Centomila gavette di ghiaccio

Ogni tanto, noi ragazzi, stanchi degli scalmanati giochi di piazza, facevamo cerchio intorno agli anziani seduti «a pittinella» dinanzi alla chiesa di San Sebastiano. Eravamo incantati, ci perdevamo in quei volti rugosi, quegli occhi acquosi, quelle voci roche che raccontavano della maestra Assunta Alletto, insegnante di intere generazioni di cerretani, del tizzone che veniva portato di casa in casa per accendere il fuoco, delle sfide a morra e a ruzzica fra vaccaregli e pecoraregli, della prima corriera arrivata al bivio del paese.
I racconti che più ci appassionavano, però, erano quelli di guerra; io mi emozionavo ogni volta che sentivo parlare della linea del Piave e della battaglia sul Montello, la lunga collina dove, nel 1918, venne ferito mortalmente il prozio Luigi, il cui nome, sei anni dopo, fu imposto in sua memoria a mio padre.
Ognuno dei reduci, ricordo, aveva i suoi aneddoti preferiti. Fernando Bomma, combattente nella Grande Guerra, era fiero di essere stato uno dei primi a sparare con una mitragliatrice: «Ié steva in primissima, e ’ste pallottole fischievanu da tutte le parti, ma nu tenemmo ‘na mitragliatrice, se chiameva la Perino, e mitragliemmo ‘nso quanti crucchi…».
Carluccio era uno dei Ragazzi del ’99, i giovani chiamati in guerra nel 1917, quando avevano solo diciotto anni. In caserma, all’atto della consegna del fucile, guardò l’armiere e se ne uscì: «Ma come se fa a sparà a unu che non cunusci, che non t’ha fattu gnente!». E l’altro: «Ahó, ma da dove vieni, dalla montagna der sapone? È la guerra, regazzì! Se nun spari tu, t’ammazza er nemico, nun lo capisci?»
Nessuno di noi ha mai dimenticato il racconto di Memmo Bisaccia. Durante la Campagna del Nordafrica della Seconda Guerra Mondiale, aveva visto il suo amico Torda, di Tivoli, investito in pieno da una granata; del povero caporale, diceva, erano rimasti solo dei «fumetti» che bruciacchiavano qua e là nel deserto.
Anche i miei nonni erano stati in guerra. Nonno Armando aveva partecipato al Primo Conflitto Mondiale; ogni volta che iniziava a parlarne lo interrompevo, dicendogli che prima o poi avrei messo per iscritto i suoi ricordi. Purtroppo, morì improvvisamente nel 1972, quando avevo 16 anni e non avevo dato alcun seguito a quanto promesso. L’altro nonno, Filippo, arruolato per la Campagna d’Etiopia del 1935-36, era rimasto in Africa anche dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, «per fare fortuna». Nel 1949 tornò in Italia, ma non volle mai parlare degli anni trascorsi lontano dalla famiglia; ai figli diceva soltanto: «Non avete fratelli in Africa, state tranquilli».
Un giorno il professor Mario, insegnante di lettere alle Scuole Medie, si avvicinò a noi e agli anziani e attese che questi finissero di raccontare. «Ragazzi», disse in tono paternalistico, «vanno bene i racconti, ma ci sono pure i libri, su queste cose. Conoscete Centomila gavette di ghiaccio? Lo trovate a scuola, in biblioteca. È una lettura importante, capirete tante cose».
Qualche anno più tardi gli diedi retta e lessi d’un fiato Centomila gavette di ghiaccio, il libro del tenente medico Giulio Bedeschi. Di seguito, con Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern e Mai tardi di Nuto Revelli, completai la trilogia sull’epopea degli alpini in terra di Russia nell’inverno 1942-43. Ciò che pensavo ogni volta che mi immergevo in quelle pagine lo ricordo benissimo: quei reduci avevano scritto le loro memorie per non dimenticare e non far dimenticare, e avevano onorato nel miglior modo i compagni caduti.
