Le idee di Antonio Gramsci presentate a Bucarest

Il 30 giugno scorso, presso la Libreria «Mihai Eminescu» di Bucarest, si è svolto un importante evento culturale, dedicato al pensiero politico di Antonio Gramsci.
Per due ore, i professori Angelo Chielli, (Università «Aldo Moro» di Bari), Mihai Milca (Scuola Nazionale di Scienze Politiche e Amministrative di Bucarest) e Sabin Drăgulin (Università «Petre Andrei» di Iași) hanno presentato al pubblico quattro quaderni, scritti dal pensatore sardo in carcere, nel periodo 1929-1933.
La presenza del professore dell’ateneo barese a Bucarest si colloca all’interno delle iniziative previste dalla collana Biblioteca Gramsciana (un progetto editoriale che riunisce specialisti italiani e romeni), edita dalla Casa editrice Meridiane Publishing di Iași. I libri pubblicati sono rivolti a docenti, ricercatori e studenti che lavorano nei campi delle scienze politiche, della storia, della letteratura, ecc., e a tutti coloro che sono interessati a scoprire/riscoprire il pensiero di uno dei più importanti teorici del periodo compreso tra le due guerre mondiali.
Dopo quasi tre decenni di «oblio», il ritorno di Antonio Gramsci nello spazio editoriale nazionale è una ulteriore forma di contatto tra la cultura romena e l'universo delle idee politiche contemporanee. La pubblicazione delle opere di Antonio Gramsci ha, principalmente, lo scopo di far riavvicinare i lettori romeni al pensiero del grande autore e uomo politico sardo.
Nonostante Gramsci appartenga, a pieno titolo, al milieu culturale del socialismo europeo degli anni Venti e Trenta del Novecento, egli è tuttavia considerato un marxista atipico perché mal si adattava allo spirito dogmatico del proprio tempo. I lettori della collana Biblioteca gramsciana avranno l’opportunità di incontrare uno dei massimi teorici marxismo italiano e mondiale, la cui influenza si è diffusa molto oltre i circoli comunisti, tanto che oggi egli è un punto di riferimento per autori di differenti orientamenti politici e culturali.
Il teorico sardo fu colui che introdusse nell’ambito del pensiero politico concetti destinati a riscuotere una vasta diffusione, quali: egemonia, rivoluzione passiva, rivoluzione senza rivoluzione, blocco storico, mancanza di rivoluzione agraria, questione meridionale, ecc.
Antonio Gramsci è, dopo Niccolò Machiavelli, il pensatore politico italiano più tradotto all'estero. Il Gramscianismo è un fenomeno culturale di fama mondiale, che trova adepti in paesi come la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, l'India e l'America Latina.
I coordinatori della collana Biblioteca Gramsciana sono la Dott.ssa Ioana Cristea Drăgulin (ricercatrice indipendente) e il Prof. Sabin Drăgulin, dell'Università «Petre Andrei», Iași. Il Collegio Scientifico e composto da:   Vito Buono  (Centro Interuniversitario di Ricerca per gli Studi Gramsciani, Università degli Studi di Bari «Aldo Moro»), Angelo Chielli (Università degli Studi di Bari «Aldo Moro»), Lea Durante (Università degli Studi di Bari «Aldo Moro»), Angelo D'Orsi (Università di Torino), Guido Liguori (Università della Calabria, presidente della Società Internazionale Gramsci, Italia), Laura Mitarotondo (Università di Bari «Aldo Moro»), Gheorghe Stoica (Università di Bucarest), Silvio Suppa (Università di Bari «Aldo Moro») e Mihai Milca (Scuola Nazionale di Studi Politici e Amministrativi di Bucarest).


Quaderni del carcere


I Quaderni del carcere presentati a Bucarest sono stati curati dai professori Angelo Chielli e Sabin Drăgulin e sono stati tradotti grazie a un contributo assegnato dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale italiana.
Il problema della datazione dei Quaderni di Antonio Gramsci è uno di quelli su cui gli studiosi stanno da tempo lavorando. Stabilire con una ragionevole certezza la cronologia dei Quaderni e all’interno del singolo quaderno quella delle note, faciliterebbe molto il modo di procedere di Gramsci e l’evoluzione del suo pensiero. La questione è complessa poiché Gramsci compila i singoli quaderni lavorando contemporaneamente a essi. Essi, in altre parole, non vengono scritti in successione, Spesso un quaderno non veniva utilizzato per lungo tempo e poi, successivamente, di nuovo, anche a distanza di molto tempo, vi apponeva ulteriori annotazioni. Ed è per questa ragione la determinazione dell’ordine cronologico con cui le note furono stilate risulta estremamente difficile.
L’edizione critica dei Quaderni a cura di Valentino Gerratana ha permesso di porre in maniera più corretta, rispetto alla precedente edizione tematica, il problema della datazione. Questo perché, come già accennato, vi sono all’interno di uno stesso quaderno, note che fisicamente si trovano dopo di altre ma composte cronologicamente prima e viceversa. Ciò dipende dalla circostanza che Gramsci lasciava degli spazi bianchi necessari a una disposizione delle note che seguisse il particolare progetto dell’autore e non solo quello della successione temporale.


