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Introduzione al «Quaderno» 6 di Antonio Gramsci
Il Quaderno 6 di Antonio Gramsci, recentemente pubblicato nella traduzione di Sabin Drăgulin dalla Meridiane Publishing di Iaşi, nella collana «Biblioteca Gramsciana»,è un quaderno miscellaneo, vale a dire che contiene note riguardanti argomenti disparati, la cui redazione può essere collocata tra gli ultimi mesi del 1930 e l’inizio del 1932.
È composto da 211 paragrafi di cui 25 sono testi di tipo A [1], ovvero note di prima stesura successivamente ricopiate integralmente o parzialmente rielaborate nei quaderni speciali (questi ultimi si differenziano dai quaderni miscellanei poiché sono dedicati, per intero, a un argomento specifico); 186 sono testi di tipo B, ovvero a stesura unica, note che non verranno più riutilizzati o rielaborate; sono invece del tutto assenti, come di solito accade in quasi tutti i quaderni miscellanei, testi di tipo C, testi cioè frutto di una seconda stesura di quelli tipo A.
Come tutti i Quaderni miscellanei, anche il Quaderno 6 presenta una notevole vastità di temi. Molti di essi sono stati già affrontati nei quaderni precedenti e lo saranno anche nei successivi. Ma vi sono alcuni argomenti che trovano proprio nel Quaderno 6 un primo svolgimento. Se volessimo individuare un fil rouge che lega questi temi, suggerirei di partire dal rapporto tra guerra e politica, intrecciando attorno a questo primo asse il tema dell’economico-corporativo, poi quello dell’egemonia e, infine, quello degli intellettuali (giornalismo, letteratura popolare).
Centrale è in Gramsci il rapporto tra guerra e politica. La partecipazione italiana al primo conflitto mondiale appare al dirigente comunista come la risposta, puramente conservativa, delle classi dirigenti liberali all’entrata di vaste masse popolari, fino ad allora passive, nella lotta politica. A tal fine la guerra rappresentò il laboratorio attraverso il quale procedere a una ristrutturazione autoritaria del rapporto tra governanti e governati divenuti, questi ultimi, attraverso le organizzazioni politiche e sindacali, portatori di un modello antagonista di regolazione dei rapporti sociali e produttivi. L’esercito, con la sua struttura gerarchica, la sua rigida disciplina, la mobilitazione dall’alto, il suo ricorso alla pressione psico-fisica, costituì il modello in base al quale ricomporre la società italiana in crisi in seguito alla presenza del partito di ispirazione socialista.
La battaglia di Caporetto [2], che ebbe luogo tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre del 1917, si risolse con una disfatta dell’esercito italiano – ad opera delle truppe austro-ungariche e tedesche – che fu costretto a una precipitosa ritirata di oltre 150 chilometri dalla originaria linea del fronte.