I fatti cui i libri si riferiscono sono noti: nel pieno della Seconda guerra mondiale, dopo aver combattuto sul fronte albanese e su quello greco, le Divisioni alpine, nell’autunno del 1942, furono schierate in riva al fiume Don, col compito di difendere il fianco sinistro della VI Armata Tedesca, che combatteva a Stalingrado. Sull’altra sponda, l’esercito sovietico, più forte e meglio equipaggiato, attuava in pochi mesi un’efficace manovra di accerchiamento, e fra il 16 e il 17 gennaio 1943 le forze alleate della Germania, fra le quali il contingente italiano, ricevettero l’ordine di ripiegare verso ovest, onde evitare di essere chiusi in una sacca. La ritirata, che si protrasse per 250 chilometri, si svolse in condizioni spaventose: il gelo di temperature che raggiungevano i quaranta gradi sotto lo zero, la penuria di cibo e di sonno, l’imperativo di macinare ogni giorno, affondati nella neve, decine di chilometri, la necessità di respingere i micidiali attacchi delle truppe e dei partigiani russi. Oggi sappiamo che del Corpo di spedizione iniziale, che contava 57.000 alpini, non più di 11.000 fecero ritorno in Italia.
È senz’altro vero che leggere bene vuol dire rileggere; così, verso i quarant’anni, tornai alla trilogia sulla campagna di Russia. Di nuovo, tanta emozione e ammirazione per i loro autori; e in più, questa volta, anche una profonda commozione. Le ragioni credo di conoscerle: per la pena verso quelli che non sono tornati; perché un racconto è spesso un vivere altrove, e quell’altrove era un inferno ghiacciato; perché in queste memorie senza pretese storiografiche si sente il bisogno di testimoniare; perché assai più di libri noti e celebrati, muovono a una profonda gratitudine per chi le ha scritte; perché ci mostrano dove possono condurre gli errori di chi ha in mano le sorti di interi popoli; perché nelle loro pagine c’è l’Italia, ci siamo tutti noi. Noi che siamo andati in una guerra senza crederci, e in un frangente bellico, quello russo, dove neppure Hitler, di cui eravamo alleati, ci aveva chiamati. Noi sempre pronti a esagerare, a recitare, a fare i furbi; ma capaci anche di rimanere nei nostri panni quando altri si vestirono e agirono da mostri.
È doveroso precisare che i saggi storici ci dicono anche qualcos’altro: libri come Invasori, non vittime, di Thomas Schlemmer, e L’occupazione italiana in URSS, di Raffaele Pannacci, ci ricordano che quella italiana fu una guerra offensiva, e che non mancarono, nelle nostre truppe, azioni indegne e cruente. Ma furono episodi sporadici; i libri di Bedeschi, Rigoni Stern e Revelli riflettono l’ethos di uomini che credevano ancora in una Moralità con l’iniziale maiuscola.

Passare dal bisturi che salvò centinaia di vite di soldati alla penna, non meno incisiva ed efficace, di Centomila gavette di ghiaccio; questo il destino che attendeva l’ufficiale medico Giulio Bedeschi, che improvvisamente, alla sua prima prova, rivela insospettabili doti di scrittore.
Del valore narrativo del libro fu subito convinto il grande critico letterario Carlo Bo, che nella Prefazione all’opera formulò giudizi puntuali ed espliciti: «È evidente che lo scrittore ha saputo individuare un mondo, un territorio, diciamo meglio un campo comune dove la memoria poteva giocare tutte le sue carte, scatenando a sua volta un giuoco più complesso di sentimenti e di passioni. (…) In effetti – e soprattutto quando il Bedeschi racconta le azioni di guerra – procede globalmente, non sceglie, ci mette dentro tutto, ciò che uno scrittore interessato privilegerebbe e ciò che rientra nel quadro della prima memoria, ciò che sembra fatto apposta per colpire e quindi essere adoperato e sfruttato artisticamente e ciò che rientra nel consueto della conversazione».