Quaderno 1

Il Quaderno 1 (XVI nella numerazione apposta da Tania Schucht) fu composto tra l’otto febbraio del 1929 – questa data è certa perché l’appone di suo pugno Gramsci sulla prima pagina del quaderno – e la fine di maggio del 1930. Tuttavia, l’inizio della stesura effettiva del quaderno, a parte la prima stesura di un programma di lavora che apre il quaderno stesso, effettivamente scritto l’otto febbraio, è da datare tra la fine di giugno e i primi di luglio del 1929.
Il Quaderno 1 è uno di quelli cosiddetti miscellanei, cioè composti da note che trattano argomenti disparati (a differenza dei Quaderni detti speciali perché in essi sono presenti solo appunti su un unico argomento).
Gerratana, nell’edizione critica dei Quaderni ha compiuto una fondamentale distinzione tra i testi in essi contenuti. Egli li ha suddivisi in tre classi: i testi di tipo A, i testi di tipo B e i testi di tipo C.
I testi di tipo A sono di prima stesura, cioè testi che Gramsci successivamente ricopia o rielabora in altri quaderni; i testi di tipo B sono quelli in unica stesura, cioè che non appaiono in altri quaderni; infine, i testi di tipo C sono frutto di una seconda stesura, vale a dire testi di tipo A diventati testi C.
Il modo in cui i testi A sono riversati nei testi C non è uniforme. Infatti, spesso, più testi A sono riunificati sotto un unico testo C, in altri casi, invece il testo A è suddiviso in molteplici testi C. Altre volte il testo A è conservato fedelmente in un unico testo C, vi è, in questo caso, una perfetta corrispondenza tra testo A e C. In altri casi ancora, Gramsci rielabora il testo A in un testo C in modo profondo tanto che con difficoltà si riesce a scorgere l’originale. Nel Quaderno 1 vi sono 158 tra note e appunti; di questi 107 sono testi di tipo A, 51 di tipo B, non sono presenti, invece testi, di tipo C. Come è facile comprendere più dei due terzi delle note del Quaderno 1 sarà ricopiato o rielaborato sotto forma di testi C in altri quaderni.
Il quaderno è miscellaneo e quindi comprende appunti su argomenti svariati. Tuttavia è possibile ravvisare alcuni nuclei tematici che ricompaiono con maggiore frequenza. Tra questi nuclei vi è quello riguardante i cosiddetti «nipotini di padre Bresciani» o «brescianesimo».
Antonio Bresciani de Borsa (1798-1862), più noto come Padre Bresciani, gesuita ed educatore, fu un prolifico scrittore di racconti e romanzi oltre che di numerosi saggi caratterizzati da un periodare aulico e da uno stile classico e non genuino.
Nei suoi romanzi – considerati, dalla maggior parte dei critici, letteratura apologetica e propagandistica – è profusa una retorica antirisorgimentale e reazionaria. Celebri le sue invettive contro il romanticismo considerato un tutt’uno con l’odiato liberalismo, contrario allo spirito e al gusto italiano. Per padre Bresciani una linea retta congiunge l’Illuminismo, il Romanticismo e il Risorgimento italiano e contro questi movimenti politici e culturali dovrebbe levarsi alto il bastione rappresentato dalla Chiesa Cattolica.
Nei romanzi di padre Bresciani appaiono evidenti al fianco degli intenti pedagogici quelli politici; egli, infatti, «ben si rendeva conto di come la letteratura potesse contrastare l’azione propagandistica risorgimentale che faceva ampio uso de romanzi per convincere in particolar modo le nuove generazioni alle idee moderne». 
Emblematico dello stile pedagogico di padre Bresciani è il volume pubblicato nel 1838, intitolato Ammonimenti a Tionide, opera precettistica in cui consiglia a un giovane principe di non avvicinarsi alle sette segrete e carbonare e di non leggere i romanzi di Goethe, di Foscolo, di Byron e più in generale della letteratura anglosassone.
Celeberrima è la stroncatura che del romanzo più noto di Padre Bresciani, L’Ebreo di Verona, fece, in un articolo apparso sulla rivista Il Cimento nel 1855, il grande storico della letteratura italiana e patriota Francesco De Sanctis, a cui il gesuita rispose con una nota pubblicata in un altro suo romanzo Ubaldo e Irene.
De Sanctis sottolinea come nei momenti insurrezionali emergono tutte le passioni, dalle più nobile alle più abbiette, scrive: «onde spesso, accanto al sublime trovi il grottesco, accanto alla più eroica virtù la più bassa scelleratezza. È un fiume di acqua limpidissimo, che straripando s’insozza, traendosi appresso tutte le lordure de’ campi. Il Bresciani si è calato a raccogliere questa mota, e ha detto: – Ecco la rivoluzione! Un misto di ridicolo e atroce».
De Sanctis, in questo passaggio, individua immediatamente i due piani su cui svolgerà la sua feroce ironia nei confronti del gesuita: quello politico-morale e soprattutto quello più specificatamente letterario.
Sotto il primo aspetto Bresciani gli appare come un uomo in cui perfino la religione è vuota forma, una credenza astratta e a cui oppone, invece, il senso religioso di un Manzoni in cui essa è passione, vita militante e operosa, insomma sostanza. Così si esprime lo storico irpino: «La vostra religione è una ripetizione uniforme di atti esteriori divenuti consuetudine prosaica che non vi scalda il cuore, non vi sveglia la fantasia».
Da ciò discende una totale mistificazione degli avvenimenti della storia risorgimentale italiana da parte di padre Bresciani per il quale, scrive De Sanctis, la rivoluzione è frutto dell’opera perversa del diavolo: «Cominciate, com’è vostro uso, dallo spogliare la rivoluzione di tutto ciò  che è stato in lei di nobile e serio: è un lavoro purgativo necessario per tutti i vostri quadri».
In questa parodia del Risorgimento italiano non vi è che la vuota apparenza, non fatti, non idee, non la fede. In questo vuoto ideale e spirituale, la rappresentazione poetica appare fiacca e meccanica, i personaggi del romanzo del Bresciani appaiono come marionette senz’anima: «Si assasina per sete di guadagno, per gelosia, per vendetta, per amor di patria, per fanatismo di religione; e l’omicida è uomo o donna, gentiluomo o plebeo, un grande uomo o un’anima abbietta. Se si toglie via le idee e i caratteri, non vi resta innanzi che un freddo cadavere un fatto vuoto di significato». Il romanziere invece di osservare e la contraddizione tra la forma e l’idea, tra ciò che appare e ciò che è negli avvenimenti e nel popolo «è andato raccogliendo nel suo taccuino tutti gli equivoci, gli spropositi dei trivii, e ce ne ha fatto un prezioso regalo».
Perché l’appunto che muove De Sanctis al Bresciani è proprio quelle di considerare le cose come lo farebbero gli uomini semplici della plebe, difatti, L’Ebreo di Verona, non è altro che «la rivoluzione rappresentata plebeamente, nuda di tutte le sue forze interiori di movimento e di resistenza. È la rivoluzione nella sua sola corteccia, quale apparisce all’uom della plebe […]. Tolte le idee e i caratteri e le passioni, nella cui limpida rivelazione è l’eccellenza dello storico e del poeta, non rimane che il vuoto fatto, quello solo che si vede con l’occhio materiale».
La conclusione del critico è spietata: il romanzo è definito «noiosissimo», non vi è rappresentazione ma solo narrazione puramente cronologica dei fatti esposti, tra l’altro, senza alcuna connessione interiore. Nei personaggi tipizzati nel romanzo non vi trovi né un sentimento, né un pensiero, né un’azione. In definitiva De Sanctis «mentre metteva in evidenza le tesi illiberali del libro, mostrava come la povertà artistica del Bresciani fosse tutt’uno con le sue carenze di uomo: debolezza intellettuale, mancanza di fede, ‘gesuitismo’, fiacchezza morale, i difetti storici del ‘vecchio letterato italiano’».
La categoria di «brescianesimo» e quella, a essa collegata, di «nipotini di padre Bresciani», appare filtrata in Gramsci proprio dalle note che De Sanctis aveva dedicato al gesuita e nei termini in cui aveva tratteggiato la sua figura morale e intellettuale.


