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Memoria degli uomini, memoria dei poeti…
Il ricordo dei miei incontri con Marian - a cominciare dal primo, propiziato dal comune amico Mihai Nasta, in un luminoso giorno di primavera sulla fine degli anni ’70, a Bucarest, nella ricca fioritura di ippocastani del parco della biblioteca dell’Accademia Romena di Calea Victoriei – si fa ancor più vivo, a distanza ormai di vent’anni dalla sua innaturale, immatura scomparsa, quando ripenso alle lunghe, appassionate conversazioni che intessevamo a più riprese, a Cluj, a Roma, a Bucarest (lui giovane sottogretario di Stato all’indomani della pseudo-rivoluzione del dicembre ’89) nel corso dei due decenni che seguirono a quel primo fausto incontro.
L’ampiezza della cultura di Marian, che aveva messo pienamente a frutto la lezione della scuola storica italiana, appresa dai vari maestri da lui riconosciuti tali, in primis Aurelio Roncaglia - senza dimenticare la fascinosa Luciana Stegagno Picchio e l’altro lusitanista romano, Giuseppe Tavani, o i tanti prestigiosi italianisti nonché i giovani compagni di studio della Sapienza che hanno dato poi ulteriore lustro alla scuola filologica romana, nonché l’importante retaggio del magistero di Michele Barbi nel campo dell’esegesi dantesca – lasciava interdetto più di un interlocutore. L’agilità con la quale poteva passare con estrema naturalezza dall’italiano al romeno o dal francese al portoghese veniva forse soverchiata soltanto dalla mobilità intellettuale con cui sapeva discorrere di un canto della Commedia e della poesia di Arghezi, della Chanson de Roland e delle antiche cantigas galeghe. Ma più che la stupefacente ricchezza e versatilità disciplinare ritengo che il pregio maggiore della figura intellettuale di Marian risieda nel metodo di lavoro che si è saputo dare e che ha voluto fornire alle successive generazioni di studiosi, non soltanto romene.
Un saggio fondamentale come Intelectualitate şi poezie (1986) non avrebbe potuto scriverlo nessun altro studioso romeno, né un G. Călinescu né un A. Marino, uno studio ecdotico del livello di Filologie barbiană (nel volume Critica de atelier, 1983, pp. 58-151) non poteva uscire che dalla sua penna, e mi limito qui a queste due sole encomiabili menzioni critiche. Come modesto omaggio, oggi, alla sua memoria di studioso e alle nostre conversazioni di un tempo, mi piace offrire per questa silloge miscellanea una proposta di lettura che mette in qualche misura a frutto l’analisi intertestuale, a lui ampiamente congeniale.
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Proverò a suggerire qui un possibile saggio di lettura per un’opera letteraria temeraria, oltre che volutamente complessa, e all’apparenza anacronistica (certo anche il Quijote lo era stato, a suo modo, rispetto al crepuscolo del mondo cavalleresco), composta nel secolo scorso, di fatto ‘solo’ trent’anni fa, quando nella Romania ceauşista perdurava la fase più buia dell’ultimo decennio di dittatura. Il nome di Mircea Cărtărescu era già noto allora alle giovani generazioni, e non solo bucarestine, avendo debuttato nel 1980 col volume di versi Faruri, vitrine, fotografii [Fari, vetrine, fotografie], esponente di spiccodel celebre Cenacolo di poesia del Lunedì [1], di cui era mentore il critico più temuto e rispettato del tempo, Nicolae Manolescu. La sua curiosità onnivora, e il suo talento letterario, avevano però portato il nostro Autore a frequentare allo stesso tempo il Cenacolo di prosa “Junimea” [La Giovinezza], del giovedì, guidato da un critico dal fiuto raffinato - nonché scrittore in proprio di racconti fantastici - qual è stato Ovid S. Crohmălniceanu. Fu proprio il buon Croh, come si usava chiamarlo affettuosamente nella cerchia della Facoltà di Lettere di Bucarest, a promuovere di lì a poco la pubblicazione di Desant ’83 [2], un’emblematica raccolta di prose brevi scritte da un consistente manipolo di promettenti giovani ‘ottantisti’... che si chiudeva con Păianjeni de pămînt [Ragni terrestri] di Cărtărescu.