Il commento di Bo è giustificato, perché la prosa di Bedeschi tracima di realismo psicologico, di riflessioni e di frustrante quotidianità, di immagini suggestive (ma mai arbitrarie) e di crude registrazioni dal vivo: la diversa mentalità del soldato tedesco, l’umanità degli italiani verso i prigionieri russi, l’ingegno degli alpini, capaci di ricavare nelle trincee una specie di villaggio sotterraneo, le morti eroiche dei sergenti Sguario e Bon, la natura inclemente: prima l’arsura delle steppe ucraine, poi le flagellanti piogge autunnali, e infine il giorno in cui gli alpini trovano nella gavetta un blocco di ghiaccio. Inizia l’inverno russo, il più implacabile dei nemici, quello che provocherà una delle più spaventose tragedie mai occorse all’Esercito italiano.
Infatti, il 16 gennaio, a seguito dell’accerchiamento dei russi, arriva l’ordine di ripiegamento, e con esso la marcia senza sosta verso una possibile salvezza. «All’una di notte la steppa era dominio della tormenta, il vento turbinava levando vortici di neve sulla colonna, i cappotti erano diventati rigidi scafandri opprimenti, le mani martirizzate cercavano invano un rifugio tiepido, il pulviscolo nevoso entrava negli occhi, nelle orecchie, s’insinuava incomprensibilmente sotto le giubbe e le maglie, giungeva alla pelle della schiena risvegliando brividi profondi».
Il coraggio, l’istinto di sopravvivenza, il senso del dovere, e, di contro, l’orribile vuoto fisico e spirituale di un deserto ghiacciato che sembra fatto apposta per inghiottire tutto e tutti in una morte silenziosa e anonima, e che abbrutisce l’umana solidarietà. Ma quando il paesaggio naturale diventa un nemico, e si è fuori anche di quello umano, rimane solo la necessità; così, non vedo né retorica né deformazione militarista in uno dei brani più allucinanti dell’opera: «Sulla colonna, assieme al vento, alitavano fermenti di follia, che nuovi lugubri episodi attizzavano e gonfiavano a dismisura. In breve il contagio di incontenibili frenesie dilagò fra le schiere, trasmettendo suggestioni e avvampanti richiami da uomo a uomo, man mano che lo smisurato freddo prendeva dominio nella carne e nella coscienza di quelle infelici creature. (…) “Oh Dio, signor tenente”, disse l’infermiere Zoffoli con occhi stravolti, aggrappandosi a una manica del cappotto di Serri: un canto sguaiato e senza senso usciva dalla bocca di un alpino che fuori dalle file saltava a grandi balzi sulla neve, minacciando con un fucile spianato i compagni in marcia. Uno ne uscì affrontandolo, l’alpino folle fece fuoco con grande allegrezza e l’altro cadde riverso sulla neve. Un secondo, nel frattempo, era uscito dalla corrente, riuscì ad avvicinarsi alle spalle del pazzo e da retro gli sparò una revolverata nella testa, correndo poi faticosamente a raggiungere i compagni che avevano proceduto di molti metri».
Ovunque, in Centomila gavette di ghiaccio, il desiderio di verità e il ritmo incalzante creano rappresentazioni che a volte assumono la scenicità del cinema neorealista. Ma l’arte di scrivere, in Bedeschi, non è mai fine a se stessa, perché rimane costantemente al servizio di quell’arte di vivere che si espresse, nel gelo della Russia, al massimo grado.
Il tenente medico parla con stima e rispetto dei suoi commilitoni, e si comporta con loro come un fratello maggiore. Pur consapevole del grado che riveste e dell’importanza del proprio compito, spesso si fonde con i soldati, entra nel loro spirito, come lo vediamo fare, ad esempio, con il conducente di muli Scudrera, che tratta i suoi animali come esseri umani e rischia più volte il congelamento e la morte per accudirli. Bedeschi è invece spietato, cupamente lirico con gli elementi naturali, e razionalmente critico quando espone le lacune e gli errori commessi dai vertici delle Istituzioni e dell’Esercito. Tuttavia, tornato in Italia, aderirà al Partito Fascista Repubblicano e comanderà la Brigata Nera forlivese «Arturo Capanni»; ma questo non ha niente a che vedere con il suo libro.
