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Antonio Di Grado: L’eredità di Leonardo Sciascia
È con vero piacere che saluto gli amici di «Orizzonti culturali italo-romeni» e i loro lettori a nome della Fondazione Leonardo Sciascia, che ha sede nel borgo siciliano, Racalmuto, che diede i natali allo scrittore, e di cui – per volontà dello stesso Sciascia – ho il privilegio di dirigere l’attività culturale.
La Fondazione ospita da trent’anni convegni, mostre, rassegne, eventi dedicati allo scrittore e alla sua opera. Nei suoi locali, oltre a una ricca biblioteca, sono conservati i carteggi sciasciani (le lettere a lui inviate da scrittori, artisti, studiosi, politici, uomini comuni), i registri scolastici di Sciascia maestro, le prime edizioni e le traduzioni dei suoi libri e infine una vasta pinacoteca, che raccoglie i duecento ritratti di scrittori da lui acquisiti e collezionati.
Si è appena concluso l’anno della ricorrenza centenaria della nascita dell’autore del Giorno della civetta, del Contesto e di Todo modo, della Scomparsa di Majorana e dell’Affaire Moro, e di tanti altri romanzi e racconti, saggi e articoli: un’occasione che avrebbe dovuto costringere il Paese, i suoi intellettuali, il suo ceto politico a fare finalmente i conti con il suo scomodo magistero, con le sue congetture e le sue provocazioni, con la sua lezione di moralità e di stile. Con la scomparsa di figure come Leonardo Sciascia abbiamo forse visto scomparire in Italia la figura stessa dell’intellettuale, di chi interviene coraggiosamente, liberamente, anche a costo di sbagliare, comunque osando, per proporre verità occultate, per svelare scenari nascosti della realtà o della coscienza, per smascherare le imposture del Potere e dei suoi docili valletti.
Nello spazio d’un breve intervento non è certo possibile render conto dei percorsi e dei nodi dell’elaborazione teorica ed espressiva d’una figura talmente complessa, problematica e impegnativa; e allora mi ingegnerò di ridurre, qui e ora, quel bilancio – culturale, letterario, civile ma per me che lo conobbi anche umano – in una formula riassuntiva, e magari potrei ricorrere a un titolo, perentorio come uno slogan, che definisca il «mio» Sciascia; e allora mi viene in mente questo: «L’uomo in rivolta». Lo rubo ad Albert Camus, al suo Homme revolté, stupendo breviario di dissenso, di indipendenza e disobbedienza intellettuale: dove la rivolta, che al fervore del pensiero critico unisce un appassionato impulso esistenziale, è ben altro dalle rivoluzioni, che a un potere dispotico e iniquo ne sostituiscono un altro: è elementare sete di giustizia, è vitale esplosione libertaria, è sdegno e ribellione della Ragione.
L’intellettuale, dal suo atto di nascita che risale al J’accuse di Zola, è l’uomo-contro, è l’apostolo e il martire del dubbio e del dissenso, della conoscenza come ricerca infinita e della comunicazione come spiazzante alterazione della prospettiva, come revoca in dubbio di certezze consolidate e verità di Palazzo.
La sua dimora non va cercata, perciò, in una chiesa, in un partito, in un giornale o nell’accademia, ma sempre in partibus infidelium, in prossimità del rogo o dello scandalo, nel teatro d’una coscienza tormentata dal rovello dell’autocritica, costretta a mettersi costantemente in discussione, a «contraddirsi» per «contraddire» (come non ricordare queste parole-chiave di Sciascia? e come non affiancarvi «lo scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro te» esibito da Pasolini al cospetto delle ceneri di Gramsci?); e a fuoruscire dalle proprie certezze (fossero pure le più laiche, le più liberali) per confrontarsi con l’altro da sé, come faceva Sciascia facendo dialogare, in ogni sua pagina, Montaigne con Pascal, o Voltaire con Manzoni, o Gide con Bernanos.
Sciascia, Pasolini. E i loro scritti «corsari», che ogni giorno c’imponevano di fare i conti con altre ragioni, di guardare da altre prospettive; di dilatare e talvolta stravolgere la nostra percezione, di smascherare alibi e slogan diffusi dal Potere. Certo, quell’intellettuale è finito. L’hanno avuta vinta il tecnico e l’intrattenitore: uno addetto alla servile messa a punto dell’Ingranaggio, a inchinarsi al Libero Mercato delle «competenze», a inoculare l’opprimente incultura del management, l’altro a dissimulare coi lazzi triviali e le smorfie ottuse dell’antica e italianissima commedia dell’arte l’insostenibile pesantezza dell’esserci.
Certo la Fondazione Sciascia non ha la funzione, né le qualità, per colmare quel vuoto, per surrogare quell’assenza, per intervenire come avrebbe fatto il Nostro sui grandi temi o sulla cronaca. Può proporsi, più umilmente – e sciascianamente – come «teatro della memoria», come luogo di studio e di confronto, di dibattiti e pubblicazioni che in trent’anni di attività hanno tentato di percorrere le numerose piste aperte dall’opera del narratore e del saggista.
Con questo spirito abbiamo celebrato con numerose iniziative, nell’anno appena trascorso, il centenario sciasciano. A proposito del quale, concludendo, aggiungo un’ultima notazione: delle tante commemorazioni svoltesi o redatte in Italia mi hanno sorpreso ma anche turbato, così come finora mi turbavano persistenti scie di vecchie e ottuse polemiche, l’improvviso unanimismo, le lodi espresse anche da parte di figure o di testate giornalistiche che a lungo avevano avversato lo scrittore. Sciascia amava ripetere, con Georges Bernanos, che preferiva perdere lettori piuttosto che assecondarli: perciò questo coro di consensi risulta altrettanto e anzi più inquietante di quelle polverose polemiche.
Sciascia invece divideva, Sciascia ci costringeva a metterci in questione, ci suggeriva interpretazioni fino a quel momento impreviste sia della cronaca del giorno sia dei grandi temi su cui si arrovellò: la verità e la giustizia, la pietà e la memoria, le inquisizioni e le mafie, le menzogne del Potere e la Ragione impegnata a sconfessarle. Sciascia ci educava al dubbio e al dissenso, al rigore di scelte ostili all’acquiescenza, alla sudditanza al «contesto» politico-affaristico-mediatico, dispotico e criminogeno.
Ma Sciascia non fu solo un intellettuale e un uomo-contro, Sciascia fu soprattutto un grande scrittore, capace di ricomporre in una prosa di elaborata chiarezza, di denso spessore problematico ma filtrato da una mirabile limpidezza espressiva, i traumi e le contraddizioni d’una realtà «irredimibile». Una realtà che non può che ispirare un dolente pessimismo, e una prosa capace di cavarne frammenti di bellezza e perciò motivi di speranza: quella speranza pudica ma tenace che anima la scrittura di Leonardo Sciascia e ne sgorga, per noi oggi, in forma di testimonianza e d’impegno, di caparbio esercizio dell’intelligenza critica, di ostinata volontà di cambiamento, di evangelica «sete di giustizia».
Antonio Di Grado
(n. 2, febbraio 2022, anno XII)
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