quello che i compagni francesi hanno definito “il terribile errore dell’intervento militare”, il PC italiano continuerà a dare il proprio contributo, “politico e ideale” per la costruzione di nuovi rapporti tra tutte le forze comuniste e progressiste, perché vada avanti il processo di rinnovamento aperto dal XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica.
Nella lettera, Felice aggiungeva i suoi ragionamenti (ci metteva una tale passione!) e le sue non poche preoccupazioni. Gli dispiaceva non esserle vicino. Si chiedeva quando si sarebbero rivisti.
Sperava che il meraviglioso Paese che gli aveva regalato tanto amore e amicizia restasse fuori dai conflitti e continuasse a essere, il piu possibile, libero e indipendente.
Lei cosa ne pensava?
Selina si domandò se fosse il caso di confessare che non sapeva chi fosse Luigi Longo. Decise di lasciar perdere. Non scrisse nulla dell’inquietudine che cominciava a invaderla, della paura che non aveva mai provato fino ad allora. Lo ringraziò per le foto. Erano stupende! In armonia con la canzone di Sergio Endrigo Io che amo solo te...
Quando, anni dopo, a Selina capitò fra le mani quella lettera, fu colpita da una riga sottolineata. A volte lo faceva come compito, per imparare vocaboli nuovi. Qui invece le parole non erano difficili. Si trattava di comprendere il senso dell’enunciato: Autonomia e diversità nell’unità sono per noi principi essenziali. Rilesse la frase e chissà come si trovò a pensare alla docente di Storia della Letteratura universale.
Leontina Athanasiu-Brănescu era una signora alta e ossuta, con i capelli corti permanentati.
Indossava spesso una gonna svasata a quadri rossi e beige, blusa bianca e golfino marrone a grana di riso. Quando saliva in cattedra emanava un leggero profumo di cipria e caffè. Per quanto, con la sua autorevolezza, tenesse a dovuta distanza i banchi disposti ad anfiteatro, l’aria che si respirava nelle sue ore era intima e passionale.
Dedicò un paio di lezioni alla civiltà fra i due fiumi: dai sumeri ai babilonesi. La raffinata cultura mesopotamica. Il poema di Gilgamesh. La metamorfosi del protagonista, prima eroe in cerca di gloria, alla fine uomo smarrito di fronte alla morte e all’impossibilita di raggiungere la vita eterna.
Un lungo viaggio. Quasi quanto il volo dai testi mesopotamici al Cantico dei Cantici.
La professoressa, grazie alla mano veloce e a una grafia fluida, aveva riempito la lavagna di versi:
…O, mia colomba, / che stai nelle fenditure della roccia, / nei nascondigli dei dirupi, / mostrami il tuo viso, / fammi sentire la tua voce… Belle sono le tue guance fra gli orecchini, il tuo collo tra i fili di perle.../Tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo, con una perla sola della tua collana! / Quanto e soave il tuo amore, sorella mia, mia sposa... Si, migliore del vino e il tuo amore./ Inebrianti sono i tuoi profumi per la fragranza, /aroma che si spande e il tuo nome…/ Sostenetemi con focacce d’uva passa, rinfrescatemi con mele/ Perché io sono malata d’amore….
Spiegò il titolo. Šīr haš-šīrīm. Sottolineo la corrispondenza fra l’espressione ebraica e il superlativo assoluto in romeno. Cântarea cântărilor, il Cantico dei Cantici. Quanto al protagonista, che fosse un pastore o il re Salomone in persona, difficile dirlo. La simbologia della narrazione resta avvolta nel mistero. Vitale, immortale, e la poesia.
La professoressa guardò attraverso la finestra. Disse:
“Il Cantico custodisce parole d’amore stupefacenti, giunte dalla Mesopotamia e accolte nella Bibbia!”.
Molti sgranarono gli occhi. Una rivoluzione innescata dall’eccellentissimo canto erotico! Si parlava del Vecchio Testamento!
