Matteo Spiazzi: un regista pedagogo

Il teatro deve seguire i ritmi incalzanti, quasi bulimici del capitalismo. Non che sia una novità: ai tempi delle compagnie di giro, era la norma che le compagnie allestissero diversi spettacoli contemporaneamente, e che avessero un repertorio il più ampio possibile in modo da poter variare l’offerta in base alla piazza. Nel Novecento, il teatro ha però fatto un cambiamento notevole, passando a ritmi produttivi più lenti. L’obiettivo non era più – o almeno non solo – il prodotto finale, ma la crescita dell’attore in quanto essere umano. Ecco allora che registi come Stanislavskij e Copeau si spostano dalle grandi città, e dedicano mesi interi all’educazione dell’attore, arrivando poi a portare in scena spettacoli fondamenti per la storia del teatro in generale. Rispetto a questo periodo d’oro, si è appunto fatto un passo indietro. Le produzioni dedicano una finestra di quattro, cinque settimane al massimo per le prove: qualche giorno di lettura a tavolino, e poi direttamente sul palco, per cercare di oliare al meglio la macchina teatrale in vista del debutto.

È quindi raro imbattersi in produzioni che comprendano il potenziale di una creazione collettiva o che accolgano la sfida di far imparare alla loro compagnia un nuovo linguaggio teatrale nel poco tempo disponibile. Matteo Spiazzi, classe 1987, è un attore e regista veronese che è riuscito negli anni ad affrontare queste sfide e a ricavarne qualcosa di più profondo.
Formatosi come attore presso l’Accademia Drammatica «Nico Pepe» di Udine, Spiazzi negli anni ha rivestito diversi ruoli: cantante, attore, autore e regista, pedagogo. Ha collaborato con università e accademie, curando masterclass di pedagogia teatrale, e ha lavorato come regista in Estonia, Lituania, Ucraina, Slovenia, Kenya, Russia, Polonia, Bielorussia, Austria, Repubblica Ceca, Ecuador; inoltre, nel mese di ottobre 2023 ha presentato a Mumbay lo spettacolo Places, basato sulla vita e le opere di Calvino. Se si prosegue a leggere la sua biografia, nelle righe immediatamente precedenti Spiazzi esplicita il suo interesse per le maschere: sono infatti loro le protagoniste indiscusse della sua carriera. Per comprendere appieno il suo lavoro, bisogna tener conto di tre parole chiave: le maschere, la regia, la pedagogia. All’interno di questa triangolazione, Spiazzi ha tracciato i confini di una personale pedagogia della maschera, che è alla base delle regie da lui firmate.

Partiamo innanzitutto con premessa necessaria: le maschere con cui Matteo Spiazzi lavora non sono quelle tipiche della Commedia dell’Arte, ovvero maschere di cuoio battuto che coprono metà del volto, lasciando un’apertura abbastanza agevole per gli occhi. Spiazzi usa maschere intere, che avvolgono il capo dell’attore coprendone anche le orecchie, e che presentano aperture molto piccole all’altezza degli occhi e del naso. Un’altra loro particolarità è quella di essere maschere asimmetriche, su cui sono tracciate delle imperfezioni – un lavoro di raffinati equilibri che, unito all’utilizzo delle luci, permette di rendere quei volti vivi, creando l’illusione che cambino espressione di scena in scena. Sempre per mantenere l’illusione che si tratti di un vero volto, e non di un oggetto, gli attori non possono parlare o emettere suoni. Tutta la comunicazione tra loro e col pubblico passa attraverso le azioni fisiche.