Gramsci fornisce una lettura di quella sconfitta che non tiene conto degli errori tattici e strategici degli alti comandi italiani, o, perlomeno, non attribuisce a essi una importanza rilevante. Egli ritiene – ed è questo uno degli aspetti più rilevanti della riflessione gramsciana: saper ricondurre a un quadro politico e sociale complessivo aspetti e avvenimenti che solo a una lettura superficiale e ideologica appaiono confinati su di un piano puramente tecnico e particolaristico, e nella fattispecie militare – «che ogni fatto militare è anche un fatto politico e sociale» [3]. Relegare la sconfitta solo sul terreno militare significa voler sottacere le reali cause che l’hanno generata. Luigi Cadorna [4], il capo di Stato maggiore dell’esercito, ha avuto, certamente, gravi responsabilità tecniche e politiche ma queste non sono state, per Gramsci, determinanti. La responsabilità storica, cioè politica, dev’essere ricercata all’interno dei rapporti di classe che coinvolgono soldati, ufficiali, stato maggiore ma, questi rapporti di classe sono imputabili alle classi dirigenti unici veri colpevoli del disastro di Caporetto. La conduzione della guerra, sotto il profilo militare e politico, evidenzia in modo lampante, nel caso ve ne fosse ancora bisogno, «la debolezza e la disomogeneità della classe dirigente italiana, incapace di articolare il nuovo, novecentesco, rapporto tra lo Stato e le masse se non nei termini dello scontro aperto e del controllo autoritario, che svelano la sostanziale incomprensione dei nuovi fenomeni prodottisi a ridosso del conflitto mondiale» [5]. In definitiva la sconfitta di Caporetto segnala l’incapacità dei gruppi dirigenti di dar vita alla «grande politica». La contrapposizione in Gramsci tra «piccola politica» e «grande politica» è delineata da Gramsci nel Quaderno 13. La «piccola politica» è la «politica del giorno per giorno, politica parlamentare, di corridoio, d’intrigo» che si occupa di «quistioni parziali e quotidiane che si pongono all’interno di una struttura già stabilita per le lotte di preminenza tra le diverse fazioni di una stessa classe politica» [6]. Al contrario la «grande politica» «comprende le quistioni connesse con la fondazione di nuovi Stati, con la lotta per la distruzione, la difesa, la conservazione di determinate strutture organiche economico-sociali» [7]. In definitiva la «grande politica» è il segnale che un partito, una organizzazione o un gruppo dirigente hanno superato la fase economico-corporativa.
Nel Quaderno 6 l’economico-corporativo è connesso con il tema della nascita e sviluppo dei Comuni, tanto da originare una apposita rubrica intitolata I comuni medioevali come fase economico-corporativa dello sviluppo moderno. I riferimenti di Gramsci all’età comunale in Italia sono molteplici nei Quaderni. Per «età comunale» si intende il periodo che intercorre tra la fine dell’XI secolo e i primi decenni del XIV [8]. L’Italia centro-settentrionale conobbe, in quella fase, la formazione di una nuova realtà politica. Questa nasceva dalla spinta di due fattori concomitanti: la rinascita delle città e l’affievolirsi, in alcune aree, dei vincoli feudali. Sorgono così i Comuni i quali con l’aumento della propria potenza si sostituiscono alla autorità imperiali, rendendosi, di fatto, autonomi nei confronti di quest’ultima. I Comuni furono anche gli artefici di una profonda trasformazione economica, che favorì gli scambi commerciali, dette vita a una diffusa classe artigiana e all’emergere dei primi embrioni di ceti borghesi. La storiografia italiana risorgimentale ha creduto di intravvedere nei Comuni un primo risveglio di uno spirito nazionale in lotta contro l’Impero. Gramsci reagisce a questa impostazione e, nel paragrafo 13 del Quaderno 6, scrive che «la borghesia comunale non riuscì a superare la fase economico-corporativa, cioè a creare uno Stato “col consenso dei governati” […] Lo sviluppo statale poteva avvenire solo come principato, non come repubblica comunale» [9]. E a rinforzo, nel paragrafo 43 del medesimo Quaderno, ribadisce che «è nella struttura stessa dello Stato comunale che non può svilupparsi in grande Stato territoriale» [10]. In altre parole, il limite che Gramsci intravvede nell’esperienza dei comuni italiani è che le aristocrazie borghesi rimangono imprigionate nella difesa dei propri interessi egoistici. Badare solo al tornaconto immediato del proprio gruppo ristretto è una fase che tutte le forze storiche attraversano e corrisponde a un livello di coscienza elementare in cui si tenta solo di perpetuare le condizioni economiche e culturali necessarie alla riproduzione di un gruppo sociale determinato. Non riuscire a superare questa fase impedisce, alla nascente borghesia, di diventare classe egemone. Le ostacola, cioè, il passaggio dalla fase economico-corporativa a quella propriamente politica (egemonia), ovvero l’aver piena coscienza della necessità di doversi porre su un terreno universale, negando cosi i proprio particolarismo economico. Solo per mezzo di questa negazione è possibile il passaggio dal corporativo all’egemonia che corrisponde al passaggio dalla struttura alla superstruttura.