Bedeschi rimane il miglior testimone del valore degli uomini che hanno condiviso con lui i terribili giorni del ripiegamento; è rimasta celebre la descrizione del gesto eroico del generale Reverberi, comandante della Divisione Tridentina. L’autore parla di «una cosa semplice, ma condotta a cavalcioni della morte»: nel famoso snodo di Nikolaevka, il generale Reverberi, in piedi sul tetto di un carro tedesco, avanzò verso le postazioni nemiche al grido di «Tridentina, avanti!», seguito dai suoi soldati e da altri reparti, che a prezzo di enormi perdite riuscirono a superare lo sbarramento russo.
Quando si tratta di storia patria si rischia sempre di esagerare, di abbandonarsi a una certa enfasi; ma che la ritirata degli alpini e le battaglie in condizioni di inferiorità avessero rappresentato un’impresa eccezionale, venne confermato da chi era in grado di giudicare meglio di ogni altro: «“Venite dal Don?” Questo chiedevano i vecchi contadini russi ai sopravvissuti all’inferno bianco della steppa gelata. “A piedi nella neve? Senza viveri? Nessuno ha mai fatto questo in Ucraina, è una cosa incredibile!”»
Concludo con un ricordo, la terribile immagine che mi sovveniva di continuo dopo la prima lettura di Centomila gavette di ghiaccio, e che sentii il bisogno di riferire al professor Mario. È la scena che avrei trovato in altre testimonianze della tragedia degli alpini: dopo alcuni giorni di marcia, il mulo che traina la slitta sulla quale sono adagiati i feriti inizia a rallentare, poi a barcollare, e infine crolla a terra. Il conducente si china sull’animale e si assicura che sia morto. Solo allora rivolge lo sguardo agli uomini sulla slitta e mormora: «Mi dispiace, devo lasciarvi qui. Non posso fare altro. Mi dispiace». Ecco, io vedevo quei soldati: hanno ancora un po’ di tempo per una lacrima, per sognare un’ultima volta il sole d’Italia, per pronunciare un addio ai propri cari che nessuno ascolterà, perché sanno che niente e nessuno, ormai, potrà salvarli dalla morte…

Mario Rigoni Stern aveva tutto dell’alpino: la faccia, i modi, l’amore profondo per i suoi monti. L’ho sentito parlare diverse volte: loquace nelle prime uscite dopo il ritorno, si era trasformato, con gli anni, in un saggio, pacato difensore della vita e della cultura della montagna. Era un cacciatore, e io non ho mai amato questa categoria; ma con lui non mi succedeva, ho sempre sentito di volergli bene.
Ho letto Il sergente nella neve con meno angoscia di altri libri di guerra. Siamo dinanzi a una prosa sobria, distante dal linguaggio forbito di Bedeschi e dal furore di Revelli. Rigoni Stern utilizza la più semplice delle tecniche narrative: la pura testimonianza della realtà; non c’è struttura nel suo libro, ma i fatti raccontati rivelano molto più di quanto mostrino.
Rigoni non ha remore nel riportare che per sfamare se stesso e i compagni ha sgozzato pecore e maiali, tirato il collo a oche e galline, e che ha dovuto abbandonare chi non riusciva più a proseguire ed era perciò condannato a morte certa. È ciò che leggiamo in una delle pagine più dure e commoventi del libro, quando un portaordini del comando di compagnia si lascia andare sulla neve, e nonostante la muta implorazione degli occhi nessuno si ferma per aiutarlo. Alcuni anni dopo, il padre del ragazzo andrà a chiedere notizie del figlio ai soldati che avevano fatto ritorno; dinanzi alle sue insistenze, Rigoni troverà la forza di raccontargli la terribile verità.