In realtà in quegli anni, in un sistema universitario di eccellenza - grazie ad alcuni ottimi docenti, al numerus clausus e alla temperie socio-politica che non offriva alcuna alternativa allo studio individuale (“matto e disperatissimo”, in taluni casi) e ai lavori seminariali di gruppo - si era formata, in particolare nelle facoltà umanistiche, una nuova generazione di intellettuali provvista di tutti i più moderni strumenti d’indagine critica, perfettamente sincronizzata dunque con quanto si produceva nello spazio accademico occidentale. In più, come del resto negli altri paesi centro-europei, la letteratura ‘universale’ aveva continuato a essere, insieme con il teatro, un punto di riferimento costante per il pubblico più acculturato, che trovava in essa le ragioni per sopravvivere al quotidiano degradato, un’ancora morale di salvezza rispetto all’umiliazione della persona che il sistema perseguiva con ottusa determinazione (ad onta del proclamato progetto mirante alla creazione dell’uomo nuovo socialista).
Procedendo sulla via da lui segnata con Poema chiuvetei [3] e ancor più con O seară la operă [4] - in cui veniva offerta una mirabile, succinta storia della poesia romena, mimandone i diversi registri stilistici autoriali - nel 1988 Cărtărescu mette mano all’ambizioso progetto di un poema epico, senz’altro una composizione metaletteraria di ampio respiro, in dodici canti, in cui l’abilissimo ‘gioco’ intertestuale che presiede a tutta l’opera ci riporta con la memoria a un’altra affascinante epopea, pensiamo a Țiganiada [5] - il cui sottotitolo recitava Poemation eroi-cómico-satiríc - composta da Ion Budai-Deleanu nei decenni a cavallo tra fine XVIII-inizio XIX secolo. Ben al di là della raffinata, condivisa jocăreauă letteraria che accomuna le due opere, c’è però un altro elemento che ne sancisce un tratto definitorio: entrambe muovono da una precisa istanza etico-politica, legata alla volontà e al bisogno morale di risvegliare - in epoche pur assai diverse temporalmente, ma connotate da una analoga, sostanziale mortificazione delle libertà civili (sotto la duplice monarchia austro-ungarica, nel caso di Budai-Deleanu, la Transilvania, sotto il totalitarismo comunista, per Cărtărescu, l’intera Romania) - le coscienze dei romeni loro contemporanei, perché essi trovassero le ragioni e la forza per ribellarsi e unirsi per il riscatto della propria identità misconosciuta e oppressa.
Al di là delle motivazioni squisitamente ideologiche, di necessità qui appena accennate, che pure confermano l’impegno civile di Mircea Cărtărescu (il quale ha firmato fra l’altro una significativa raccolta di suoi ‘editoriali’, intitolata Baroane!) [6], è sul valore primariamente artistico del poema che intendiamo ora soffermarci, e più specificatamente sull’idea che sottende Il Levante: quella di celebrare poeticamente - attraverso rinvii impliciti, riscritture, parafrasi e quant’altro - autori più noti e meno noti, tracciando così un profilo essenziale della storia della poesia romena... intento che può trovare un suo illustre, larvale antecedente nel citatissimo componimento Epigonii [Gli epigoni, 1870] di Mihai Eminescu [7].