Quaderno 2

Il Quaderno 2 è un quaderno miscellaneo composto, all’incirca, tra il febbraio del 1929 e il dicembre del 1930 (alcune note furono, tuttavia, aggiunte al quaderno fino ad ottobre del 1931). Il lavoro di stesura è stato interrotto e ripreso più volte, poiché Gramsci, contemporaneamente alla stesura del Quaderno 2, componeva anche i quaderni successivi, particolarmente i Quaderni 1, 3, 5. Le interruzioni sono attestate dagli spazi bianchi presenti sul quaderno e da consistenti variazioni della grafia. Esso è composto da 150 paragrafi di cui solo 3 di prima stesura, ovvero quelli che successivamente sono stati da Gramsci ricopiati integralmente o rielaborati in altri Quaderni. I rimanenti 147 paragrafi sono testi in stesura unica, ossia non più utilizzati dall’autore per ulteriori riscritture. Non sono presenti note ricopiate o rielaborate tratte da altri Quaderni.
Il Quaderno 2 non è altro che un’attenta e minuziosa raccolta di schede frutto del lavoro di spoglio delle riviste ricevute da Gramsci durante il  periodo di detenzione. La rivista da cui trae la maggior parte delle note è Nuova Antologia.
Il Quaderno 2 ha la funzione di fornire un repertorio bibliografico a sostegno della stesura dei quaderni coevi (1, 3, 5). Esso è, essenzialmente, una raccolta di schede bibliografiche con l’indicazione di autore, titolo ed estremi editoriali, cui fa seguito, talvolta, un commento sul contenuto dell’articolo o del volume preso in considerazione. Il lavoro di schedatura non è una novità adottata da Gramsci in carcere. Durante gli studi universitari a Torino, Gramsci aveva compilato un centinaio di schede in cui annotava, oltre al nome dell’autore, le opere e alcune citazioni di letteratura secondaria. Il Quaderno 2, in altri termini, non fa che replicare lo schedario letterario del 1911-1916.
L’interesse di Gramsci per il sistematico lavoro di schedatura è tale che proprio nel Quaderno 2, paragrafo 73, egli  riporta, quasi letteralmente,  una bibliografia tratta dal Mercure de France del 1° maggio del 1928, riguardante i rapporti tra l’Action française e il Vaticano.
Il quaderno contiene note e appunti su argomenti disparati. Gramsci stesso distingue nei Quaderni tra «note» e «appunti». Le prime sono frammenti di scrittura propria, i secondi sono dei promemoria e riversamento sintetico della scrittura di altri. Quindi le note tendono a evolversi vero la forma del saggio, fino a raggiungere, spesso, un elevato livello di complessità concettuale. Gli appunti tendono invece verso la «scheda bibliografica».
La distinzione tra appunti e note se appare significativa per comprendere appieno il testo gramsciano, si rivela più opaca quando si procede a una analisi ravvicinata dei testi. Una nota è spesso una rielaborazione di stimoli diversi provenienti dalla letture di opere di altri autori. E gli appunti, che richiedono un attento lavoro di selezione, ricopiatura e rielaborazione sintetica, il più delle volte si fa fatica a distinguerle da delle vere e proprie note. Questo rilievo è un prezioso strumento di lettura per un Quaderno che, apparentemente, risulta essere solo una lunga schedatura bibliografica. In realtà in esso è disseminata, tra le righe, una ricca moltitudine di spunti che troveranno, in altri Quaderni, un più sistematico ed elaborato sviluppo.
Tra le annotazioni su argomenti disparati tratti dalla lettura di libri e riviste spiccano, per lunghezza e tecnicità, alcune note che possono essere riunificate in due grossi gruppi e dedicate ai temi di politica internazionale e ai temi di bilancio dello Stato e politica commerciale.
I riferimenti alle vicende contemporanee non occupano una posizione centrale nei Quaderni e sono, di solito, inseriti all’interno di un complesso di annotazioni di carattere prevalentemente storico e filosofico, oppure, come nel caso del Quaderno 2, nella schedatura di testi altrui. Tuttavia, ciò non deve, assolutamente, far pensare che il dirigente comunista non attribuisca importanza alla politica estera. A titolo esemplificativo, si può citare il peso preponderante riconosciuto da Gramsci ai fattori esterni, ovvero, al contesto politico europeo, rispetto ai fattori interni, nell’analisi del processo di unificazione nazionale in Italia. Inoltre, come afferma Robero Gualtieri, «l’assunzione di un orizzonte compiutamente transnazionale, nella definizione della politica contemporanea, fondato sulla dialettica tra nazionale e internazionale, diviene progressivamente sempre più centrale nell’elaborazione dei Quaderni».
L’attenzione di Gramsci nei Quaderni del carcere per i temi di politica internazionale erano rivolti soprattutto all’analisi della situazione che si era creata dopo la fine del primo conflitto mondiale. In particolare, Gramsci, osservava che i contrasti tra i paesi vittoriosi non erano meno laceranti di quelli tra vincitori e sconfitti. Egli, infatti, interpretava tali contrasti non banalmente, come un generico confronto tra «potenze», bensì come urto tra interessi contrapposti che tendevano a imprimere uno specifico indirizzo allo sviluppo della civiltà mondiale.  Si tratta del conflitto che oppone un livello più avanzato della civiltà capitalistica a un livello più arretrato e, nel contempo, più oppressivo oltre che maggiormente violento.
Lo sguardo sulla situazione internazionale muove in Gramsci dall’analisi dell’evoluzione del capitalismo a livello mondiale, con un occhio attento a ciò che accade negli Stati Uniti. La discussione sull’americanismo aveva visto impegnati autorevoli esponenti del movimento operaio internazionale quali Zinov’ev, Bucharin e Trockij. Gramsci, intervenendo sulla questione, aveva posto l’accento sulle differenze tra America ed Europa. In Europa, infatti, Gramsci distingue tra paesi a capitalismo avanzato (Inghilterra, Germania e Francia), e paesi periferici (tra questi ultimi anche l’Italia). In questi ultimi, l’elemento che maggiormente li separa dagli Stati Uniti è la mancata razionalizzazione demografica (a cui Gramsci accenna nel paragrafo 16). La presenza di ceti parassitari – lascito della complessa e stratificata storia del vecchio continente, in cui sono ancora presenti gruppi sociali legati alle sopravvivenze feudali e alla nobiltà – assenti in America, è caratteristica esclusiva dell’Europa, soprattutto di quella mediterranea.  Questo tema è infatti presente in molte note di questo quaderno (si vedano, a titolo di esempio, i paragrafi 6, 124, 138).
Nel Quaderno 2 vi sono molte note che riprendono temi legati alla situazione internazionale. L’interesse di Gramsci è ampio e include una lunga nota in cui analizza un articolo di Francesco Tommasini su La politica mondiale e la politica europea, pubblicata dalla rivista Nuova Antologia. Gramsci riprende dal Tommasini l’idea che una grande potenza è tale solo quando è capace di imprimere alla  propria volontà,  in modo  autonomo, una determinata direzione. Ciò consente di subordinare alla propria l’altrui volontà. Questo aspetto, unitamente alla dimensione territoriale e alla forza economica e finanziaria, autorizza a definire uno stato una potenza mondiale. Il tema delle «grandi potenze» ritorna più volte nel Quaderno 2. Ad esempio nel paragrafo 48 Gramsci riassume l’articolo Le prospettive dell’Impero britannico dopo l’ultima conferenza imperiale, pubblicato sempre su Nuova Antologia. Ciò che attira l’attenzione di Gramsci in questo articolo è soprattutto il problema dell’equilibrio tra la volontà di autonomia dei Dominions inglesi e l’esigenza di unità della politica estera dell’Impero britannico.