Ma come si supera la ristretta base economico-corporativa? Come si giunge all’egemonia? Per questo passaggio il ruolo degli intellettuali è determinante. Nel paragrafo 85, Gramsci confronta la figura e il ruolo politico di Dante e Machiavelli. In una pagina precedente (paragrafo 53) egli aveva definito il Machiavelli come la «figura di transizione tra lo Stato corporativo repubblicano e lo Stato monarchico assoluto» [11]. Il giudizio è rafforzato, paragonando il segretario fiorentino con Dante, nel paragrafo 85: «Così direi che Dante chiude il Medio Evo (una fase del Medio Evo), mentre Machiavelli indica che una fase del Mondo Moderno è già riuscita ad elaborare le sue quistioni e le soluzioni relative in modo già molto chiaro e approfondito» [12].
Quindi non solo è impossibile porre in una continuità genetica Dante e Machiavelli ma, inoltre, il pensiero politico del poeta ha una funzione solo relativa alla sua personalità poiché non ha avuto alcuna influenza sulla società a lui contemporanea. Dante, a differenza del Machiavelli, non oltrepassa la ristretta base economico-corporativa, non riesce a porsi sul terreno dell’egemonia ma semplicemente ripropone «un’utopia politica, che si colora di riflessi del passato» [13].
Sempre al medesimo piano dell’egemonia e della funzione degli intellettuali è legato l’interesse per Gramsci per il giornalismo (in questo Quaderno vi sono alcuni paragrafi rubricati, appunto sotto la voce Giornalismo, mentre alcuni altri paragrafi sono intitolati Riviste tipo).
L’attenzione di Gramsci per il giornalismo e, più in generale, per la letteratura popolare è dovuta alla definizione allargata, attribuita da Gramsci, all’intellettuale. Questi non è più solo il grande letterato comprensibile solo a una ristretta cerchia di individui colti appartenenti alle classi più agiate.
La società di massa ha travolto questo modello antiquato di intellettuale. Nella società degli anni Venti e Trenta del Novecento l’intellettuale è il giornalista, il funzionario di partito, il burocrate cioè figure in grado di rivolgersi, governandole e indirizzandole, alle grandi masse cittadine e rurali che i processi economici e politici stanno lentamente, ma inesorabilmente, integrando nello Stato. È questo il terreno proprio dell’egemonia su cui deve muoversi il partito rivoluzionario. Elevare culturalmente e politicamente i gruppi subalterni, elevarli a una concezione del mondo coerente e omogenea. A questo scopo i giornali, le riviste, la letteratura popolare (romanzi d’appendice, libri gialli, romanzi storici ecc.), svolgono una funzione insostituibile. Occorre però non commettere l’errore di scambiare questa attività intellettuale con un semplice indottrinamento. Quest’ultimo, infatti, relega le masse in un ruolo puramente passivo. Ed è proprio questo il rischio paventato da Gramsci nel paragrafo 65 in cui discute dell’iniziativa ipotizzata da Napoleone III di pubblicare un «giornale di Stato» con cui informare tutti i cittadini dell’attività dello Stato. Gramsci considera seriamente l’idea dell’imperatore francese. Infatti, si chiede, se esiste una scuola di Stato perché non può esservi un giornale di Stato? Il problema centrale per rispondere a questo interrogativo, Gramsci lo ritrova nel rapporto tra Stato e società civile [14]. Nei governi illiberali, in cui la società civile si confonde con lo Stato, il giornale di Stato, così come la scuola di Stato, assume i connotati di una direzione autoritaria dello Stato sulla società accentuando gli aspetti di passività di quest’ultima. Al contrario l’idea di Napoleone III ha una veste democratica dove l’unità tra Stato e società civile è intesa dialetticamente, vale a dire laddove la «società regolata» si pone come il superamento della contraddizione Stato-società civile.