Tornò a sedersi. Cominciò a leggere altri versi dal libro zeppo di segna pagine di carta ripiegata. Si allontanava, con delicatezza e pudore, dai riferimenti espliciti all’amore carnale. Voleva parlare di Assoluto. Fece un respiro profondo prima di recitare.
Mettimi come sigillo sul tuo cuore/ come sigillo sul tuo braccio/ perché forte come la morte e
l’amore/ tenace come il regno dei morti e la passione: le sue vampe di fuoco/ una fiamma divina!
Le grandi acque non possono spegnere l’amore/ ne i fiumi travolgerlo…
Si concentrò sulla metafora dell’amore: fiamma divina.
“Non è la corporeità la quintessenza della bellezza, ovvero, dell’amore. Sulammita non incarna unicamente grazia e delizie, attributi alquanto fragili.
Io sono come un muro/ e i miei seni sono come torri! Così io sono ai suoi occhi/ come colei che procura pace”.
Ripeté l’ultima parola, tradusse “quiete”. Accennò all’esegesi rabbinica e cristiana, alla lettura allegorica della pastorale. Sennò, sarebbe impossibile spiegare l’inserimento del prezioso pezzo lirico nelle Sacre Scritture.
Mentre parlava, gli studenti seguivano le sue mani, l’ondulazione della voce. Appuntavano sui quaderni frasi frammentate. La professoressa chiuse la lezione in tono declamatorio:
“Nel Cantico, l’amore non si esprime per mezzo di semplici figure retoriche ma attraverso simboli che ne rivelano profondità imprevedibili, archetipiche. La pastorella e il suo innamorato diventano gli sposi eterni. La loro unione, ierogamia. Il mistero supremo. Questo accade nella grande poesia di ogni tempo”.
Per la prima volta, nella leggendaria aula Odobescu, una docente con tanto di tessera del Partito e corsi di formazione a Mosca, parlava ai suoi studenti della Bibbia. E non come libro di menzogne e ignoranza, ma di misteri!
L’illustre accademica, per diversi anni membro del Comitato Centrale, si dichiarava “cittadina della galassia Gutenberg”. Credeva nel logos. La parola e sacra, diceva. Permane. La puoi rileggere quando ti pare, per tutta la vita.
Molti anni dopo, Selina apprese dai giornali della sua morte. All’alba del nuovo millennio Leontina Athanasiu-Brănescu aveva compiuto novant’anni, gli ultimi sei trascorsi in un monastero moldavo. La chiamavano suor Veronica. Aveva fatto un altro passo verso Dio.
Provò a figurarsela dietro le mura del convento, ma nessuna immagine riuscì a schizzare il profilo che aveva così profondamente ammirato sui banchi di quell’aula. Perché aveva scelto di rinunciare alla propria vita scambiandola con un’altra? Che fosse delusa dai tanti cambiamenti? Che del suo universo fosse rimasta solo una foto sbiadita appoggiata ai bicchieri della credenza? Ma quale foto? Quella di militante del Partito o quella di mistica?
Al giornalista che volle sapere il motivo della sua scelta, la professoressa aveva risposto con voce serena:
“Un’intellettuale cristiana ha il dovere di trascorrere gli ultimi anni di vita terrena come accadeva, un tempo, nel mondo aristocratico quando, dopo la morte dei mariti, le vedove si ritiravano nei conventi. Una vecchia e bella usanza.”
Reinserendo con delicatezza la lettera nella busta, Selina pensò che, a volte, le andava bene non capire le cose.
Autonomia e diversità nell’unità.
***
Quando a zia Margareta veniva voglia di interrogare il futuro, chiamava Zahira. La giovane non si faceva pregare. Preparava l’ibrik di rame in cui faceva bollire il caffè con una punta di zucchero.