L’interesse di Gramsci non è limitato solo all’Europa e alla proiezione su scala globale delle vicende del continente. Egli osserva in modo analitico le vicende etiopiche (nota 21) ed eritree (nota 50) e, più in generale, quelle riguardanti, il mondo arabo (nota 30, 63 e 90).
Si deve sottolineare che nel Quaderno 2 emerge una oscillazione circa il ruolo e la funzione egemonica dell’Europa. Nel paragrafo 16 Gramsci sembra accettare l’ipotesi del Tommasini circa il dominio delle grandi potenze europee (Inghilterra, Germania e Russia), includendo in esse gli Stati Uniti, oramai potenza planetaria e considerata una filiazione della cultura politica del vecchio continente. Tuttavia, come emerge dal breve paragrafo 78, Gramsci intuisce che le grandi masse di popolazione presenti in Asia (Cina e India in particolare), nell’ipotesi che quei paesi raggiungano un livello di industrializzazione paragonabile a quello dei paesi occidentali, determinerebbero uno spostamento dell’asse dei flussi commerciali dall’Atlantico al Pacifico. Si fa strada in modo chiaro nell’analisi gramsciana che ci si sta avviando verso un’epoca in cui la storia dell’Europa e la storia mondiale non coincidono più, anzi il destino del pianeta si decide in luoghi sempre più distanti dalla vecchia ed esausta Europa.
La prognosi gramsciana individua nella contraddizione tra diffusione dell’americanismo nei paesi periferici e impossibilità dei ceti parassitari – che comunque svolgono ancora funzioni direttive e che i processi di razionalizzazione tenderanno progressivamente a eliminare – a guidare quelle innovazioni, il fattore che potrebbe generare, proprio nei paesi periferici e non in quelli a capitalismo avanzato, le condizioni per l’affermazione della rivoluzione comunista. Quindi, in Gramsci non è valida, come le note presenti nel Quaderno 2 dimostrano, l’equazione tra americanismo e reazione.
L’altro gruppo di appunti riguarda questioni relative al bilancio dello stato e più in generale a questioni economiche.
Può apparire singolare che Gramsci si interessi ad aspetti economici molto specialistici e che lo faccia con una certa competenza. Per comprendere meglio questi aspetti occorre risalire agli anni in cui Gramsci frequenta l’università di Torino. Gramsci si iscrive alla Facoltà di Lettere dell’ateneo torinese, ma da alcune testimonianze sappiamo che egli frequentò con una certa assiduità i corsi di Scienze delle finanze tenuti da Luigi Einaudi e fu, inoltre, un assiduo lettore della rivista Riforma Sociale diretta proprio da Einaudi. Inoltre, da una sua lettera del 23 maggio 1927 a Tania Schucht, cognata di Gramsci, sappiamo che egli in carcere si cimenta nella lettura del volume di Luigi Einaudi, Corso di scienza delle finanze.
Negli anni in cui frequenta L’università di Torino, il giudizio di Gramsci sull’economista piemontese è pienamente positivo. Di Einaudi, apprezza le sue teorie liberoscambiste e la battaglia antiprotezionistica ritenuta lo strumento migliore per liberare il Mezzogiorno d’Italia dalla fame a dalla miseria. Oltre agli aspetti teorici, Gramsci condivide alcune posizioni politiche di Einaudi.  Ad esempio, l’avversione di quest’ultimo nei confronti di Giovanni Giolitti è apertamente approvata anche dal giovane studente sardo.
Gramsci apprezzò anche la condotta di Einaudi nei confronti della guerra. Questi, pur appoggiando l’intervento italiano a fianco delle forze dell’Intesa, si mantenne estraneo al clima di isterismo nazionalistico e di fervore antitedesco, che, al contrario, si diffuse tra molti intellettuali italiani.
La rottura nei confronti dell’Einaudi teorico e politico, si consumerà nel 1919. Nel dopoguerra, infatti, l’economista fu molto critico sia sulle rivendicazioni della classe operaia, sia sugli avvenimenti rivoluzionari in Russia. Gramsci, in un articolo su Ordine Nuovo del 25 maggio 1919, fu molto critico verso Einaudi accusando il liberismo di quest’ultimo di astrattezza e utopismo. Proprio a causa di ciò, il liberalismo non comprende le immani trasformazioni avvenute durante il primo conflitto mondiale, che hanno liquidato definitivamente i principi liberali e affermato, al contrario, l’importanza di una economia pianificata e dell’intervento statale nella produzione.
Il giudizio negativo sarà ribadito anche nei Quaderni, ove, addirittura, Einaudi è incluso tra i seguaci di Achille Loria. L’atteggiamento di Gramsci è apertamente polemico. Einaudi continua a considerare irrilevante il pensiero marxista, del quale, peraltro, ha una conoscenza superficiale, anzi da «orecchiante», appreso da una rimasticatura di ciò che ne ha scritto il Loria. Egli non comprende per nulla il senso che Marx attribuisce al concetto di «forze produttive»; non comprende come sia mutato lo scenario internazionale e siano diventati sempre più complessi i rapporti commerciali; non comprende la natura organica e non meramente congiunturale della crisi che attraversa il mondo occidentale.
Tuttavia, poiché lo studioso piemontese esercita un’enorme influenza su una schiera assai vasta di intellettuali, è necessario dedicare grande attenzione ai suoi scritti.
Questo rapporto conflittuale di Gramsci con Einaudi, ci fa comprendere l’attenzione che il dirigente comunista dedica nel Quaderno 2 ad aspetti apparentemente molto tecnici come quelli rivolti al bilancio dello Stato (il lungo paragrafo 6 oltre ai paragrafi 71 e 72), o ad aspetti riguardanti il commercio estero (ad esempio, paragrafo 12 dedicato al trasporto navale), oppure quello dedicato al commercio petrolifero (paragrafo 54).
Ovviamente, al di là di questi paragrafi svariati altri sollevano questioni di notevole interesse. Basti citare la lunga nota 75 sul partito politico e su Michels; quelle dedicate a Machiavelli (nota 31 e 41), a Giovanni Pascoli (note 51 e 52), a Massimo D’Azeglio (nota 56).
Sono presenti, a volte, brevi appunti su argomenti che a un primo sguardo ci potrebbero apparire come notazioni di costume. Ad esempio, la nota 88 fa riferimento alle biblioteche operaie che si diffusero a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Sappiamo, invece, quante energie Gramsci avesse dedicato allo studio della organizzazione della cultura (editoria, cultura popolare, istruzione) e come questo sia uno degli aspetti di maggiore novità dell’analisi gramsciana, ovvero l’attenzione posta non solo alla cultura dei grandi intellettuali, ma anche, e forse soprattutto, a quella propria delle classi umili, del piccolo e medio ceto borghese.
All’occhio acuto di Gamsci non sfugge neppure un articolo di Bruno De Pol sull’industria della moda, sul suo sviluppo e sulle ragioni dell’egemonia francese in questo campo.
Gli esempi potrebbero essere tantissimi. In definitiva, ciò che rende di estremo interesse la lettura di questo quaderno gramsciano, risiede proprio nella possibilità che esso ci offre di guardare dietro le quinte del lavoro di Gramsci, di apprezzare il suo rigore metodologico, la serietà del suo approccio, la larghezza dei suoi interessi, l’acume dei suoi giudizi.


