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Una scuola (im)possibile
Salvare la scuola? Magari, lo vogliamo tutti! Ma bisogna prendere atto che siano dinanzi a un’impresa difficilissima, forse impossibile. Non ho dubbi sulla persona cui dovrebbe essere assegnato il Premio Nobel più importante del nostro tempo: quella che riuscisse a far tornare la scuola a un adeguato livello di insegnamento.
Perché sono così pessimista? No, non per il disinteresse crescente della società e dei suoi attori verso la scuola, non per il palese fallimento delle riforme scolastiche degli ultimi decenni; questi sono alcuni degli effetti, non la causa del problema. La causa? No, le cause semmai, purtroppo tutte potenti, concomitanti, pervasive.
Vogliamo elencarle? La prima è la consapevolezza che la scuola non rappresenta più l’unico trampolino di lancio per emergere, per affermarsi nella vita. Anche prima era così, una persona con la terza media poteva creare una grande azienda commerciale e perfino un impero economico. Ma doveva farsi il mazzo, rischiare sulla propria pelle, lavorare come un matto, stare sempre al passo con le richieste del mercato, e attento alla concorrenza, alla fluttuazione dei prezzi, eccetera.
Oggi, se sai come far fruttare i social, la scuola non ti serve a niente, perciò la trascuri, ci vai perché ci si deve andare, traccheggi, e intanto puoi ritrovarti, a diciotto anni, ad essere un influencer con milioni di followers, uno streamer di grido, un blogger con un esercito di fans, un rapper conosciuto e adorato in mezzo mondo, eccetera.
Seconda ragione: in una buona scuola bisogna stare attenti, produrre, imparare quanto più possibile, altrimenti non ha senso frequentarla; (ovvio che stare insieme ai propri coetanei è comunque un fatto utile e formativo). In questo senso, credo che la scuola migliore di ogni tempo sia stata il Giardino (Kepos) di Epicuro, che sul finire del IV secolo a.C. accoglieva uomini e donne, nobili e schiavi, ricchi e poveri, e dove il maestro e i discepoli discutevano di logica, fisica, etica, del sentimento dell’amicizia, della pace dello spirito, passeggiando in un ambiente confortevole, consono all’ascolto e all’espressione del pensiero individuale.
Ma com’è possibile chiedere e ottenere attenzione, riflessione e concentrazione a ragazzi che per tre quarti della loro giornata non fanno altro che digitare, scrollare, parlare e ascoltare attraverso un palmare? Inutile ripetere che il digitale è diventato il mondo dei nostri ragazzi, così come è ormai assodato che i social network danno dipendenza.
Non solo (e arriviamo alla terza ragione): ormai ci siamo convinti che qualsiasi sistema scolastico debba preparare alla realtà che gli studenti trovano fuori dalle aule. Ma come ha sottolineato lo storico Ernesto Galli della Loggia in L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la scuola, saggio del 2019, questa convinzione è stata interpretata nel senso che la scuola debba adattarsi alla società.
Ora, nessuno ignora che inserire una certa dose di automazione nella didattica sia qualcosa di ormai inevitabile. È impossibile ignorare i vantaggi dell’immediatezza e della versatilità dei social. Oggi se abbiamo un dubbio lessicale, se vogliamo conoscere la biografia di un grande del passato, la trama e il senso di un’opera letteraria, basta digitare tre parole al cellulare e abbiamo tutto sotto gli occhi. Possiamo corrispondere con parole e immagini, in diretta, con qualsiasi persona del mondo, entrare in un museo e godere dei suoi tesori senza mettervi piede, scaricare il testo di un libro custodito in una biblioteca degli Stati Uniti d’America.
Ma adattare la scuola al modus vivendi della società informatica vuol dire sminuirne il senso e il valore; se nella scuola continuiamo ad abbassare gli standard qualitativi, il risultato corrisponderà esattamente a quanto scrisse Giacomo Leopardi nel Dialogo di Tristano e di un amico delle Operette Morali: «Dove tutti sanno poco, e’ si sa poco».