Dopo, con una certa solennità, versava il caffè schiumoso nelle tazzine. Appena finiva di berlo, zia Margareta girava tre volte la tazza prima di capovolgerla nel piattino per far asciugare lo zaț. Se riteneva che fosse pronta per la lettura, la porgeva a Zahira. Iniziava così una serie di fantasticherie impregnate di scene elaborate. Se appariva una macchia compatta sul fondo, Zahira, socchiudendo le palpebre, prediceva:
“Nel petto tieni un grande affanno. Fintantoché lo terrai chiuso in te stessa, avrai l’anima nera come il catrame. Intanto, vedo che qualcuno ti aiuterà a portarlo alla luce. Verrà per darti coraggio.” Girava la tazza e indicava vicino al manico uno scarabocchio che, a suo parere, era la persona che sarebbe arrivata per confortarla.
“Farai un viaggio in compagnia di questa persona, una donna, non tanto alta. La vedi? Sembra che porti una valigia. Fortunata la mia signora Margareta! Farai dei viaggi! Li vedi i sentieri che salgono verso l’orlo?”
Altre volte, nella tazzina comparivano soldi, notizie, parenti che lei sola riconosceva in quelle figure che restavano fra le nuvole del caffè.
Tanti Margareta s’infastidiva quando Zahira arrivava seguita da un gatto che miagolava e saltava in braccio a chiunque.
“Mancava questo sfacciato!, sbuffava facendo segno alla nuora di mandare fuori a pedate il peloso.
Nuți, però, preferiva chiudere un occhio sui peli del gatto. Innanzitutto, era una gatta. Relu l’aveva trovata mezza morta dentro il garage. L’aveva affidata a Zahira dicendo “avete bisogno l’una dell’altra”.
La storia di Zahira la conosceva bene solo lui e Nuți, ma non andavano a raccontarla in giro.
Zahira, poco più che ragazzina, aveva sposato Mihnea, un giovane romeno laborioso e intraprendente che aveva ereditato, dopo la morte del padre, alcuni terreni nella campagna di Medgidia. Lasciò Brăila, il porto in cui era nato, e andò dove la terra fertile e generosa aveva bisogno delle sue braccia. Quando in paese arrivo la collettivizzazione, Mihnea si rifiutò di cedere alla cooperativa i filari di pomodori, fagioli, okra e tutte le piante di tabacco e di girasole. Si rifiutò di contribuire allo sforzo costruttivo socialista. Lo etichettarono con l’appellativo chiabur, sfruttatore della classe contadina.
Accusato di complotto contro lo Stato, fu rinchiuso nella prigione di Capul Midia. Zahira si dannò per andare a fargli visita: richieste con validi motivi, soldi, pianti. Prima che arrivasse l’autorizzazione, ricevette la lettera della direzione penitenziaria. Le comunicavano il decesso del detenuto Cerchez Mihnea in seguito a una peritonite fulminante. In allegato, c’era il certificato medico con timbri, firme e condoglianze.
La giovane vedova, che dall’isola era scappata per sposare lo straniero, non tornò a casa dei genitori. Cercò subito un lavoro, dato che sapeva il turco, il romeno e un po’ di greco. Si iscrisse alla scuola serale per assistenti veterinari e trovo ospitalità in casa della signora Lipan (dirimpettaia del cugino Relu), in via Flămânda. La signora le dava alloggio in cambio di assistenza e compagnia.
Dopo tredici anni, prima di spegnersi, la signora fece testamento e lasciò quel poco che aveva a Zahira, perche l’aveva amata come una figlia.
A Selina, Zahira raccontava altre storie mentre giocavano a carte o preparavano la ceretta di zucchero e limone. Fette di giovinezza spalmate di șerbet. Se la vedeva davanti e contemporaneamente nell’isola che invocava quando assaggiava un kataif o annusava i petali di regina nopții. Riempiva le storie di profumi, sapori, alberi, sentieri, persone con nomi mai sentiti.
Selina l’ascoltava e costruiva nell’immaginazione l’isola che prima o poi avrebbe trovato.