Quaderno 3

Il Quaderno 3 è composto da 166 paragrafi. Per quanto riguarda la datazione del Quaderno 3, esso deve essere stato iniziato nei primi mesi del 1930.
Come i due precedenti Quaderni, anche il terzo è una miscellanea di testi di contenuto diverso, derivanti soprattutto dalla lettura di riviste e volumi che faticosamente Gramsci riusciva a recuperare, grazie soprattutto all’interessamento dell’amico Piero Sraffa, e a consultare sotto il rigido controllo dell’autorità carceraria.
Sebbene le note contenute nel Quaderno 3 non ruotino su un unico argomento (così come accade invece per i cosiddetti Quaderni speciali), è tuttavia possibile rilevare come alcuni argomenti ricorrono con maggiore frequenza e sono quei temi che Gramsci, in apertura del Quaderno 1, aveva indicato in un elenco che costituiva un primo piano di lavoro. Possiamo distinguere tre grandi gruppi di note, oltre, ovviamente a molte note che hanno un carattere di appunti di letture di articoli o di spunti di ulteriori ricerche da avviare. Le prime due hanno una indicazione che le unifica e sono i paragrafi intitolati Passato e presente e I nipotini di padre Bresciani. Un terzo gruppo può essere identificato per il comune tema trattato, sebbene non abbiano una intitolazione uniforme. Queste note riguardano principalmente il tema del rapporto tra gruppi dirigenti e gruppi subalterni, il ruolo tra i due gruppi svolto dagli intellettuali e infine il faticoso processo di formazione di una autonoma elaborazione ideologica da parte delle classi subalterne.
Con il titolo di I nipotini di padre Bresciani sono presenti ben 18 paragrafi. Con il termine «brescianesimo» Gramsci elabora una categoria che prende spunto da un personaggio storico, il gesuita Antonio Bresciani. Questi fu un prolifico romanziere, alfiere di una letteratura postrisorgimentale di largo consumo e di scarsissimo valore artistico ma carica di un velenoso e scoperto spirito antiunitario e clerico-reazionario. Il gesuita nei suoi romanzi, rivolti prevalentemente alla piccola e media borghesia (il più noto è L’ebreo di Verona, pubblicato nel 1872), offre una narrazione scopertamente deformata degli avvenimenti risorgimentali con lo scopo di mettere in cattiva luce, presso i suoi lettori, i carbonari fautori del processo di unificazione nazionale e restituire una rappresentazione nostalgica e paternalistica del mondo di ieri, svalutando e immiserendo, al contrario, tutto ciò che poteva essere ricondotto alla modernità e ai suoi ideali repubblicani e democratici.
Padre Bresciani e il brescianesimo acquistano per Gramsci la valenza di un archetipo che andava ben oltre il personaggio storico e l’epoca in cui quest’ultimo è vissuto e connotava, più in generale, quel fenomeno letterario in cui autori, molto vicini al regime fascista e da questo sostenuti, accecati da un pregiudizio politico manipolavano la realtà, descritta nei romanzi, per non celati fini propagandistici. In questi romanzi i socialisti e i comunisti erano descritti come gente abbietta e malvagia, affetta da tare fisiche e psicologiche, dedita al vizio e alla lussuria. Tra i principali autori che Gramsci include in questa categoria (appunto i nipotini di padre Bresciani), ricordiamo Luca Beltrami, Ugo Ojetti, Salvator Gotta, Alfredo Panzini, Francesco Perri, Umberto Fracchia, Margherita Sarfatti, Mario Sobrero.
Negli autori succitati l’elemento ideologico-propagandistico e, in alcuni casi, persino apologetico è facilmente individuabile data la pochezza artistico-letteraria degli scritti. Tuttavia anche grandi scrittori italiani non sono immuni dal peccare di brescianesimo in alcuni aspetti della propria produzione letteraria. È il caso di Luigi Capuana accusato da Gramsci di utilizzare un «frasario di giornaletto di provincia» (73, p. 349), e neppure il grande Manzoni ne è immune, infatti anche nell’autore dei Promessi sposi «si potrebbero trovare notevoli tracce di Brescianesimo».
Non mancano, rubricate sempre sotto la voci I nipotini di padre Bresciani, interessanti riflessioni sull’assenza in Italia del feuilleton (espressione tradotta in italiano in «romanzi d’appendice»), genere letterario che si diffuse in Francia alla fine dell’Ottocento così definita poiché i romanzi venivano pubblicate a puntate sui quotidiani o settimanali con lo scopo commerciale di fidelizzare il lettore e aumentare le tirature. Gramsci faceva notare nel paragrafo 73 che in Italia venivano pubblicati sui giornali, e riscuotevano un notevole successo, romanzi soprattutto francesi mentre non vi erano autori nazionali che si cimentassero con questo genere di letteratura di massa. La ragione addotta da Gramsci per spiegare questo fenomeno è che in Italia si è prodotto un distacco tra intellettuali e popolo che non riscontriamo, perlomeno nelle dimensioni con cui si è verificato nella penisola, in altri paesi europei. Questo aspetto determina l’estraneità degli intellettuali rispetto ai bisogni, alle aspirazioni e ai desideri di ampi strati popolari e, pertanto, la produzione letteraria non incontra il gusto del pubblico italiano pronto invece ad accogliere la letteratura di altri contesti nazionali in cui questo distacco non vi era o risultava assai meno marcato. Neppure la letteratura poliziesca, nota Gramsci nel paragrafo 78, che pure aveva grande successo nel resto del continente e negli Stati Uniti, riuscì a trovare in patria interpreti del valore di quelli stranieri.
Legato al tema del brescianesimo (un sinonimo di brescianesimo che spesso Gramsci utilizzerà sarà «gesuitismo letterario»), Gramsci avvia una riflessione sul rapporto intellettuali-masse che risulterà uno dei temi centrali e più originali di tutta l’opera carceraria. L’incapacità degli intellettuali di farsi interpreti e portatori delle istanze delle classi subalterne è rivelato proprio dalla circostanza che in Italia è assente una letteratura «nazional-popolare». L’assenza del carattere nazional-popolare è il male che affligge la vita culturale e artistica del paese, mancanza che assume un peso negativo maggiore se confrontato con l’esperienza francese, dove, al contrario, gli intellettuali e popolo si sentono «partecipi di un processo comune, entro il quale era stato possibile maturare contemporaneamente tanto lo spirito nazionale quanto l’appartenenza di classe» (In una fase in cui il ceto dominante economicamente ha esaurito ogni spinta espansiva – la sola capace di generare una duratura egemonia – e svolge una funzione puramente repressiva, orbene, in questa situazione gli intellettuali legati ai gruppi dominanti, culturalmente, si esprimono attraverso forme di letteratura gesuitica: il brescianesimo è, in definitiva, la forma d’arte dei periodi di restaurazione che seguono un periodo di intensa innovazione ed espansione (l’epoca postrisorgimentale che fece seguito alle speranze generate dall’unificazione nazionale  e il fascismo che succedette al biennio rosso).


