La situazione non è poi così critica

Ha conservato intatta la sua autorità. Non è vero, ha smarrito la sua funzione di guida e di produzione di valore estetico. È ancora di grande utilità. No, perché si sono notevolmente ridotti i suoi spazi espressivi. Rimane essenziale per la formazione del canone. Falso, ormai è incapace di selezionare un canone, al quale, del resto, non crede più nessuno.

Ma di chi parliamo? Chi è l’illustre – e a quanto pare un po’ malconcia – convitata? È la critica letteraria, questo genere interpretativo elettivamente votato alla funzione esplicativa di un’opera, della poetica di un autore, del significato più riposto di un romanzo o di una silloge poetica. E non solo: nella sua lunga e nobile storia, la critica ha svolto altri notevoli compiti: quello di opporsi al pensiero letterario dominante, di smascherare il vuoto di certe mode culturali, di promuovere forme artistiche alternative.  

Bene, che cosa resta della critica letteraria così intesa, quella che esprimeva giudizi di valore, che prendeva posizione e svolgeva la funzione di indirizzo dei lettori? Resterebbe molto se la si intendesse e praticasse nel senso indicato dalla stessa etimologia della parola (greco kritikḗ), e cioè interpretare, selezionare, giudicare, il tutto osservando una rigorosa deontologia professionale. Ma – ed è questa la domanda fondamentale – è ancora possibile tutto ciò in uno scenario dominato dal mainstream e dal marketing editoriale?

Cominciamo da quello che potrebbe individuarsi come il traguardo più ambizioso della funzione critica, ovvero la selezione di un canone letterario nazionale. Della possibile individuazione di un canone si discute da quando il critico americano Harold Bloom pubblicò il fortunato saggio The Western Canon (1994). Bloom collocava Dante all’inizio della letteratura occidentale, William Shakespeare al centro, e passando per Cervantes, Montaigne, Goethe, e poi per i capisaldi del Novecento Proust, Joyce, Woolf e Kafka, arrivava a Pessoa e Beckett; una selezione dotata di un’indubbia validità, anche se abbastanza ovvia, e necessariamente esposta a inevitabili questioni circa l’esclusione di altri giganti della storia letteraria.
Invero, la concezione di Bloom suscitò anche da noi diverse perplessità; per esempio, quella di non aver menzionato fra i 26 autori canonici prescelti alcune figure-cardine come Machiavelli e Leopardi. Un’obiezione sistematica arrivò dal critico letterario e saggista Alfonso Berardinelli con Alla ricerca di un canone italiano (in Casi critici. Dal postmoderno alla mutazione, 2007): «L’idea di un canone occidentale poteva essere concepita solo da un americano, mentre la critica europea esportava negli Stati Uniti un funambolo della ‘decostruzione’ e polverizzazione di ogni significato, idea e valore come Jacques Derrida». Rivolgendo lo sguardo alla nostra letteratura, Berardinelli chiosava: «Il solo canone letterario italiano che abbia un senso e un reale valore storico resta, a distanza di più di un secolo, quello di Francesco De Sanctis» (nella monumentale Storia della letteratura italiana (1870-1871).

L’impossibilità evidenziata da Berardinelli è condivisa da altri autorevoli studiosi. Ovvio che, finché esisterà la critica letteraria, gli specialisti saranno chiamati a esprimere e motivare le loro preferenze; ma per ragioni storico-sociali, per l’inevitabile contaminazione fra letterature di diversi Paesi, e a seguito dei vertiginosi fenomeni culturali succedutisi nel tardo Novecento e nei primi decenni di questo secolo, definire un canone nazionale è impresa che appare priva di senso, se non impossibile.

Il dibattito sullo stato e la funzione della critica letteraria si anima nuovamente nei primi anni del Duemila, con alcuni contributi di grande importanza. Nel 2002, la critica e teorica della letteratura Carla Benedetti pubblicava il pregevole Il tradimento dei critici. Reagendo alla stagnazione insita in alcune «ideologie terminali», la studiosa sosteneva con forza che la critica non aveva affatto perso il suo ruolo, paradossalmente negatole da una parte della critica stessa, chiusa nella propria autoreferenzialità e poco attenta alla vita culturale effettiva. Benedetti insisteva sulla necessità di non ridursi a fare gli animatori del gusto o i mediatori fra testo e lettore, e di tornare a un serio lavoro di istruttoria, di collaudo, riaprendo le porte al pensiero, esplorando territori sconosciuti, rischiando, sporcandosi le mani.