A fronte delle amare decisioni dettate dalla necessità, troviamo nel libro, come in quelli di Bedeschi e Revelli, l’obbedienza a un senso morale che non viene tradito neppure quando le avversità ottundono il cervello e il cuore: «Io mi precipitai verso un’isba. Dentro c’erano tre ragazze. Erano giovani e mi sorridevano tentando così di indurmi a non cercare quello per cui ero entrato. Trovai del latte e ne bevvi un poco; e, in un cassetto, tre scatole di marmellata, alcune gallette, del burro. Tutta roba italiana presa forse in qualche magazzino militare abbandonato. Le tre ragazze, ora, quasi piangevano e mi si facevano attorno con preghiere. Mi sforzai di spiegar loro che quella era roba italiana e non russa, e che quindi potevo prendermela, e che avevo fame, e che i miei compagni avevano fame. Ma le ragazze quasi piangevano, mi guardavano supplichevoli, e così lasciai loro una scatola di marmellata e un pacco di burro. Uscii con il resto della roba rosicchiando una galletta. Le tre ragazze guardavano per terra e dicevano: - Spaziba».
Bellissimo è l’episodio di un altro incontro, questa volta con i nemici di guerra. Arrivato in un villaggio, e assalito dalla fame, Rigoni bussa ed entra in un’isba, dove trova dei soldati russi che mangiano da una zuppiera comune; lui ha il fucile, potrebbe sparare, ma non lo fa, e non si muovono neanche i russi. L’alpino chiede alle donne di casa qualcosa da mangiare, e una di esse gli porge un recipiente pieno di latte e miglio; un attimo dopo, il silenzio è rotto soltanto dal rumore dei cucchiai. Terminato il pasto, Rigoni ringrazia, volta le spalle ai presenti ed esce tranquillamente dall’isba.
Il commento che segue è meraviglioso: «Così è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev’esserci stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. (…) Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere.»
Ovviamente, anche nel libro di Rigoni aleggia un destino spesso ineluttabile, come nel caso di Giuanin, il soldato semplice che ogni tanto lo chiamava in disparte per porgli quella domanda ingenua e struggente: «Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?» La risposta di Rigoni era invariabilmente positiva; ma per Giuanin il ritorno a casa non ci sarà, come leggiamo in una delle ultime pagine del libro: «Questo è stato il 26 gennaio 1943. I miei più cari amici mi hanno lasciato quel giorno. Di Rino, rimasto ferito durante il primo attacco, non sono riuscito a sapere nulla di preciso. Sua madre è viva solo per aspettarlo. La vedo tutti i giorni quando passo davanti alla sua porta. I suoi occhi si sono consumati. Ogni volta che mi vede, quasi piange per salutarmi e io non ho il coraggio di parlarle. Anche Raul mi ha lasciato quel giorno. Raul, il primo amico della vita militare. (…) Raul, che alla sera prima di dormire cantava sempre: “Buona notte mio amore”. E che una volta, al corso sciatori, mi fece quasi piangere leggendomi Il lamento della Madonna di Jacopone da Todi. E anche Giuanin è morto. Ecco Giuanin, ci sei arrivato a baita. Ci arriveremo tutti. Giuanin è morto portandomi le munizioni per la pesante quando ero giù al paese e sparavo. È morto sulla neve anche lui che nel ricovero stava sempre nella nicchia vicino alla stufa e aveva sempre freddo. Anche il cappellano del battaglione è morto: “Buon Natale ragazzi, e pace”. È morto per andare a prendere un ferito mentre sparavano. E tanti e tanti altri dormono nei campi di grano e di papaveri e tra le erbe fiorite della steppa assieme ai vecchi delle leggende di Gogol e di Gorky».
Rigoni Stern non volle mai abbandonare le amate montagne dell’Altopiano di Asiago; è stato definito «un uomo solido in un mondo liquido», e la definizione gli calzava a pennello. Dopo la pubblicazione del Sergente nella neve iniziò una carriera letteraria onorata dalla stima di tanti scrittori e di innumerevoli, affezionati lettori. Sì, non solo io: è bello sapere che tutti hanno amato Mario Rigoni Stern.

