Armando Santarelli: «È un demonio, quel Proust!»

Armando Santarelli ci presenta la sua ultima fatica, È un demonio, quel Proust!, pubblicato di recente dall'editore Il ramo e la foglia di Roma, sul cui sito si può anche leggere un’ampia intervista all'autore.

È un demonio, quel Proust!
è forse il libro che ho scritto con maggior gioia, perché conosco e amo Proust da più di cinquant’anni e occuparmi di lui e della sua opera non poteva non darmi una grande soddisfazione. Eppure, come è accaduto a molti scrittori e critici, all’inizio avevo in mente un articolo, che volevo scrivere proprio per «Orizzonti culturali italo-romeni». Quando sono arrivato alla venticinquesima pagina, ho inviato una mail alla dott.ssa Cionchin, dicendole che non potevo mantenere la promessa, perché lo scritto stava diventando un libro.
È chiaro che una svolta del genere ha rivoluzionato ogni cosa, richiedendomi anzitutto di scegliere un tema specifico sul quale concentrarmi; non ho avuto dubbi nell’indirizzarmi verso l’infanzia e la giovinezza di Proust, ovvero il periodo della sua formazione umana e culturale. Avrei trattato, dunque, dell’educazione famigliare, di quella scolastica, delle letture e delle sue prime composizioni, delle amicizie con scrittori, musicisti, poeti, borghesi, aristocratici, tutto il mondo che confluirà nelle pagine della Recherche.
Avevo già letto, a suo tempo, sia la monumentale biografia di George D. Painter, sia quella, altrettanto fondamentale e più aggiornata, di Jean-Yves Tadié; le ho riprese e rilette attentamente, vi ho aggiunto altre biografie e alcuni fra i saggi più autorevoli dedicati a Proust, rimanendo fedele, per quanto possibile, a ciò che mi ero proposto: parlare in modo chiaro ed esauriente degli anni giovanili del più grande romanziere del Novecento.

Ma è proprio così? Proust è davvero il maggior scrittore del Novecento? Naturalmente, è impossibile stilare una graduatoria, un podio dei più grandi letterati di ogni epoca. Però, le classifiche che ogni tanto vengono redatte intervistando scrittori di ogni paese del mondo, vedono sempre, al primo posto, Marcel Proust. Il perché di questa quasi unanimità è presto detto: la sua opera maggiore, À la recherche du temps perdu, è un immenso capolavoro, un romanzo dove troviamo tutto: il senso, lo stile, la bellezza, la poesia, l’originalità, le concezioni più profonde riguardo al tempo, all’amore, alla malattia, all’amicizia, alla lettura, all’arte. Come ha affermato il grande filologo tedesco Erich Auerbach, Proust è il primo scrittore «che ha applicato in modo metodico e coerente la concezione del mondo come funzione della coscienza».
Ma il valore letterario della Recherche non risiede soltanto nell’enorme capacità di introspezione psicologica del suo autore; infatti, il romanzo proustiano è così polisemico, così ricco di significati e di interpretazioni da costituire una miniera e al contempo una delizia per gli studiosi di linguistica. È noto che diversi studiosi esperti di semiotica, primo fra tutti Gérard Genette, hanno impostato le loro teorie a partire dall’analisi di brani proustiani.
Innegabilmente, quando leggi la Recherche non puoi evitare un pensiero: dici a te tesso, e vorresti gridarlo, che nessuno potrà più raggiungere certe profondità, che hai appena letto un testo che dovrebbe accompagnare gli abitanti della terra se dovessero lasciarla, per testimoniare quanto abbiamo provato di più elevato riguardo a certi sentimenti. Chi non è d’accordo sul fatto che Guerra e Pace sia un grandissimo romanzo? Eppure, dopo averlo letto pensi che un’opera del genere possa essere avvicinata, che esistono capolavori simili. Ma quando leggi la Recherche comprendi immediatamente che rimarrà non solo un lavoro unico, ma il più grande romanzo che sia stato concepito e realizzato.

Nell’ambito dell’ineguagliabile processo di penetrazione psicologica che caratterizza l’opera di Proust, un tema che mi colpito in modo particolare e che percorre l’intera Recherche è quello del doppio. La grande strategia di Proust è quella di osservare i suoi personaggi e cogliere i diversi io che abitano e si manifestano in ciascuno di essi. Il doppio riguarda la contaminazione fra tratti estetici e comportamenti etici, lo snobismo che si cerca di dissimulare, le tendenze sessuali che si tende a nascondere, riguarda – e qui l’autore è davvero geniale e inarrivabile – la vera natura di certi sentimenti. In particolare, Proust insiste sul carattere soggettivo dell’amore: la persona che amiamo è, in qualche modo, una nostra costruzione, e la vera realtà è ciò che discende dall’amore, in primis la gelosia. L’amore sdoppia i personaggi, fenomeno che riguarderà lo stesso Narratore, che si accorge di diventare egli stesso una diversa persona a seconda delle Albertine cui si rapporta. Sublime e terribile è una delle affermazioni di Proust sull’amore: «Come ci si può augurare di vivere, come si può agire per preservarsi dalla morte in un mondo in cui l’amore non è provocato che dalla menzogna e consiste nel bisogno di vedere le nostre sofferenze lenite dall’essere che ci fa soffrire?»

Concludo dicendo che Proust è lo scrittore che più di altri ci ha fatto scoprire che l’arte rivela la vita a sé stessa; l’arte coglie l’essenza delle cose, sottraendole al contingente, ed è quindi non solo conoscenza (come voleva un precetto del Decadentismo) ma anche salvazione, l’unica via concessa all’uomo per sfuggire al tempo e alla morte. Ed è infatti alla distruzione operata dal Tempo che sopravvivranno per sempre le pagine della Recherche. Nella sua biografia di Proust, André Maurois ricorda il silenzio carico di commozione che subentrò alla lettura del brano della Prigioniera dedicato alla morte dello scrittore Bergotte: «Lo seppellirono, ma per tutta la notte prima dei funerali, nelle vetrine illuminate, i suoi libri, disposti a tre a tre, vegliarono come angeli dalle ali spiegate sembrando, per colui che non era più, un simbolo di resurrezione».




Armando Santarelli
(n. 12, decembre 2022, anno XII)