Credo sia questo il vero peccato mortale del nostro tempo. Infatti, bisogna riconoscere che mai, nella storia dell’Umanità, letteratura, scienza, musica, arte, immagini sono state così disponibili per tante persone; purtroppo, se trascuriamo il luogo elettivo dove la conoscenza viene impartita, a dominare sarà la pseudo cultura del web, fatta di informazioni frammentate, irrelate, che nessuno studente è in grado di unire in un sistema integrato.
La quarta ragione è il mancato coinvolgimento del corpo docente. Partiamo da ciò che sappiamo tutti: i social stanno cambiando radicalmente le nostre facoltà mentali, la nostra volontà, la nostra libertà di pensiero. Non è vero, infatti, che il cellulare riesce a catturare la nostra attenzione anche quando stiamo lavorando, quando siamo a tavola, quando parliamo con colleghi e amici? Siamo davvero consapevoli che, più che la cultura e la riflessione, sono le informazioni e le emozioni online a orientare il nostro rapporto con la realtà quotidiana? Che il web ha una potenza che nessuna dottrina o tecnologia precedente ha mai posseduta? Siamo sufficientemente informati sui rischi di quello che lo scrittore Dave Eggers ha definito «capitalismo della sorveglianza», ovvero che i software hanno accesso alla corrispondenza digitale, ai microfoni e alle fotocamere dei nostri cellulari? Siamo consci di essere diventati tutti dei delatori, e che ormai, scientemente o inconsapevolmente, controlliamo e spiamo figli, parenti, amici, colleghi di lavoro?
Allora, se non possiamo fare a meno della tecnologia digitale, dobbiamo cercare di governarla, soprattutto in certi ambiti; la scuola è certamente uno dei più importanti terreni di confronto, e coinvolgere gli insegnanti nel compito di aiutare gli alunni a fare un buon uso del digitale è diventato imprescindibile.
Ma il corpo docente è chiamato in causa per un motivo che è forse ancor più determinante. Una scuola attiva ed efficiente deve essere capace di tenere insieme cultura e svago, studio e discussione aperta, impegno collettivo e partecipazione individuale al lavoro che si svolge nelle aule. E per ottenere questo agli insegnanti è richiesta la passione, quell’entusiasmo che fa di alcuni di loro dei veri motori dell’apprendimento, i fari verso cui si indirizzano le barche traballanti degli studenti di oggi. Ogni tanto la tv, i social, i giornali, ci riportano casi di scuole o di classi dove lo studio viene ancora onorato, e dà frutti palpabili; e scopriamo che dipende tutto da docenti che uniscono la professionalità all’amore per ciò che insegnano. Sull’argomento, vorrei citare il giudizio illuminante del critico e giornalista culturale Alfonso Berardinelli: «L’arte di insegnare è una delle più difficili. E quindi una società decentemente consapevole dovrebbe per prima cosa concentrarsi sulla formazione e selezione degli intellettuali destinati all’insegnamento: socialmente i più preziosi, quindi anche i più pericolosi».
Giudizio incontestabile. Un maestro o un professore fiacco, annoiato, privo di doti pedagogiche, ma soprattutto di entusiasmo, non potrà mai coinvolgere la propria scolaresca in uno studio degno di questo nome. I ragazzi si rendono conto immediatamente se la persona che hanno davanti crede in ciò che dice e nella possibilità di farne partecipi gli altri; perciò, quando si parla di test psicologici e qualitativi per gli insegnanti (perché alcuni si dimostrano davvero inadeguati) io direi di procedere al test più importante, i cui giudici non sono i presidi, gli ispettori, i genitori, ma gli studenti, che sono in grado di giudicare più di ogni altro la capacità del docente di offrire loro il pane della cultura, perché insegnare è nutrire, alimentare, e se il cibo non è buono chiunque tende a rifiutarlo.
Armando Santarelli
(n. 5, maggio 2023, anno XIII)
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