Il libro di Nuto Revelli, Mai tardi – Diario di un alpino in Russia, è un pugno nello stomaco, un memoriale sincero e irriverente che rispecchia perfettamente la personalità del suo autore. Le acute doti di osservazione, la sincerità intesa come caparbia fedeltà al vero, la carica linguistica che connota l’opera, consegnano al lettore un materiale che diventa di per sé produttore di senso.
Sarà per la mia naturale diffidenza verso il potere, ma quello di Revelli è per certi versi il libro sulla tragedia degli Alpini che più ho apprezzato. Infatti, sin dalle prime pagine l’autore ci conferma in un terribile pensiero: un solo uomo, per il «bene» di tutti – un bene da promuovere ad ogni costo, anche a bastonate – può decidere della vita e della morte di milioni di persone. Come non pensare al celeberrimo Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie, l’amico prediletto di Montaigne: «Tremendo a vedersi, e più triste che sorprendente, come un milione di uomini si pieghino al giogo non perché costretti da una forza superiore, bensì per la sola seduzione del nome di uno».
Certo, Revelli è un soldato, deve sottostare ai comandi dei superiori: e lo fa, non tradisce il suo giuramento; ma una volta svelatasi la verità, degli ideali e dei sentimenti che lo avevano mosso non rimane nulla, se non la pietà e l’indignazione.
La pietà di Revelli è quella connaturata agli individualisti che, pur sapendo obbedire, hanno come primo referente l’universalità umana, un sentimento che Revelli vede affiorare quando è ancora sulla tradotta che conduce gli alpini al fronte: «Alle 11,10 siamo a Stolbtzy. Molti ebrei, uomini e donne, tutti con la stella gialla sul petto e sulla schiena, vagano lungo i binari: scalzi e cenciosi, passando da una tradotta all’altra, trascinano un secchio e una scopa. Devono raccogliere le immondizie che le tradotte seminano nelle stazioni. Fingono di lavorare, come cani affamati chiedono pane e minestra. La fame e gli stenti li hanno inebetiti, Visi malati, stanchi, rassegnati: occhi pieni fame. Alcuni bambini hanno forse sei anni. Alcune ragazze, forse appena rastrellate, sono ancora belle, in carne: con pudore si aggiustano gli stracci che le coprono. Provo pena e nausea. Quasi tutti gli alpini guardano perplessi: guardano, non capiscono…».
È la pietà che Revelli esprime per i giovanissimi volontari appena sfornati dall’Accademia, per i fanti che si rannicchiano nelle buche per timore dei mortai russi, per i feriti che gemono tutte le notti, ma anche per un bue che viene ucciso e macellato a colpi di baionetta.
E poi c’è lo sdegno, lo sdegno che divampa in molte pagine dell’opera, e la cui origine è da rintracciare nella crescente consapevolezza di Revelli dell’impreparazione, della cialtroneria, delle deficienze di interi reparti dell’Esercito, e nell’astio per i raccomandati e i «figli di papà» che occupano ruoli di tutta comodità nelle retrovie: «Voroscilovgrad infatti non è soltanto la sede del centro ospedalieri dell’ARMIR tanto strombazzato dai nostri giornali. È soprattutto il luna-park delle retrovie italiane e tedesche. A Voroscilovgrad non mancano gli spettacoli di varietà, i concerti, le case di tolleranza organizzate e controllate dai militari».
Disgustato da queste scioccanti scoperte e dalla tetra e monotona vita nell’ospedale dove è stato ricoverato dopo una grave ferita ad un braccio, Revelli, pur non essendo ancora completamente guarito, chiede al colonnello medico di poter tornare in prima linea, a ridosso della grande ansa del fiume Don. Lì, le operazioni militari si sono indirizzate verso una sfibrante guerra di posizioni, complicata dalla stretta micidiale dell’inverno russo. Ma in Italia, annota l’autore il 9 gennaio 1943, le cose vengono riportate diversamente: «Ho visto qualche nostro giornale: tutte balle. Anche le fotografie sono false, giuro che le avranno prese ad almeno duecento chilometri dal fronte: inquadrano trincee e pattuglie in camice bianco su terreno senza neve. Come al solito, poca serietà, cose da far ridere i polli».