Detto questo, le maschere entrano nella quotidianità degli attori solo in un secondo momento. Nonostante Spiazzi debba convivere coi ritmi delle produzioni teatrali, la sua priorità è quella di essere un regista pedagogo, e quindi di non limitare le sue interazioni con gli attori a degli ordini, ma di aiutarli a imparare e padroneggiare al loro meglio un linguaggio nuovo, in modo che essi possano essere co-creatori dello spettacolo.
Le prove iniziano con il training: un momento dedicato al riscaldamento e alla concentrazione. Corpo e mente si preparano a uscire dagli schemi della quotidianità, e a relazionarsi con il mondo esterno in base a una diversa percezione degli stimoli esterni: gli occhi chiusi, le orecchie tese per cogliere ogni rumore, il corpo disponibile a contrarsi e liberarsi in base all’intensità del tocco dei colleghi. Un esercizio di ascolto dell’esterno, ma anche dell’interno. Di tanto in tanto, infatti, si può vedere un attore solo, in angolo, magari aggrovigliato in una posizione scomoda, o sdraiato a terra, o seduto: è in ascolto di sé, del proprio corpo, del proprio senso di solitudine.
Una volta che il corpo ha iniziato a percepire in modo più profondo questi stimoli, si procede educandolo a muoversi in funzione della maschera. Per fare questo, vengono proposti degli esercizi di improvvisazione: senza maschera, gli attori devono alzarsi e andarsi a sedere rispettando diverse regole. Innanzitutto, un attore per potersi muovere deve prima assicurarsi che tutti gli altri lo stiano guardando; lo sguardo è definito non dalla direzione degli occhi, ma da quella del volto intero; ogni azione deve essere portata a termine, e prima di essere eseguita bisogna aspettare tre secondi. Soprattutto, ogni qualvolta si senta un rumore o si veda qualcosa muoversi, bisogna guardare da dove proviene.
Questa preparazione alla maschera può proseguire per diverso tempo – seguendo il lavoro di Spiazzi in Slovenia, ho potuto fare da spettatrice a un’intera settimana di esercizi propedeutici alla maschera. Gli attori stessi, non abituati a questo linguaggio, erano confusi da alcune delle indicazioni. Quando finalmente è giunto il momento di calzare le maschere, il quadro ha iniziato a completarsi. Non è un processo facile: la maschera intera limita il campo visivo, obbliga a disporre il volto intero in direzione di cosa si vuole vedere (lo sguardo dell’attore, infatti, non è sufficiente), ed essendo dotata solo di tre fori rischia di risultare opprimente se, presi dalla foga, ci si muove in modo frenetico. Ci si potrebbe quindi chiedere: perché non far calzare loro la maschera subito? Perché non metterli immediatamente di fronte alle difficoltà che incontreranno? Perché non limitarsi a guardarli dall’esterno e ordinare loro i movimenti da fare?
Per Spiazzi, il senso del suo lavoro non è tanto allestire un prodotto finale. Per questo, durante le prove non crea una partitura fissa da insegnare agli attori. Le prove sono per lui un momento di scoperta di un corpo nuovo, quello del personaggio. Attraverso varie suggestioni, Spiazzi aiuta gli attori a trovare il corpo del loro personaggio, a vestirlo, a muoverlo.
Solo quando i personaggi sono stati abbozzati, si inizia a pensare a una storia. Partendo da un tema, Spiazzi dialoga con gli attori, i costumi, i dramaturg, raccoglie e accoglie le loro proposte, e costruisce insieme a loro uno spettacolo che non solo affronti un tema (come ad esempio la morte, la vecchiaia, lo scorrere del tempo), ma anche racconti qualcosa del loro mondo: un oggetto, una canzone, un gioco…
E mentre prova con gli attori e li aiuta a dare vita ai personaggi, ognuno con le sue peculiarità e piccoli segreti, Spiazzi ricorda loro che lui è il regista, certo, ma che i personaggi resteranno con loro ben dopo la fine delle prove. Ci saranno le repliche, la tournée, e soprattutto i loro corpi saranno ormai capaci di parlare una nuova lingua.

A dicembre, presso il Celje City Theatre (Slovenia) andrà in scena il suo nuovo spettacolo, Paradise (https://slg-ce.si/home/theater-play/paradise.html)
Per ulteriori informazioni, si consiglia il sito del regista: https://www.matteospiazzi.com



Benedetta Carrara
(n. 12, dicembre 2023, anno XIII)