Alle pratiche compositive qui sperimentate dal Nostro possono essere agevolmente ascritte tre diverse modalità stilistiche ben note agli studiosi del mondo classico: mi riferisco alle nozioni di imitatio, aemulatio e interpretatio,le quali vanno di fatto a creare, in crescendo,un’originale autonomia creativa da parte di colui che dialoga con una serie piuttosto ricca e cronologicamente ampia di testi appartenenti ad autori e opere letterarie del passato (nonché del tempo presente, con extravaganti incursioni nella contemporaneità, si pensi all’evocazione di George Steiner e René Thom, di Gramsci, Che Guevara e Lucreţiu Pătrășcanu [8], di scienziati, di gruppi rock, di film, di quasar e così via dicendo), testi redatti, com’è ovvio, non soltanto in lingua romena. Esemplificazioni eloquenti di procedimenti analoghi di certo non mancano nelle diverse tradizioni letterarie a noi più familiari, in una chiave non necessariamente manierista: basti pensare a un prezioso frutto maturo della nostra scuola di critica storica, quale fu l’illuminante saggio del romanista Pio Rajna su Le fonti dell’Orlando Furioso [9]. A poco meno di cent’anni dalla prima edizione di quel memorabile monumento di critica testuale, un filologo classico di vaglia, forte anche delle acquisizioni offertegli dallo strutturalismo, ci ha voluto fornire un ulteriore importante contributo di ermeneutica intertestuale. Mi riferisco all’agile saggio Memoria dei poeti e sistema letterario pubblicato da Gian Biagio Conte nel 1974, in cui ci è stato offerto un percorso privilegiato sull’allusività all’interno della poesia latina. [10]
Nell’impossibilità di dare conto delle numerosissime suggestioni e seduzioni letterarie presenti a piene mani nel poema, mi piace soffermarmi qui su uno almeno dei passi - che parrebbe non essere stato ancora compiutamente illustrato - a mio avviso importanti del Levante, in cui Cărtărescu si cimenta da par suo, con stupefacente inventività, con la ‘memoria’ di una tradizione letteraria che, oltre che ‘alta’, chiamerei senz’altro ‘aulica’. Mi riferisco dunque al canto VII, il più ricco di implicazioni e riferimenti espliciti relativamente alla storia della poesia romena, anche se non privo, sarei portato a dire, di qualche ulteriore sorpresa... Per il lettore colto, abituato a una discreta frequentazione con le opere dei poeti più significativi del Novecento romeno, non sarà difficile godere del sapiente gioco intertestuale che si muove abilmente tra il pastiche, la riscrittura, la citazione allusiva e così via dicendo, un ‘gioco’ intellettuale ancor prima che retorico che il Nostro instaura seguendo un chiaro, eloquente disegno.
Manoil, l’eroe del poema, viene scortato dunque da una ninfa (un Virgilio ingentilito?), la quale lo accompagna dinanzi a una sequenza di statue (un vero Pantheon delle lettere romene) che raffigurano altrettanti padri della poesia romena: si parte, com’era ovvio, con versi composti à la Mihai Eminescu (1850-1889), il poeta-vate della seconda metà del secolo XIX che è a monte di tutta la lirica romena moderna [11], posto su un enorme piedistallo, per arrivare poi al Novecento, il secolo cui appartiene il Nostro: dall’essenzialità oscura di Ion Barbu (1895-1961), con tre quartine rigorosamente ermetiche, si passa all’intimismo esacerbato del cadaverico George Bacovia (1881-1957), per chiudere il primo set di statue con il poeta espressionista, e filosofo della cultura, Lucian Blaga (1895-1961); seguirà poi un’altra statua, quella del grande poeta simbolista Tudor Arghezi (1880-1967), dalla cui caviglia spuntano stranamente (un po’ come Eva dalla costola di Adamo?) altre due figure, quella di Nichita Stănescu (1933-1983), di cui ci viene suggerito un bell’esempio di creatività lessicale [12] - e verso il quale la voce narrante chiede umilmente venia per non averne saputo cogliere, quand’era ancora in vita, la grandezza - e quella di un altro giovane poeta, che si autopresenta attraverso l’incipit di una sua opera in fieri:
«Floare a lumilor, val verde tivit cu pietre scumpe, mări pe care navighează corăbii de aur încărcate cu piper și scorțișoară, asemenea unor piepțeni ce trec printr-un păr parfumat, strop de rouă în care se-amestecă norii și cerul, o, Levant, în care zefirul își umflă obrajii și suflă asupra întinderilor de ape, ce puternice simțiri îmi aprinzi în piept! O, Levant, Levant fericit, cum nu simți tulburarea, mânia mea, cum nu vede ochiul tău cu sclipiri de ambră noaptea ce-mi umple pieptul, zbuciumul ce mi-a cuprins mintea de când m-am trezit din adormire, de când știu că sunt român! De ce n-am mii de ochi, asemenea lui Argus, ca să plâng cu mii de lacrimi cumplita stare a poporului meu peste care lupi și râși s-au făcut stăpâni, sfâșiind sânul Valahiei cu ghearele lor ascuțite!» [13]
Ci troviamo in questo modo di fronte a un topos che ci riporta in primo luogo a Ovidio, il poeta latino che nella decima elegia del IV libro dei Tristia - composti, è appena il caso di ricordarlo, sul litorale del Mar Nero nel corso dei duri anni in cui venne relegato a Tomi – scriveva:
Temporis illius colui fovique poetas,
quotque aderant vates, rebar adesse deos.