Passato e Presente

Un cospicuo numero di paragrafi del Quaderno 3, venti in tutto, sono contrassegnate da un titolo: Passato e presente. Esso costituisce il titolo di una rubrica la cui prima comparsa è nel Quaderno 1.
Questa rubrica non compare nel piano di lavoro stilato da Gramsci l’otto febbraio del 1929 che apre il Quaderno 1. Troviamo invece l’espressione Passato e presente nei Raggruppamenti di materia, al punto 6: Miscellanea di note varie di erudizione (passato e presente), nelle Note sparse e appunti per una storia degli intellettuali italiani posta all’esordio del Quaderno 8.
La rubrica Passato e presente, che non formerà mai un quaderno speciale, è presente, in misura significativa solo nei quaderni miscellanei.
Lo spunto che origina questa rubrica è, da Gramsci, esplicitamente dichiarato. Nel paragrafo 139 del Quaderno 3 è scritto: «Per compilare questa rubrica rileggere prima i Ricordi politici e civili di Francesco Guicciardini. Sono ricchissimi di spunti morali sarcastici, ma appropriati».
Francesco Guicciardini fu, insieme all’amico e conterraneo Niccolò Machiavelli, uno dei maggiori esponenti dell’umanesimo rinascimentale fiorentino. Dopo gli studi di diritto svolse una intensa attività politica. Ambasciatore in Spagna dal 1512 al 1514, successivamente esercitò, per quasi un ventennio, funzioni di governo, a favore del papato. Grazie al benvolere di papa Leone X fu governatore di Modena, col titolo di commissario (1516-1524), e in seguito, dell’intera Romagna (1524-1526). Con l’elezione al soglio pontificio di Clemente VII, Guicciardini fu chiamato a Roma come consigliere del Pontefice. Sostenitore di un ridimensionamento dell’influenza dell’imperatore Carlo V in Italia, fu artefice di una alleanza tra gli stati italiani e la Francia (Lega di Cognac). In seguito alla sconfitta della Lega ad opera delle truppe imperiali, Guicciardini fu rimosso dall’incarico e costretto all’esilio anche dalla sua Firenze, nel frattempo ritornata sotto un regime repubblicano. Caduta, nel 1530, la repubblica a Firenze, con il ritorno al governo della famiglia dei Medici, Guicciardini fu nominato membro degli Otto di pratica. Svolse ancora alcune funzioni di governo in Romagna ma oramai la sua influenza presso i Medici si attenuò definitivamente.
Guicciardini svolse anche una intensa attività letteraria. Tra le sue opere maggiori ricordiamo la Storia d’Italia – relativa agli eventi accaduti tra la morte di Lorenzo il Magnifico (1492) e l’elezione al pontificato di Paolo III (1534) – che lo impegnò dal 1536 fino alla morte e le Considerazioni sopra i Discorsi del Machiavelli. Tuttavia, l’opera alla quale il nome di Guicciardini è indissolubilmente legato sono i Ricordi. Opera non destinata alla pubblicazione ma rivolta a un chiarimento interiore dell’autore e, soprattutto, determinata da un conflitto tra il ruolo pubblico del personaggio e le sue personali convinzioni. Il testo è formato da 221 brevi riflessioni, dei saggi condensati in rapidi e fulminei aforismi. Lo stile di scrittura di questo testo sottolinea la visione teorica del Guicciardini, convinto oltre misura, dell’impossibilità di uno sguardo storico sistematico e onnicomprensivo.
I Ricordi si muovono lungo un sottile crinale sul quale l’autobiografia, mai fine a se stessa, si trasforma nell’unico spazio in cui può aver luogo una riflessione teorica che rinunzia, sin dal principio, a una compiuta sistematicità. In questa opera, stratificata e affascinante, «l'autobiografia non è mai il centro del ricordo, ma piuttosto, appunto, una sua funzione […] una autobiografia commutata in esperienza, trasformata da discorso su di sé in sapere assoluto, universale e generale».
Perché Gramsci, un machiavelliano convinto, assertore della funzione motrice del ruolo della volontà politica, è attratto da un autore che la tradizione storiografica, fortemente influenzata dal giudizio del grande storico della letteratura italiana Francesco De Sanctis, ci ha consegnato come un conservatore, tutto dedito al «particulare», ovvero alla difesa degli interessi individuali anche a discapito di quelli generali? Gramsci, che pure non lesina apprezzamenti non proprio benevoli nei confronti di Guicciardini, apprezza, però, di quest’ultimo quella scrittura in grado di congiungere autobiografia e giudizio storico dando vita, appunto, ai ricordi che non vanno intesi nel senso ristretto di rievocazione di avvenimenti, quanto, piuttosto, come ammonimento e consiglio. Quindi non teoria che organizza e sistematizza l’esperienza, ma conoscenza sapienzale che aderisce profondamente, senza mai separarsene, alla vita.
Individuando nei Ricordi il proprio modello, Gramsci riconosce Guicciardini come fondatore di un genere letterario in cui solo il nesso tra esperienza e il continuo lavorio della ragione su di essa consente di cogliere un ordine nello sviluppo della storia. Ordine però che non si traduce mai in una rappresentazione normativamente organizzata, perché «È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circustanze (…)» (Ricordi 6)
La scrittura dei Quaderni per Gramsci assume una funzione simile a quella che l’esperienza biografica svolge in Guicciardini, ovvero mostrare processi in atto nel loro lento e impercettibile movimento.
L’originale scrittura guicciardiniana appare a Gramsci come uno straordinario strumento di analisi del presente. Tuttavia mentre in Guicciardini non è possibile, per la presenza di un gran numero di elementi accidentali, trarre dalla storia alcun insegnamento valido in assoluto, per Gramsci, il quale pure riconosce l’unicità dei fatti che mai si ripresentano nella storia in maniera identica, nella storia agisce sempre l’elemento soggettivo della volontà, la quale, di fronte alla contraddittorietà degli elementi che convergono sul presente, dalla storia ricava la massima che occorre sempre dirigere, legandosi alle forze più vitali e progressive presenti in una società, il corso degli avvenimenti e mai farsi travolgere da essi.
Questa visione più complessa della temporalità affiora in Gramsci sin dal Quaderno 1, ove, nel paragrafo 156 compare per la prima volta l’intitolazione Passato e presente: «Come il presente sia una critica del passato, oltre che [e perché] un suo ‘superamento’. Ma il passato è perciò da gettare via? È da gettar via ciò che il presente ha criticato ‘intrinsecamente’ e quella parte di noi stessi che a ciò corrisponde. Cosa significa ciò? Che noi dobbiamo aver coscienza esatta di questa critica reale e darle un’espressione non solo teorica, ma politica. Cioè dobbiamo essere più aderenti al presente, che noi stessi abbiamo contribuito a creare, avendo coscienza del passato e del suo continuarsi (e rivivere)».
Cosa vuol dire presente come critica del passato? Significa che il presente è il risultato di ciò che nel passato è stato sconfitto o che nel passato esisteva solo in potenza e tuttavia non è mai trapassato in atto. In questo senso il presente è critica del passato in quanto mostra non la propria necessità bensì la propria parzialità. Il presente è solo una delle possibilità molteplici insite nel presente, pertanto quella possibilità che si è realizzata mostra le manchevolezze di ciò che non è giunto all’altezza del presente. Con ciò il presente critica il passato e mostra al contempo la propria parzialità.
Ma ciò che dal passato non è affiorato sul presente deve essere dimenticato, non considerato? E allo stesso modo quella parte di noi che è legata a ciò che del passato non si è realizzato, cioè non è diventato presente, deve anch’esso essere escluso, dimenticato, gettato via? Ciò che del passato non è diventato presente non dev’essere gettato via. Questo residuo che non diventa presente ha una importantissima funzione pedagogica. Serve a farci comprendere che il presente è una possibilità e non una necessità. Perché se il presente fosse una necessità esso sarebbe immodificabile.
Questo modo d’intendere la dialettica passato-presente è rivolta in modo polemico verso l’interpretazione datane da Bucharin nel Manuale popolare di sociologia marxista, dove tutto il passato è condannato come irrazionale e il presente, invece, assume i caratteri del razionale e in quanto razionale il presente è verità e quindi non criticabile, in definitiva non trasformabile.
Orbene, per Gramsci occorre superare il rapporto acritico con il presente, essere coscienti del nesso passato-presente e delle sue implicazioni. Essere coscienti per Gramsci significa in primo luogo elaborare criticamente le sedimentazioni che il processo storico deposita nell’individuo in maniera acritica. Nell’essere cosciente il nesso passato-presente è decisivo. Infatti non è sufficiente conoscere i rapporti sociali ed economici esistenti nel momento in cui si agisce e si opera. È necessario conoscere geneticamente quei rapporti, il loro processo formativo, «poiché ogni individuo non solo è la sintesi dei rapporti esistenti ma anche della storia di questi rapporti, cioè il riassunto di tutto il passato». Per trasformare il presente, quindi, si deve conoscere il passato, di cui il presente è il riassunto e criticarlo, in altre parole, liberarsi di quei residui che tendono per inerzia a permanere, impedendo che il nuovo si affermi.
Inoltre la coscienza del presente come critica del passato deve assumere una forma non solo teorica (conoscenza), ma anche politica, ovvero, essere consapevoli degli effetti sugli uomini, individualmente e come gruppi, dell’attività trasformatrice che conduce il passato al presente (attività trasformatrice che è volontaria, soggettiva).
Sempre sotto la rubrica Passato e presente troviamo un interessante paragrafo, il 46, in cui Gramsci mette a fuoco il concetto di sovversivismo. Con esso egli intende una concezione limitata, da parte dei gruppi subalterni, della propria funzione storica, una concezione di classe, ancora di tipo feudale, in quanto è assente in essa, o è presente in misura elementare e polemica, una coscienza di classe. Siamo ancora nella fase di elaborazione negativa della coscienza di gruppo, poiché essa è conseguenza solo della contrapposizione con la personalità dell’avversario e non frutto di una consapevole e autonoma specificazione.
Il sovversivismo è legato non solo ceti subalterni ma anche a due altre categorie che Gramsci chiama «i morti di fame». In questo gruppo rientrano sia i giornalieri agricoli (strato dei lavoratori agricoli incapace di trasformarsi in piccolo proprietario o in mezzadro e caratterizzato da una scarsa laboriosità e da un infimo livello morale) sia i piccoli intellettuali. Questi ultimi non hanno una origine contadina ma piccolo borghese, sono la conseguenza della parcellizzazione della proprietà agraria. Psicologicamente questi individui si percepiscono come nobili decaduti, costretti a un lavoro vissuto come una prebenda piuttosto che come una professione e si annidano, principalmente, nelle amministrazioni municipali.
Gramsci considera molto pericoloso il sovversivismo di questi gruppi che tendono a legarsi con la borghesia rurale contro i contadini, disponibili a ogni sorta di avventurismo da cui sperano gli venga restituito quel prestigio sociale, prima che economico, di cui credono di essere stati ingiustamente spogliati.


