|
|
Camil Petrescu, «l’innovatore del romanzo romeno»: 130 anni dalla nascita
Nel 2024 ricorrono 130 anni dalla nascita di Camil Petrescu (1894-1957), romanziere, drammaturgo e poeta, membro dell’Accademia Romena, nato a Bucarest nel 1894. Si dedicò giovanissimo al giornalismo e alla letteratura, sostenendo il ruolo preminente dell'intellettuale nella società: problema che affrontò poi in gran parte della sua opera. Dopo Versuri (Versi, 1923), opera di tendenza realistica ispirata alla guerra, Camil Petrescu compose il volume di liriche Transcendentalia (1931). Notevoli i romanzi di analisi psicologica: Ultima noapte de dragoste, întîia noapte de războiu (L'ultima notte d'amore, la prima notte di guerra, 1930) e Patul lui Procust (Il letto di Procuste, 1933), per i quali viene considerato «l’innovatore del romanzo romeno». Teorico del teatro in Modalitatea estetică a teatrului (1937), direttore del Teatro Nazionale di Bucarest, scrisse molto per le scene; fra l'altro: Jocul ielelor (Il gioco delle streghe, 1916-18); Suflete tari (Anime forti, 1925); Act veneţian (Atto veneziano, 1928); Mitică Popescu (1927); Danton (1931); Bălcescu (1949).
Camil Petrescu è stato proposto in Italia già nel 1929, quando è stato pubblicato il dramma Suflete tari con il titolo La pazzia di Andrei Pietraru, traduzione di Agnese Silvestri-Giorgi, prefazione di Claudiu Isopescu (Perugia-Venezia, La Nuova Italia). Poi, nel 1956, grazie alla traduzione di Anna Colombo, nell'Antologia della narrativa romena (Modena, Guanda Editore) compilata dal professor Giuseppe Petronio (1909-2003), senza che i suoi romanzi venissero poi editi in volume. Pubblichiamo qui un frammento del romanzo d'introspezione psicologica Il letto di Procuste, nell'auspicio che venga integralmente tradotto e fatto conoscere anche al pubblico italiano.
Ricordiamo qui che dal 2006, l’Istituto Culturale Romeno di Bucarest finanzia gli editori stranieri per tradurre e pubblicare libri di autori romeni, attraverso il programma Translation & Publication Support Programme.
Frammento da «Il letto di Procuste»
Resto di nuovo a lungo pensoso… Tutto quest’ultimo periodo di tempo (di cui parla Ladima nelle sue lettere) è pure della mia vita, sicché ogni data altrui penetra nella mia esistenza come un misto di sogno e di realtà… L’orologio che ha segnato regolarmente le ore finché ho compiuto ventotto anni, da allora non è più del tutto a posto. Vivo una vita, in cui nulla di ciò che avviene ha più un significato semplice… Tutto vi deve corrispondere, come in sogno, a un’altra situazione; i fatti acquistano, gli uni dagli altri, sensi nuovi; le parole non bastano a indicare ciò che è di là da esse. Prima la mia vita aveva i giorni della settimana: lunedì, martedì, mercoledì, ecc., corrispondevano ai giorni indicati nel calendario; quando erano le 12, eran le 12; se faceva caldo, avevo caldo; se avevo il raffreddore, starnutivo… I miei propositi o mancanza di propositi si sovrapponevano esattamente ai fatti… Quando conoscevo un tale, era quel tale, quando ne conoscevo un altro, era «un altro»; quando andavo al letto con una donna, voleva dire che l’avevo avuta; quando un conoscente diceva che gli piacevano le sigarette Lucky Strike, significava che gli piacevano le Lucky Strike. Ma da qualche anno, per un cumulo di circostanze disparate, che anch’esse avevano pure un senso, i segni non corrispondono più al loro contenuto solito, i fatti hanno cause diverse da quelle che so io: se una donna, che è la mia stella polare, ride, non vuol più dire che sta allegra; quando un signore è grave, corretto e imponente, non vuol dire che il suo destino non dipenda in tutto da una mia parola*; quando fuggo un sorriso, non significa che non lo desideri; e un signore con mustacchi bellicosi, che immaginavo su una cattedra universitaria, adesso vengo a sapere che portava dal calzolaio le scarpe di Emilia… So che simile evoluzione è normale per innumerevoli altri esseri umani, ma non è normale la trasformazione mia, dello sportivo, dell’addetto diplomatico Fred Vasilescu. Eppure adesso, quando non sono più come un tempo, gli occhi con cui guardo il mondo sono più che mai, come non mai, soltanto miei, e dietro di loro ci sono io, soltanto io… Non posso guardare con altri occhi… Posso capire che cosa significhi essere normali, soltanto confrontando la mia esistenza, qual’era prima d’incontrare la signora T., con quella attuale. Vedevo meno colori, a malapena alcune sfumature, assai meno fatti, altre gioie… non sospettavo neppure tanti sensi, quanti da allora mi saltano agli occhi. La vita era anzi