A conferma della vitalità della discussione, nel 2005 arrivava il pamphlet di Mario Lavagetto   Eutanasia della critica. Lavagetto rilevava anzitutto come la diffusione dei libri nelle case degli italiani, legata soprattutto alle strategie del mercato editoriale (classici allegati a riviste e giornali, o venduti a prezzi contenuti ecc.) non si stesse traducendo in un effettivo incremento della lettura. Inoltre, sottolineando l’importanza di una seria mediazione fra opera e lettore, il critico auspicava il ritorno a un’interpretazione svolta da professionisti competenti, in grado di analizzare un testo nel profondo, di amplificarne il senso e la portata. In quest’ottica, stigmatizzava la tendenza della critica a volersi trasformare da disciplina ermeneutica a saggistica scientifica e iperspecialistica, con possibili riflessi negativi sulla comprensione dell’aspetto umanistico e valoriale della letteratura.
Il malessere evidenziato da Benedetti e Lavagetto non si è arrestato; in sintesi, la critica accademica, quella che si svolgeva nelle sedi universitarie, nei convegni di specialisti, nelle riviste letterarie, non esiste quasi più; quanto alla critica militante, essa ha ancora un residuo spazio di manovra, ma vede innegabilmente ridotta la sua influenza sul gusto e le scelte dei lettori.

In conseguenza di tutto ciò è accaduto quel che doveva accadere; oggi molti critici letterari, nella necessità di esprimersi in modo veloce ed efficace, e di rendersi fruibili a un pubblico più vasto, esercitano le loro funzioni sul web. Nessun dubbio che le riviste on line e i blog letterari sorti negli ultimi due decenni («Nazione Indiana», «Il primo amore», «vibrisse», «Le parole e le cose», «doppiozero», «minima&moralia», «La Balena Bianca», «La dimora del tempo sospeso») abbiano svolto e svolgano con impegno quel compito di approfondimento, di collaudo, di resistenza che l’accademico e critico Remo Ceserani auspicava nel saggio La letteratura sotto l’impero del mercato (su «Il manifesto», 19.04.2000). Ma la rete ha favorito aperture ben più ampie. C’è una collettività che vuole dire la sua su tutto, letteratura compresa; così, l’esercito di influencer, critici improvvisati, youtuber e utenti facebook diventa ogni giorno più numeroso e invadente. E qui ha ragione lo scrittore Giovanni Bitetto: «Il web vive di nicchie e nicchiette, ed è importante saper riconoscere gli spazi validi».

Nell’ambito della riflessione di cui ci occupiamo, un'ipotesi non aveva mai cessato di agitare le acque, ovvero che la paventata «morte della critica» fosse legata ad altri annunci necrofili, come la «morte dell’arte», la «morte dell’autore», la «condizione postuma della letteratura». Nell’impossibilità di affrontare il tema in questa sede, mi limito ad alcune considerazioni. Nessun dubbio che la letteratura italiana degli ultimi decenni registri un progressivo e irreversibile distacco dalla tradizione del Novecento. Non è soltanto una questione di poetica o di stile; la realtà è che, per limitarci alla seconda metà del Novecento, non abbiamo più autori all’altezza di Calvino, Gadda, Pasolini, Moravia, Morante, Eco, Manganelli, Fenoglio, Arbasino, Merini, Penna, Sereni, Caproni, Rosselli, oltre a Magris e La Capria, fortunatamente ancora attivi.

Fatalmente, quella che Gianluigi Simonetti, in La letteratura circostante (2018) denominava «letteratura in senso forte» ha ceduto a una produzione di consumo, di intrattenimento, dove non è più l’esperienza conoscitiva a prevalere, ma quella emotiva. Negli ultimi anni, i segnali sono diventati ancor meno incoraggianti; impossibile negare l’adattarsi a logiche editoriali e di mercato, l’omologazione legata alle scuole di scrittura, l’indulgere in tematiche che ammiccano alla produzione cinematografica.
Proprio di recente, sulle pagine dell’«Espresso», è stato lo scrittore e critico Roberto Cotroneo a lanciare l’ennesimo allarme, parlando di una letteratura narcisistica, linguisticamente impoverita, confezionata in taglie adatte ai vari festival, saloni e premi letterari dove la narrativa diventa spettacolo e l’immagine dell’autore attrae più del libro stesso. A rincarare la dose, il battitore libero Massimiliano Parente, che ha assimilato gli scrittori del momento a «impiegati in carriera pronti a leccarsi l’uno con l’altro e circoscriversi le proprie lobby e sfere di influenza».