Quella domenica di fine maggio, sul palcoscenico che si trovò davanti si allestiva uno spettacolo completamente diverso dalle mirabili rappresentazioni di Zahira.
Era la vigilia dell’annegamento di Ada Kaleh nelle acque del Danubio. Prigioniera ferita, l’isola respirava le ultime particelle di vita sospese nell’aria. A colpi di scure e di picconi erano stati abbattuti alberi, muri, steccati e ponticelli. I pochi negozi rimasti fra gli sterpi vendevano rahat locum e confettura di rose.
E poi c’era il ristorante dove avevano girato (lo sosteneva un cameriere) “Il ballo del sabato sera”. Selina e Zoe avevano visto il film, cosicché vollero prendere anche loro i caffè alla turca. Le sigarette Snagov le avevano già, anche se la signora Florica non condivideva questa recente emancipazione. I professori ordinarono baklava e tè aromatico nei bicchieri grandi.
Appena il cameriere portò la comanda, il professor Codrescu riassunse un documentario che aveva visto al cinema: “L’ultima primavera su Ada Kaleh”.
L’impressione che gli aveva lasciato - parlava naturalmente per sé - era di profonda malinconia. A suo parere, che si volessero trasferire sull’isola Șimian la moschea e, in parte o interamente, le mura della fortezza, sembrava un’idea lodevole. Belle le riprese. Ogni pietra con il suo numero sarà collocata al posto giusto sull’altra isola destinata a diventare un museo. Si domandava, però, le case, i giardini, il cimitero, che fine avrebbero fatto? E le persone, da che parte sarebbero andate?
“Immaginate che capiti a me, a voi. Essere costretti a lasciare i luoghi di fatica e di amore con la consapevolezza di non ritrovarli mai più”.
Il professor Marcu aveva alzato un dito in segno di rimprovero.
“Caro Codrescu, la funzione di quel documentario è mostrare al mondo le trasformazioni, epocali direi, che avvengono in questo piccolo Paese che è il nostro! Senza sacrificare l’isola sarebbe impossibile costruire la centrale fluviale. Una delle più grandi in Europa! Che cosa vuole lei, energia elettrica o cipressi? Si tratta di una scelta rivoluzionaria. E un’altra cosa. Trovo che sia un’ottima soluzione trasferire alcuni pezzi significativi, intendo storici, sull’isola Șimian. Fa bene agli abitati e fa bene ai turisti. E per tornare al documentario, caro professore, ora mi sento anch’io parte di un avvenimento straordinario. L’ultima primavera su Ada Kaleh”.
La professoressa Adela aveva cominciato a canticchiare la canzone di Gigi Marga: Ada Kaleh, Ada Kaleh, nella tua terra magica è spuntato come un fiore, l’amore... Non ricordava tutte le parole.
Il signor Marcu scattò qualche fotografia di loro seduti al tavolo. Un’inquadratura cinematografica.
Selina, mentre attraversava il ristorante in cerca della toilette, raccolse da terra una cartolina priva di francobollo, con vista sulla passeggiata verso la cittadella. Destinatario in stampatello: Al Compagno Primo Segretario PCR del Comitato Cittadino - Com. Fierbinți (Ilfov). Firmava, in corsivo, Marcu Zaharia.
Selina non ebbe la curiosità di leggere le righe fitte e storte che declinavano fin quasi a coprire l’indirizzo. Consegnò la cartolina al mittente.
Appena partiti da Turnu Severin, con un piccolo applauso d’incoraggiamento, fu invitata a cantare. Zoe le si sedette accanto, complice dell’invito. Selina attaccò la canzone della Caselli. Forse qualcuno aveva visto il festival “Cerbul de aur”.
Il signor Marcu le fece una foto, poi se la strinse a sé. Selina si lascio abbracciare con un senso di fastidio.
Celestina Fanella
(n. 12, dicembre 2024, anno XIV) |
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