assai meno ricca, con meno avvenimenti, e tutti, a un di grosso, somiglianti. Che mi si siano acuiti i sensi? Prima non vedevo niente, come quando passi vicino a un albero, passeggiando, e non lo vedi nemmeno – e non per distrazione, ma soltanto perché non t’immagini che mai potrebbe interessarti in un albero. E neppure te lo domandi. Ma quando il tuo compagno si è fermato a guardare, e lo imiti, allora scopri innumerevoli particolari curiosi: la corteccia è screpolata in modo così vario, che ti lascia smarrito; ci sono fiori, alle radici, diversissimi; c’è anche un formicaio che, se lo osservi, ti rivela altri eventi piccini, ma tutti differenti. Il compagno che mi ha fatto fermare solo per guardare lui qualcosa, per me è stata questa donna; e da allora ho cominciato anch’io a vedere una quantità di cose. Mi viene in mente che, senza la signora T., per me non sarebbe esistito Ladima; e il ritrovamento delle sue lettere, che ora mi agghiaccia, e che, in questo tramonto afoso, in questa camera, mi sembra germinare sofferenze e oscuri sensi, non mi avrebbe trattenuto neppure il tempo di fumare una sigaretta. Se lei non mi avesse rivelato certi contraccolpi dell’orgoglio e certe raffinatezze, se non mi avesse iniziato al sapore dell’umiliazione, non mi sarei mai accompagnato con un uomo, che in pubblico mi aveva dato del villanzone [per aver insultato la signora T., in una sera di gelosia e di ubriachezza]; senza di lei non avrei saputo che incontrare una notte un simile uomo, e fare con lui una gita in compagnia, può dare una gioia densa, grave, più profonda che quel viaggio a Londra, tanto sognato quand’ero studente.
E se tutto ciò avviene, e specialmente se avviene così, è perché in tutto, in ogni cosa, in ogni caso o non caso da quando l’ho conosciuta, permane qualcosa della sua esistenza, immaterialmente, così come in ogni membro, per quanto minimo, vibra l’energia dell’organismo intero. E nulla può più essere altrimenti, come il fiume non può più scorrere a monte.
[Fred ha scorso una lettera disperatissima dell’amico, oppresso dalla miseria]. Ciò che mostra, fino a lasciare stupefatti e desolati, quanto sia complicato questo sistema di interdipendenze e di relatività, proprio dell’amore, è che in quel tempo io, scosso e ammirato, invidiavo Ladima, il quale si recava spesso, dopo pranzo, a bere un caffè e a leggere riviste, nel negozio della signora T. Quando lo incontravo mentre ne veniva io, condannato a non entrarvi, avevo l’impressione che egli ne conservasse sugli abiti una specie di polline spirituale. Lèggere, leggevo anch’io, più che mai, ora, e con tutto nuovo accanimento, cercando sempre somiglianze, come certi malati, che non sanno con certezza di che cosa soffrano, cercano, in libri di medicina, sintomi somiglianti con i propri. E ciò che m’impressionava soprattutto non erano tanto le analogie nelle circostanze e le conformità nei caratteri, talmente forti, talmente evidenti, che non mi dicevano gran che, quanto una data serie di rispondenze nella sensibilità, che mi abbrividivano, quando le scoprivo. È stupefacente quanto si assomiglino, nelle reazioni sentimentali, due innamorati, per quanto differenti possano sembrare i loro caratteri. (Ma forse hanno lo stesso carattere, e per questo sanno amare?). È tanto determinato il meccanismo della nostra psiche, che, nonostante ci illudano le differenze di struttura, ci sono incidenti, particolari così simili, che ti agghiacciano. Che per vie diverse si arrivi allo stesso punto, ti dà il turbamento ben noto a chi, nel bosco, in qualsiasi direzione proceda, si ritrova sempre là donde è partito. E quanto più le corrispondenze sono sottili, appena una sfumatura – tanto più fonda è l’eco dello stupore. Che lavorando senza sapere l’uno dell’altro, il Boyle e il Mariotte scoprano contemporaneamente la stessa legge, o il Newton e il Leibnitz il calcolo differenziale, è cosa meno perturbante che l’apprendere che, per causa della stessa malattia fisica, due esseri provano gli stessi sintomi psicologici, mentre li credono indicibilmente personali, fuori di ogni esperienza. Di qui l’ammirazione sconfinata per il medico il quale sappia interrogare il malato intorno, non ai sintomi generali, massicci, non intorno a un dolore «a destra», a crampi o alla fitta nel petto, o alla tosse, ma a impressioni da lui credute puramente soggettive: «nevvero che talvolta senti odore di tela bruciata?... Non ti sembra spesso che le palpebre siano di cartone? Senti il bisogno di stenderti? Ti fa male la carne con fibre grosse, e invece ti piace quella con fibrille minute?».