Saepe suas volucres legit mihi grandior aevo,
quaeque nocet serpens, quae iuvat herba, Macer,
saepe suos solitus recitare Propertius ignes,
iure sodalicii, quo mihi iunctus erat.
Ponticus heroo, Bassus quoque clarus iambis
dulcia convictus membra fuere mei.
Et tenuit nostras numerosus Horatius aures,
dum ferit Ausonia carmina culta lyra.
Vergilium vidi tantum : nec avara Tibullo
tempus amicitiae fata dedere meae.
Succesor fuit hic tibi, Galle, Propertius illi;
quartus ad his serie temporis ipse fui.
(Tristia, IV, 10, vv. 41-54) [14]
Salvo che la memoria dei poeti ci conduce direttamente a un altro grande, con versi di sicuro ancora vividi nei ricordi liceali di noi tutti:
Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand’ ombre a noi venire:
sembianz’ avevan né trista né lieta.
Lo buon maestro cominciò a dire:
«Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:
quelli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è ‘l terzo, e l’ultimo è Lucano.
Però che ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene».
Così vid’ i’ adunar la bella scola
di quel segnor de l’altissimo canto
che sovra li altri com’ aquila vola.
Da ch’ ebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e ‘l mio maestro sorrise di tanto;
e più d’onore ancora assai mi fenno,
ch’ e’ sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch’io fui sesto fra cotanto senno.
(Dante, Inf. IV, vv. 82-102)
Non c’è dubbio che, in comune con la sequenza del canto VII del Levante, il passo dei Tristia sopra citato presenta una rassegna di autori tutta interna alla tradizione della poesia latina del I sec. a.C., cioè a dire propria del secolo al quale appartiene Ovidio (così come lo è d’altronde il XX secolo per il Nostro), in cui il poeta di Sulmona colloca sé stesso come quarto nell’ultima serie di poeti da lui elencati. Mi pare però maggiormente rilevante, a questo punto, il fatto che Dante dica esplicitamente di essere «sesto fra cotanto senno», il che coincide in realtà con la collocazione che l’autore (a prima vista ‘anonimo’) del brano incipitario sopra riportato (che è di fatto l’incipit del Levante)assegna a sé, sesto dopo i nomi di Barbu, Bacovia, Blaga, Arghezi e Stănescu... con la specificazione di essere spuntato fuori dalla caviglia del penultimo, proprio come è del resto accaduto per l’ultimo della serie, Nichita! [15]
Se l’esame del topos da noi proposto presentasse una sua legittimità, sarebbe allora evidente l’eleganza di tocco con cui Cărtărescu riesce a innovare il pattern offertogli da una tradizione secolare, grazie alla sostituzione di un (talvolta ipertrofico) pronome personale ‘io’ con un suggestivo brano letterario, il che sancirebbe il trionfo della letterarietà, dell’edificio della letteratura in ultima istanza, sul soggetto autoriale, cosa che potrà in ultima analisi essere anche interpretata da qualcuno come una forma estremamente raffinata di esercizio narcisistico... una pratica che sa comunque offrirci una particolare gioia intellettuale, in cui il divertissement e l’ariosa inventività ci sollevano al di sopra del Bosforo, ci spingono verso le feconde regioni della Valacchia, ci fanno incontrare furfanti ed eroi, tiranni e mercanti, in un contesto levantino «où tout est pris à la légère».
La provocazione che ci viene suggerita da un’opera come Il Levante ci coinvolge in una sorta di navigazione nell'universo dei rapporti tra il poeta e il sistema letterario – classici, tradizioni, pubblico, generi – nel quale è immerso. Navigazione che trae origine da una prodigiosa memoria poetica: i debiti, i lasciti, le imitazioni e le reminiscenze, tra il poeta e i suoi predecessori. Tra retorica e filologia, Cărtărescu accompagna (e orienta) il lettore grazie a un grandioso, fertile bagaglio di evocazioni che attraversano l’intero edificio della Weltliteratur, operando con il concetto principe dell’allusività. Una poesia allusiva che, rimandando a una serie pressoché illimitata di ‘antecedenti’, risveglia nel lettore emozioni complesse, legate a una sorta di ‘memoria dotta’.