Un’ultima notazione. Nel Quaderno 6 compare due volte l’espressione «società regolata». Oltre che nel paragrafo 65 essa compare nel paragrafo 12 intitolato Stato e società regolata. Per Gramsci la società regolata è la società comunista in cui lo Stato, inteso come apparato coercitivo, non esiste più in quanto esso diventa Stato integrale, ovvero società civile e società politica insieme.
Angelo Chielli
(n. 9, settembre 2022, anno XII)
NOTE
1. La classificazione tra testi di tipo A, B e C si deve al curatore della edizione critica dei Quaderni, Valentino Gerratana, pubblicata dall’editore Einaudi nel 1975.
2. Sterminati sono gli studi e la memorialistica sulla battaglia di Caporetto. Ci si limita a indicare solo alcuni testi classici: Giorgio Rochat e Giulio Massobrio, Breve storia dell'esercito italiano dal 1861 al 1943, Einaudi, Torino 1978; Mario Isnenghi, Giorgio Rochat, La grande guerra, Il Mulino, Bologna, 2014; Nicola Labanca, Caporetto: storia e memoria di una disfatta, Il Mulino, Bologna 2017; Pier Luigi Ballini e Sandro G. (a cura di), Nel primo centenario della battaglia di Caporetto, Istituto veneto di scienze, lettere e arti, Venezia 2018; Nicola Labanca, Giovanna Procacci e Luigi Tomassini, Caporetto. Esercito, Stato, Società, Giunti, Milano, 2018.
3. Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino 1975, v. II, p. 740.
4. Luigi Cadorna (1850-1928), fu capo di Stato maggiore del Regio Esercito italiano dal 1914 fino alla disfatta di Caporetto nel 1917. Su Cadorna si veda il volume di Marco Mondini, Il Capo : la grande guerra del generale Luigi Cadorna, Il Mulino, Bologna 2017.
5. Antonio Stragà, Gramsci e la Guerra, in il Centauro, n. 10, gennaio-aprile 1984, p. 112. Dello stesso autore si vedano anche: Il problema della guerra e la strategia della pace in Gramsci, in Critica marxista, XXII, n. 3, 1984, pp. 151-169 e Grande Guerra e società italiana. Le riflessioni di Gramsci, in Italia contemporanea, n. 158, 1985, pp. 55-74. Più in generale sul rapporto tra Gramsci e il primo conflitto mondiale si vedano: R. Giacomini, Gramsci, il socialismo italiano e la guerra, in R. Giacomini, D. Losurdo, M. Martelli (a cura di), Gramsci e l'Italia, La Città del sole, Napoli,1994, pp. 217-239; Leonardo Rapone, Antonio Gramsci nella Grande Guerra, in Studi Storici, n. 1, a. 48, gennaio-marzo 2007, pp. 5-96.
6. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., pp. 1563-4.
7. Ibidem.
8. È impossibile in una breve nota a piè di pagina fornire indicazioni bibliografiche sull’età comunale in Italia. Mi limito a suggerire alcune testi di sintesi più recenti, rinviando alle indicazioni colà presenti: Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, Vol. 4, Comuni e Signorie: istituzioni, società e lotta per l'egemonia, UTET, Torino 1981; O. Capitani, Storia dell’Italia Medievale, Laterza, Roma-Bari 1986; L’evoluzione delle città italiane nell’XI secolo, a cura di R. Bordone e J. Jarnut, Bologna, Il Mulino, 1988; G. Tabacco, G.G. Merlo, Medioevo. V/XV secolo, Il Mulino, Bologna 1989; H. Keller, Signori e vassalli nell’Italia delle città (secoli IX-XII), Torino, UTET, 1995; G. Milani, I comuni italiani. Secoli XII-XIV, Roma-Bari, Laterza, 2005.
9. A. Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit., p. 695.
10. Ivi, p. 719.
11. Ivi, p. 724.
12. Ivi, p. 758.
13. Ivi, p. 759.
14. Ciò che Gramsci intende per società civile lo chiarisce nella nota 24 di questo Quaderno: «egemonia politica e culturale di un gruppo sociale sull’intera società, come contenuto etico dello Stato», ivi, p. 703.
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