Domande cioè, che ti paiono dimostrare sagacità, e quindi profonda sapienza del medico.
Così ti soggioga colla sua penetrazione, non l’autore che presenta nei suoi libri casi e caratteri notevoli, ormai ben noti, sì certe sfumature, considerate quasi segrete epperò tanto più rivelatrici, perché da sole sono malleveria anche per le verità generali, di superficie. Stupore grande, talvolta terrore, dà lo scoprire a qual punto si assomiglino gli uomini, che pure si credono tanto differenti all’aspetto, in ciò che hanno di più sottile, di più segreto.
Ciò che ad alcuni potrebbe sembrare grottesco, assurdo, cioè che un uomo come Ladima si uccida per una donnàccola come Emilia, a me sembrava spiegabilissimo. Non potrei dire perché… Da spizzichi di esperienza personale, dall’attento esame delle cronache nere, da quel che osservo intono a me, son giunto alla convinzione che soltanto le donne volgari provochino «drammi d’amore», suicidi o delitti. Indubbiamente, per le donne più degne si soffre assai di più, assai più profondamente e in forme quasi di annichilante sadismo. Ma quando odi parlare di un suicidio o di un delitto, quasi sempre constati la stupefazione di quelli che hanno conosciuto l’eroina: «Come! per quella lì?! Ma non è nemmeno bella, è volgare, ha l’intelligenza di una merciaia, che bracca il guadagno…». Proprio per questo, di quante donne si vantano le doti a Bucarest – almeno a quel che ne so io – nessuna ha portato alcun uomo al suicidio. Da quando ho aperto gli occhi sulla società, tutti i drammi si sono svolti per anime di periferia: quasi sempre per ex-prostitute, avventuriere di carrozzelle a ore. Vero è che la sofferenza provocata da una donna d’intelligenza superiore, delicata, sensibile, sia quanto si voglia capricciosa, è come una malattia lunga, con alti e bassi, con particolari compiacimenti nel dolore, con un approfondimento di sé e un’illuminazione del mondo esterno, fino allora insospettati; come quelle malattie di cui uno scrittore, che ho letto non so dove, diceva che sviluppano l’intelligenza. Ma se la sofferenza per una donna degna assomiglia alla tisi, quella per una femmina da strapazzo ha qualcosa del prurito esasperante di una foruncolosi, di una malattia vergognoso: è insopportabile… Cadono vittime di simili amori suburbani, da romanzo d’appendice, per mancanza di punti di riferimento, certi uomini che per condizioni sfavorevoli hanno «saltato l’inizio» e poi sono costretti a mordere il freno; così pure altri – ma pochi – per mancanza di attenzione critica.
(E il caso frequentissimo di suicide per amore? Per lo più, si tratta di complicazioni – gravidanze, mali trattamenti, o abbandono in miseria senza scampo, dopo una fuga da casa – che, sebbene siano conseguenze dell’amore, non significano però che la morte sia stata scelta soltanto perché la suicida non poteva vivere senza quella data persona, com’è in genere degli uomini, o delle giovani coppie).
Una donna degna, anche se è inflessibile nel crudele rifiuto, qualora così creda di dover agire, pure ha comprensione per la sofferenza che provoca, non la rende volgare né triviale con scene plateali… S’intende che, molte volte, volendo addolcire la pillola, ella complica le cose, riapre la ferita; ma anche in ciò introduce una strana nobiltà, per cui la vittima le è ancora più grata, perché in ogni sofferenza conosce veleni nuovi… Pure, chi resiste a lungo a un simile regime, finisce per guarire. Una donna di tal fatta, quando l’uomo mendica un sorriso, un istante, non lo spedisce a far compere calcolando: «otto, e con il formaggio nove…». Avvezza com’è a essere amata, non si vanta in tram, non mette in piazza l’eroe – povero eroe! – cadutole ai piedi, esacerbandone il tormento; non spinge, non dandogli mai tregua, mai illusioni, un uomo accecato dalla passione a gesti disperati, esasperati. Lo sparo finale, in genere, è solo un momento della serie d’insulti tra due amanti volgari, delle immondezze buttatesi alla faccia l’un dell’altro, delle fiche fattesi in pubblico, dei: «i mortacci tuoi, morto di fame!».
Certe madame, che maltrattano l’unica serva in presenza degli ospiti, per mostrare a tutti che sono loro le padrone… chi ha molti domestici non ha bisogno di farne pompa… e chi è molto amata, non degrada l’amore.
(n. 12, dicembre 2024, anno XIV)
* Fred ha appreso dalle lettere che Ladima sarebbe stato felice di essere assunto da lui quale segretario di un ente culturale; ma era un posto così umile, che Fred non aveva mai pensato di offrirglielo.
| |