Dora d’Istria fra Oriente europeo e Belpaese Ha scritto la geografa italiana Luisa Rossi che per ripercorrere la biografia di Dora d’Istria bisogna avere una cartina d’Europa alla mano. In effetti, Elena Ghica, questo il suo vero nome, era nata a Bucarest nel 1828, da una delle più importanti famiglie aristocratiche del tempo. Suo padre era Mihail Ghica, uomo politico di primo piano e fratello del principe di Valacchia (dal 1834 al 1842), Alexandru Dimitrie. Dora d’Istria è uno pseudonimo letterario che, probabilmente, trae origine dall’antico nome del Danubio, Ister, oppure Istros in greco, dunque «Dora Danubiana», figlia delle terre solcate dalle acque di questo grande fiume. Romena di nascita e, allo stesso tempo, albanese di origine, poiché, secondo alcuni studiosi (e secondo Dora d’Istria stessa), la sua famiglia proveniva dalle regioni corrispondenti al nord dell’attuale Albania, dove peraltro è ancora oggi nota con la variante Gjika del cognome. Ma fu anche greca per la religione e, più in generale, per la civilizzazione del mondo ellenico, sia antico sia moderno, da lei assimilata. Poi fu russa per matrimonio (sposò nel 1849 il principe Alessandro Koltzoff-Massalsky) e, infine, italiana di adozione, avendo scelto di vivere nel nostro Paese più della metà della sua vita. Subito dopo l’Unità, infatti, abitò in diverse città italiane (Livorno, Venezia, Torino, senza dimenticare i lunghi soggiorni estivi sulla riviera ligure). Dal 1870 si stabilì a Firenze dove acquistò, da Angelo De Gubernatis, un elegante villino che ribattezzò «Villa d’Istria». Fu questa la sua dimora fino alla morte, avvenuta nel novembre del 1888. Le sue ceneri sono ancora oggi custodite nel cimitero fiorentino di Trespiano. Il pensiero di Dora d’Istria si andò articolando, in oltre un trentennio di attività, intorno a tre questioni maggiori. Innanzitutto la studiosa, con spirito laico, svolse un’ampia riflessione sulla dialettica fra religione e politica in rapporto ai mutamenti che, dalla Rivoluzione francese in poi, stavano investendo radicalmente la società europea. In secondo luogo, Dora d’Istria si concentrò sulle questioni nazionali delle popolazioni del Sud-est europeo (in particolare romena, greca, albanese). È il caso, ad esempio, del ciclo di studi dedicato alla poesia popolare di quelle nazionalità, apparso tra il 1858 e il 1868 sulla «Revue des deux mondes», e delle Excursions en Roumélie et en Morée. Si tratta di un tema centrale nella sua produzione e costantemente presente in quasi tutte le opere. Infine, notevole importanza occupano, all’interno della sua produzione, gli studi sulla condizione femminile in Europa orientale e occidentale (Les femmes en Orient e Des femmes par une femme), opere che hanno l’indiscutibile pregio di configurarsi come una vera e propria storia delle donne ante litteram, nelle quali sono contenute un gran numero di informazioni sulle condizioni civili e sulle occupazioni delle donne del tempo. Negli ultimi quindici anni della sua vita, invece, la scrittrice spostò i propri interessi soprattutto verso gli studi letterari, in particolare quelli sulle letterature orientali (ad esempio occupandosi delle epopee indiane e persiane). Alla radice di questo parziale cambiamento, ci fu l’intenso rapporto intellettuale con l’orientalista Angelo De Gubernatis che senza dubbio stimolò nella studiosa l’interesse nei confronti di tali argomenti. Sono noti i legami storici e culturali che hanno caratterizzato i rapporti fra romeni e italiani nel Risorgimento. In tale contesto, va ricordato che Dora d’Istria ebbe significative relazioni con l’Italia e soprattutto, all’inizio della sua carriera di studiosa, con il Piemonte sabaudo. Non fu infatti casuale che dopo la fine della guerra di Crimea nel 1856, nelle settimane successive all’apertura del Congresso di Parigi a cui prese parte, com’è noto, anche la delegazione del Regno di Sardegna guidata da Cavour, Dora d’Istria iniziò la sua importante collaborazione con il quotidiano torinese «Il Diritto», su invito di uno dei suoi direttori, Lorenzo Valerio. Egli le aprì le colonne del giornale permettendole di pubblicare un nutrito gruppo di articoli riguardanti la situazione politica dei Principati danubiani che si stavano incamminando sul percorso che avrebbe portato, nel 1859, a una loro prima unificazione. L’apostolato civile in favore della libertà dei romeni traspare bene dalle seguenti parole di Dora d’Istria del marzo 1856, contenute nella dedica, indirizzata ai suoi connazionali, di La Suisse allemande: «La liberté, le bonheur de mon pays: voilà les preoccupations qui rempliront désormais toute ma vie». «O Italia, sorella nostra devota al martirio, a quanti amari pensieri non va congiunta la nostra gioia nel vedere uscire dalle rovine la nostra cara Rumenia! Come i figli di Traiano seduti sulle rive del Danubio non volgerebbero gli sguardi verso la terra dei loro magnanimi padri? Come nell’entusiasmo della sperata libertà, quando veggono l’aquila romana ripigliare il volo sulle fiorenti sponde della Dimbowitza e della Moldova, non penserebbero con orrore che il vessillo giallo e nero sventola sulle mura di Milano e della città dei dogi, e che Roma stessa, la madre dei Gracchi, vede regnare tra le sue mura antiche dei preti odiosi protetti dalle baionette straniere? La nostra gioia come quella dell’Andromaca di Omero è piena di lagrime. I nostri occhi e le nostre mani si levano ogni giorno verso il cielo perché la nostra illustre schiatta spezzi alfine le catene che l’opprimono da tanti secoli sulle rive del Tevere, come su quelle del Danubio. Ma se ella vuole essere veramente libera, respinga sempre risolutamente le perfide carezze del liberalismo sacerdotale, perciocché il sacerdozio romano non vedrà mai nella libertà – ed è la conseguenza necessaria de’ suoi principi – che un mortale nemico contro il quale tutti i mezzi sono buoni». Il brano è tratto dalla serie di articoli intitolata I rumeni e il papato. Le rovine (a cui fa riferimento Dora d’Istria) dalle quali era da poco uscita la Romania, ma con gioia «piena di lagrime» per l’Italia che ancora non ne era venuta fuori, sono una metafora per indicare l’occupazione austriaca dei Principati danubiani che si stava avviando a conclusione dopo la firma del trattato di Parigi del marzo 1856. Nel brano citato si ritrovano pressoché tutti i temi principali del movimento politico e ideale che mise in relazione negli anni del Risorgimento i democratici italiani e i patrioti romeni. Innanzitutto il mito della comune discendenza latina, ben rappresentata in questo passo dai riferimenti ad alcuni personaggi e simboli della Roma antica (Traiano, i Gracchi, il Tevere). Poi c’è il doppio nemico comune: il potere del papa e quello dell’imperatore d’Austria. Dora d’Istria, come romena, esortava gli italiani a porre fine al governo temporale del pontefice e all’influenza del clero romano sugli affari politici. Antonio D’Alessandri
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