Il 18 gennaio 1943, quattro mesi dopo l’arrivo sul Don, due staffette portano alla squadra di Revelli l’ordine di ripiegamento. Inizia così il macabro esodo verso la salvezza; camminare senza sosta verso ovest diventa l’unica cosa che conti, perché «camminare vuol dire essere ancora vivi, fermarsi vuol dire morire. A migliaia sono stesi lungo la pista, gli sfiniti, i dissanguati: non li degniamo di uno sguardo, sono cose morte; passiamo correndo».
Il racconto di Revelli si fa, se possibile, ancora più crudo; l’orrore quotidiano è di tale entità da trasfigurare la realtà in visioni apocalittiche, scene dove l’umana comprensione appare impossibile. Ecco lo spaccato di una tragedia che è insieme fisica e morale: «Un centinaio di metri, poi la pista cammina in trincea. Dio che orrore! È il macello del 16 gennaio. Noi eravamo ancora in linea; qui, i carri armati russi schiacciavano una colonna in marcia. Ungheresi, tedeschi, italiani, una poltiglia di carne, ossa, vestiti. Non basta farsi forza; gli occhi restano larghi, sbarrati, raccolgono, si riempiono. I più impressionanti sono i senza busto. Il solo tronco è orribile. Chi manca della testa, chi delle gambe, chi ha mezza faccia, chi ha il busto spezzato. (…) Nel buio, nel freddo, la confusione aumenta. Urlano i feriti, non vogliono che li abbandoniamo; i più gravi, strisciando sulla neve, arrivano fino alle slitte, e si aggrappano, implorano. È una legge bestiale: i feriti all’addome, al torace devono essere abbandonati».
Dinanzi a simili testimonianze ogni lettore si pone l’interrogativo che compare nella Prefazione di Paolo Di Paolo all’Edizione Einaudi 2021 di Mai tardi: «Come avete fatto? Come ci siete riusciti?»
La risposta di Revelli, che immagino coincidere con quella di tutti i sopravvissuti alla campagna di Russia, è racchiusa in due brevi proposizioni: «Sono i morti che mi fanno marciare, queste statue posate lungo la pista, i morti di stanchezza (…) Qui, dove tutto è morte, dove basta un niente, una distorsione a un piede, una diarrea, e ci si ferma per sempre, il desiderio di vivere è immenso».
La conclusione del Diario può stupire per la sua ferocia, ma è in armonia con ciò che Revelli aveva visto e sofferto in quelle terribili condizioni: «Manaresi ha portato il saluto personale del Duce e, quello che più conta, le mele del Duce. Cialtroni! Più nessuno crede alle vostre falsità, ci fate schifo: così la pensano i superstiti dell’immensa tragedia che avete voluto. Le vostre tronfie parole vuote non sono che l’ultimo insulto ai nostri morti. Raccontatela a chi la pensa come voi. Chi ha fatto la ritirata non crede più ai gradi e vi dice: “Mai tardi… a farvi fuori!”»
Sono parole impietose, colleriche, ma comprensibili a caldo, nelle pagine di un diario. In Mai tardi non mancano azioni e gesti disinteressati ed eroici, e uomini pieni di coraggio, dignità e umanità; ma le cicatrici di una guerra iniziata male e finita peggio, e la rabbiosa voglia di mostrarle, prevalgono su ogni altro sentimento, perché non c’è delusione più grande che aderire a un’azione in nome di un ideale e constatarne giorno dopo giorno l’inconsistenza e la fallacia.



Armando Santarelli
(n. 2, febbraio 2024, anno XIV)