Classi subalterne, Intellettuali, Popolar-Nazionale

Strettamente connesso al tema del sovversivismo è quello della spontaneità, anch’essa, infatti, esprime uno stadio in cui la coscienza politica dei gruppi subalterni è ancora primitiva e immatura.  La riflessione sulla spontaneità nel paragrafo 42, avviene all’interno di una critica rivolta al volontarismo inefficace del partito socialista. Il volontarismo di quest’ultimo segnalava la distanza che permaneva tra le aspirazioni della base sociale del partito e i suoi gruppi dirigenti. L’esaltazione del volontarismo dovrebbe condurre, per converso alla condanna dei movimenti spontanei. Tuttavia, Gramsci evidenzia (paragrafo 48), come una spontaneità in forma pura non sia mai esistita poiché elementi di direzione consapevole, seppure elementari e poco elaborati, sono sempre presenti. Proprio nelle classi subalterne, infatti, possiamo osservare fenomeni spontanei che denotano come queste non abbiano raggiunto una coscienza di classe matura, non ancora capace di superare una visione del proprio ruolo storico dominata dalla tradizione e dal senso comune. 
Una fase storica in cui si verificò l’unione di direzione consapevole e spontaneità fu quella nota come «biennio rosso» dove l’elemento spontaneo «non fu trascurato e tanto meno disprezzato: fu educato, fu indirizzato, fu purificato da tutto ciò che di estraneo poteva inquinarlo, per renderlo omogeneo, ma in modo vivente, storicamente efficiente, con la teoria moderna».
L’atteggiamento di disprezzo nei confronti dei movimenti spontanei può condurre a gravi conseguenze. Infatti lo spontaneismo delle masse, se non ricondotto sul piano della consapevolezza politica produce, da parte dei gruppi più retrivi delle classi dominanti, dei moti di reazione.
Il concetto di spontaneo è da Gramsci messo sempre in relazione con quello di «subalterno» o di «classi subalterne». Nel Quaderno 3 troviamo l’avvio della riflessione su questo tema, che sarà ripreso in maniera più ampia nel Quaderno 25, quaderno speciale intitolato Ai margini della storia (Storia dei gruppi sociali subalterni). I paragrafi a questo aspetto dedicati nel Quaderno 3 (14, 16, 90), hanno carattere principalmente metodologico, cioè tentano di impostare un corretto approccio a un tema su cui, spesso, non disponiamo di un materiale storico diretto. Infatti, la disgregazione e la mancanza di organizzazione rendono questi gruppi silenti, in quanto incapaci di formulare, in un progetto politico bisogni e aspirazioni e l’unico modo in cui riescono a esprimersi, cioè il ribellismo, sovente non lascia alcuna traccia. Nasce da queste esigenze il dettagliato programma di lavoro specificato nel paragrafo 90 che verrà successivamente sviluppato nel Quaderno 25.
Un’altra questione che Gramsci affronta in questo quaderno, collegato al tema della subalternità, riguarda un aspetto tipicamente italiano, ovvero il distacco tra intellettuale e le masse. Questo distacco ha una spiegazione storica poiché l’intellettuale in Italia è sempre stato legato alla Chiesa che per propria natura ha una visione cosmopolita e non nazionale. Inoltre, due grandi momenti della storia culturale del paese, il Rinascimento e la Controriforma, hanno esaltato il carattere internazionale degli intellettuali italiani.
Il risultato di questa vocazione cosmopolita degli intellettuali è stato una scarsa aderenza di questi ultimi al popolo, la loro incapacità a farsi interpreti dei bisogni e delle istanze di ampi strati popolari. L’effetto più evidente di questo distacco sul piano della produzione letteraria è che in Italia manca del tutto una cultura popolar-nazionale, a differenza di quanto accaduto in altre realtà nazionali, ad esempio la Francia, in cui l’aderenza tra intellettuali e masse ha prodotto una letteratura popolare che, maggiormente, rispondente alle richieste di queste ultime ha trovato larga diffusione anche in Italia. Qui la letteratura non ha mai assunto questo carattere popolare con il risultato che alle masse è stata preclusa la partecipazione alla vita spirituale del paese. Si deve sottolineare come il tema dell’assenza di una letteratura nazionale e popolare sia strettamente connesso al tema del brescianesimo, a cui abbiamo fatto riferimento nelle pagine precedenti.
Con il termine popolar-nazionale, Gramsci designa quella letteratura in grado di soddisfare sia il gusto delle élite colte, sia quello di più ampi strati di lettori. Lo scrittore dovrebbe essere capace di unificare le esigenze di entrambi e, in tal modo, estendere l’egemonia dei gruppi dominanti di cui l’intellettuale è espressione. La mancanza di una classe di letterati che abbiano questa capacità è dovuta, per Gramsci, alla debolezza della borghesia italiana che non è mai riuscita a elaborare un proprio gruppo di intellettuali in grado di trasformarla in classe dirigente.
Da questa sommaria rassegna dei principali temi affrontati da Gramsci nel Quaderno 3, possiamo trarre la conclusione che esso è il luogo in cui alcuni concetti originali trovano una prima elaborazione. Anche tra la frammentarietà di un Quaderno che, inizialmente, doveva sembrare allo stesso Gramsci, poco più di un promemoria in cui depositare spunti ricavati dallo spoglio di riveste, individuiamo, come pietre preziose incastonate nell’umile roccia, temi di fondamentale importanza per l’intera cultura europea e mondiale del Novecento.
Il Quaderno 5 fu composto tra ottobre del 1930 e la fine del 1931 inizi del 1932.
È un quaderno miscellaneo che, come i precedenti primi 4 quaderni, accoglie un lungo e costante lavoro di spoglio e annotazione degli spunti ritenuti più interessanti derivanti dalla lettura di riviste, in particolare Civiltà Cattolica e Nuova Antologia.