Il poeta viene ad avere così bisogno della complicità del lettore, il quale può assai spesso condividere e comprendere l'allusione... anche se un’opera siffatta – basti pensare alla complessità della Commedia dantesca, e ai suoi quattro ben noti livelli di interpretatio – postula e giustifica numerosi, diversi piani di lettura, proprio in funzione delle competenze di chi la affronta, senza dovere di necessità escludere, dunque, una fruizione più immediata, con una lettura che sappia degustare la leggerezza di una narrazione scorrevole, quasi favolistica, fatta col sorriso a fior di labbra, frutto di un potente immaginario ludico e al contempo visionario.
Marian Papahagi e Bruno Mazzoni all’Accademia di Romania in Roma
Bruno Mazzoni
(n. 10, ottobre 2019, anno IX)
NOTE
1. Ad esso il poeta alluderà più di una volta all’interno del poema di cui parliamo qui, Levantul [Il Levante: Cartea Românească, Bucureşti 1990], giocando sulla prossimità che presentano in romeno le forme luni (‘lunedì’) e lună (‘luna’, genitivo articolato lunii), con l’evocazione appunto di un chimerico “Cenacolo della Luna”.
2. Un titolo deliberatamente ‘bellicoso’, che potremmo tradurre con «Truppe da sbarco ‘83», con il frontespizio che precisava: ‘Antologia di prosa breve scritta da giovani autori’ (Cartea Românească, Bucureşti 1983).
3. Il poema dell’acquaio, un componimento ormai ‘classicizzato’, presente nei manuali scolastici romeni in quanto esemplificazione del dialogo intertestuale che un autore postmoderno può intrattenere con un poema fondante della letteratura romena qual è Luceafărul [Iperione] di Mihai Eminescu, la creazione più alta dello Spätromantik della seconda metà dell’Ottocento in Romania. La poesia di M.C. si può leggere in italiano nel volumeomonimo da noi curato per le edizioni Nottetempo (Il poema dell’acquaio,Milano 2015).
4. Una serata all’opera, pubblicata da Cărtărescu nel vol. Poeme de amor [Poesie d’amore], con una breve postfazione di Zoe Dumitrescu Buşulenga, Cartea Românească, Bucureşti 1983.
5. Il lettore italiano può oggi leggere l’intero poema, un’autentica «commedia filologica», anch’esso in dodici canti – incifrato però, a chiave, essendo stato composto dal suo autore in un tempo in cui i romeni di Transilvania erano sotto l’Impero absburgico – nella prima, accurata traduzione commentata che ci è stata offerta da Adriana Senatore: Ion Budai-Deleanu, Zingareide o l’accampamento degli zingari, Cacucci Editore, Bari 2015.
6. Barone! (Humanitas, Bucureşti 2005), che riprende alla lettera il titolo di un celebre pamphlet che Tudor Arghezi, dalle colonne della sua agguerrita quanto esile rivista «Bilete de Papagal», aveva polemicamente indirizzato, nel lontano 1943, all’ambasciatore tedesco di stanza a Bucarest, il barone Manfred von Killinger (gesto che gli costerà un anno di detenzione prima a Bucarest e poi a Târgu Jiu).
7. Un breve passo a firma di Mihai Eminescu, nel quale viene di fatto evocato il significato della poesia Epigonii, costituisce l’esergo dell’edizione romena di Levantul: «Dacă în Epigonii veţi vedea laude pentru poeţi ca Bolliac, Mureşan şi Eliade, acelea nu sunt pentru meritul intern al lucrărilor lor, ci numai pentru că, într-adevăr, te mişca acea naivitate sinceră, neconştiută, cu care lucrau ei. Noi, ceşti mai noi, cunoaştem starea noastră, suntem treji de suflarea secolului şi de aceea avem atâta cauză de a ne descuraja». (op. cit., pag. 5; non più presente nell’edizione Humanitas del 2004, esso verrà ripreso nell’edizione commentata curata da C. Ciotloş, Humanitas, Bucureşti 2016, pag. 13).
8. Leader storico del P.C.R., già ministro della Giustizia, arrestato per le sue posizioni antistaliniste, venne fucilato nel dicembre 1954 dopo un processo durato ben sei anni.