Che dire? Io penso che il quadro sconfortante dipinto da Cotroneo e Parente sia esagerato. La letteratura è figlia del proprio tempo; viviamo in un cyber spazio incessantemente connesso, dove si ha ancora una residua libertà di protestare con la parola, ma sapendo già che non può incidere più di tanto su un sistema che riesce a manipolare la percezione della realtà. Finita l’epica dei Gadda e dei Fenoglio, oggi domina una narrativa ibrida, fatalmente soggetta all’egemonia di una civiltà dell’immagine, all’influenza del virtuale e del globale.
Nonostante ciò, e contrariamente a quanto pensano i pur bravi Cotroneo e Parente, il panorama letterario italiano può contare su una produzione interessante ed eterogenea. È vero, c’è molta autofiction, e un eccesso di opere seriali e di tendenza; ma le enormi trasformazioni e i mutevoli orizzonti del mondo contemporaneo hanno trovato voci di tutto rispetto. Faccio i nomi, per la narrativa, di Moresco, Busi, Siti, Mari, Ammaniti, Veronesi, Mazzucco, Pecoraro, Trevi, Albinati, Covacich, Scarpa, Vinci, Scurati, Lagioia, Genna, Gamberale, Culicchia, Nove, Parrella, Pugno. Ma ci sono scrittori ancora più giovani e molto promettenti, e ben vengano iniziative come quella della Casa Editrice Chiarelettere, che grazie al lavoro dello scrittore e editor Michele Vaccari ha istituito una collana, Altrove, che ospita autori capaci di «osare con le idee e guardare oltre il piano del reale». 

Quanto alla critica letteraria, se il suo indebolimento rispetto ai fasti novecenteschi è innegabile, è altrettanto vero che continua a offrirci pagine molto significative. Emblematico è il caso di Alfonso Berardinelli; il fatto che la sua analisi si sia estesa alla società e alla cultura nel suo insieme, non gli ha impedito fulminanti ritorni nel campo in cui ha prodotto i risultati più rilevanti. E sono ancora in pista fuoriclasse come Giulio Ferroni, Filippo La Porta, Renato Barilli, Goffredo Fofi, Carla Benedetti, Marco Belpoliti, Walter Pedullà, Alberto Casadei, Pier Vincenzo Mengaldo, Romano Luperini, Mario Barenghi, Franco Cordelli, Stefano Calabrese. Se poi guardiamo ai critici dell’ultima generazione, non si può non rilevare la bravura di Matteo Marchesini (parli pure di agonia della critica, lui è la dimostrazione del contrario), Andrea Cortellessa, Paolo Di Paolo, Martina Daraio, Lorenzo Marchese, Andrea Caterini, Claudia Boscolo, Mimmo Cangiano, Diego Bertelli, Giuseppe Carrara, Matteo Fontanone, Gilda Policastro, Stefano Ercolino, Giacomo Raccis.
È di quest’ultimo una dichiarazione (nell’«Indiscreto» del gennaio 2019, a cura di Vanni Santoni) molto interessante (e giusta) sul panorama culturale del momento. Al cospetto della narrativa di consumo – osserva Raccis – può succedere che il critico si ritiri ‘inorridito’ nella letteratura di ricerca, suggerendo a un numero di lettori necessariamente limitato quale sia la produzione destinata a durare. Ma così, precisa Raccis, «dimentica un altro suo decisivo compito, che è quello di orientare il pubblico, che non è composto solo da lettori competenti come lui. E allora dovrebbe imparare anche a ‘leggere’ la produzione di consumo e di massa, non per nobilitarla inappropriatamente, ma per individuare in quell’ambito ciò che è fatto meglio».

Insomma, se pensiamo alla proliferazione degli spazi in cui la critica può esprimersi (riviste on line, blog, festival letterari, rassegne), non mi pare giustificato parlare di una sua marginalità, di una sua compressione, o addirittura di inutilità. È vero, oggi un critico non può avere contezza di tutto ciò che viene pubblicato; ma può orientarsi dove vuole, e affidandosi al senso di responsabilità, mettersi in cerca di opere capaci di entrare nel vivo della complessità in cui siamo chiamati a vivere. Dinanzi alla prospettiva di scrivere per gli addetti ai lavori e per pochi lettori, non è più utile – si chiede lo scrittore Massimo Maugeri – allargarsi al pubblico dei social network e della rete? «Perché», continua giustamente, «non istituire cattedre e corsi di studio specificamente dedicati alla produzione letteraria nazionale degli ultimi decenni?»
Indubbiamente, sarebbe un paradosso inaccettabile che a fronte delle trasformazioni in atto nel campo letterario ed editoriale – soprattutto l’iperproduzione libraria e l’influenza delle strategie di mercato – la critica pensasse di aver smarrito il suo prezioso compito di analisi, di interpretazione, di discriminazione. Sono proprio le particolari condizioni culturali e sociali legate alla società tecnologica ad assegnare alla critica una responsabilità non minore di quando agiva da giudice incontrastato del gusto e della qualità delle opere letterarie.


Armando Santarelli
(n. 3, marzo 2022, anno XII)