9. Ricorderemo di sfuggita come Pio Rajna, ripercorrendo, su invito di Giosuè Carducci, una già lunga sequenza di indagini puntuali, si fosse dedicato per più decenni a identificare i passi degli antichi autori che ritroviamo messi a frutto nella redazione del poema, dov’è naturale che la mano sapiente dell’Ariosto, amalgamando i prestiti diversissimi che la memoria letteraria gli offriva, è riuscita a ricreare un’atmosfera originalmente nuova in particolare grazie alla distaccata ironia con cui il poeta ha saputo narrare nel suo poema “le donne, i cavallier, l’arme, gli amori”. Cfr. Pio Rajna, Le fonti dell’Orlando Furioso. Ricerche e studi, Sansoni, Firenze 1876 (II edizione corretta e accresciuta, ivi, 1900; nuova ristampa, a cura di F. Mazzoni, ivi, 1975). Qualcosa di analogo – in realtà un unicum nell’ambito della critica letteraria romena - ci è stato meritoriamente offerto nel 2016 da Cosmin Ciotloş nella già citata edizione commentata del poema cartareschiano, dove un copioso apparato di note mira a individuare e illustrare una parte consistente dei riferimenti testuali, in prevalenza impliciti se si eccettua il VII canto, presenti nel tessuto connettivo dell’opera (cfr. Levantul...cit., Note şi comentarii,pp. 291-367, con l’aggiunta di un utile Glosar, pp. 369-375).
10. G.B. Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario: Catullo, Virgilio, Ovidio, Lucano, Einaudi, Torino 1974 (II ed. accresciuta, ivi 1985, da cui l’edizione in lingua inglese, The Rethoric of Imitation, Cornell University Press, Ithaca-London 1987; e ancora Sellerio, Palermo 2012).
11. Ci piace ricordare qui il pioneristico studio di Ioana Both, Eminescu şi lirica românească de azi: citatul eminescian în poezia contemporană românească, Ed. Dacia, Cluj-Napoca 1990.
12. «Hai, începe-ţi poemul cu vocea ta tărăgănată, în care se luptă-n fiecare cuvânt a simţi şi a întelege si unde a fi e săgetat ca un balaur de erând».
13. «Fiore dell’universo, verde onda orlata di pietre preziose, mari su cui navigano velieri d’oro carichi di pepe e cannella, simili a pettinelle che sfiorano una chioma profumata, goccia di rugiada in cui si fondono le nuvole e il cielo, tu, o Levante, dove lo zefiro gonfia le proprie guance e soffia sulle distese d’acqua, quali potenti sensazioni accendi nel mio petto! O Levante, Levante felice, com’è che non senti la mia collera, la mia ira, come può non vedere il tuo occhio dai luccichii d’ambra la buia notte che mi riempie il petto, l’assillo che occupa la mia mente da quando mi son destato dal torpore, da quando so di essere romeno! Perché non ho mille occhi, come il gigante Argo, per piangere con migliaia di lacrime l’orribile condizione del mio popolo sul quale dominano ora lupi e linci, dilaniando il cuore della Valacchia con le loro grinfie uncinate!» (Sicché l’incipit del poema Il Levante viene ripreso qui, integralmente, da Mircea Cărtărescu, nel canto VII. Si è citata la traduzione curata da B. Mazzoni, presente alle pag. 7 e poi ancora ancora 109 dell’edizione italiana: Voland, Roma 2019).
14. «I poeti del tempo frequentai venerandoli, e quanti/ mi erano vicini li ritenevo dèi./ Macro, di me più anziano, mi lesse i suoi versi sugli uccelli/ e che serpente nuoce e quale erba giova,/ e i suoi carmi infuocati recitare era solito Properzio/ secondo il patto di amicizia che ci legava./ E Pontico nel verso eroico e Basso nato per i giambi/ furono dolci amici di quella nostra cerchia./ Coi forti ritmi Orazio incantò le mie orecchie recitando/ sulla lira ausonia le sue odi sapienti./ Ma Virgilio lo vidi appena e a Tibullo il suo avaro/ destino non concesse tempo alla mia amicizia./ Fu lui il tuo successore, Gallo, e Properzio il suo, e quarto dopo/ di loro nella serie dei tempi fui io stesso». (trad. ital. di Gabriella Leto, in Ovidio, Dalla poesia d’amore alla poesia dell’esilio, a cura di Paolo Fedeli, tomo I, Mondadori, Milano 2007, pag. 725).
15. Una immaginifica ammissione da parte del Nostro di sentirsi legittimo discendente del principale innovatore, sul coté linguistico, della poesia romena della prima metà del XX secolo, nonché di essere letterariamente affine al poeta più profondo, a livello metafisico, del secondo Novecento romeno.
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