Quaderno 5

Il Quaderno 5 è composto da 161 paragrafi. Di questi, 16 sono testi che nell’edizione dei Quaderni del carcere curata da Valentino Gerratana sono classificati come A, cioè note di prima stesura che Gramsci ricopia integralmente o rielabora includendoli nei Quaderni speciali; 186 sono invece i testi indicati come B, cioè note presenti in un'unica stesura. Non sono presenti i testi indicati come C poiché questi sono presenti, come già specificato, nei quaderni speciali.
Come in tutti i Quaderni miscellanei, svariati sono i temi annotati e trattati. Molti paragrafi riprendono argomenti già presenti nei precedenti quaderni. Note, ad esempio, che riguardano I nipotini di padre Bresciani, la Letteratura nazionale e popolare, l’Americanismo, gli Intellettuali sono presenti anche in questo quaderno.
Spicca, invece, un cospicuo numero di note dedicate all’analisi della Chiesa cattolica. La maggior parte di esse è riunita sotto la rubrica Cattolici integrali, gesuiti e modernisti.
L’interesse di Gramsci verso la Chiesa cattolica è notorio. Il suo approccio è legato prevalentemente alla considerazione della Chiesa come intellettuale che Gramsci colloca all’interno di una più ampia valutazione della storia degli intellettuali italiani.
In queste note Gramsci si occupa dell’Azione Cattolica, degli integralisti, dei gesuiti e dei modernisti. Ciascuna di queste correnti Hanno, scrive Gramsci «significati più vasti che non siano quelli strettamente religiosi: sono «partiti» nell’ «impero assoluto internazionale» che è la Chiesa Romana ed essi non possono evitare di porre in forma religiosa problemi che spesso sono puramente mondani, di ‘dominio’».
L’Azione Cattolica nasce nel 1905, ad opera di papa Pio X sulle base di preesistenti associazioni cattoliche. Nell’enciclica Il fermo proposito, emanata il giorno 11 giugno dello stesso anno, il Papa sancisce la nascita della nuova organizzazione laicale cattolica. Negli intendimenti di Pio X essa avrebbe dovuto fungere da principale strumento di contrasto al modernismo.
Nel primo dopoguerra la nascita del Partito Popolare Italiano, ad opera di Don Luigi Sturzo, impose una revisione e ridefinizione dei compiti dell’Azione Cattolica.
L’associazione laicale cattolica sopravvisse anche alla politica fascista che abolì le organizzazioni non fasciste tranne, appunto, l’Azione Cattolica che ebbe addirittura il riconoscimento ufficiale nell’articolo 43 del Concordato.
L’interesse di Gramsci nei confronti dell’Azione Cattolica è da mettere in relazione con il più ampio campo di analisi dedicato agli intellettuali italiani.
Nei Quaderni all’Azione Cattolica è dedicato uno spazio abbastanza ampio (vi sono paragrafi oltre che nel Quaderno 5 nel Quaderno 6 e nel Quaderno 20).
L’Azione Cattolica è, per Gramsci una organizzazione il cui scopo principale è quello di ricostruire – dopo la Rivoluzione francese e i processi di secolarizzazione, che caratterizzarono a livello continentale, tutto l’Ottocento – l’egemonia della Chiesa Cattolica nella società.
Questa organizzazione segna uno spartiacque nel modo di porsi della Chiesa Cattolica nei confronti della realtà politico-sociale. Venuti meno il prestigio e la portata universale riconosciuti da parte dei credenti, la Chiesa Cattolica cessa di essere, e di essere stimata, una totalità che ingloba al suo interno ogni particolarità.
Essa si scopre una parte, cioè un partito ed è costretta ad accettare il terreno di scontro, le modalità di organizzazione e gli strumenti di proselitismo tipici delle strutture politiche che, dopo i fermenti rivoluzionari della metà dell’Ottocento si erano via via costruiti.
La Chiesa Cattolica poteva vantare in questo settore un punto di partenza molto più avanzato rispetto agli altri partiti. Poteva, in altri termini, contare su una presenza articolata su scala europea, un legame ancora consolidato, sebbene in via di allentamento, con larghi strati della popolazione, in special modo con i contadini e, infine, un’ampia gamma di istituti di mediazione culturale, in primis, un ceto intellettuale diffuso e gerarchicamente strutturato.
L’Azione Cattolica rappresenta un ulteriore tassello di questa grandiosa opera di riconquista ideologica che l’episcopato intraprende per contrapporsi alla scristianizzazione delle società europee.
In una prima fase, l’Azione Cattolica ebbe, nel suo ruolo di paladina della Chiesa, come alleati i cattolici integralisti. Questo gruppo di orientamento ultraconservatore, fortemente avverso alle correnti moderniste cattoliche, galvanizzato dall’azione di Pio X, che nell’enciclica Pascendi Dominici Gregis, aveva condannato come eretico il movimento modernista, si coagulò intorno all’attività svolta da Monsignor Umberto Benigni. Questi diede vita a una organizzazione segreta denominata Sodalitium Pianum. Essa consisteva in una rete di censori che avevano l’obiettivo di contrastare la diffusione delle idee moderniste tra il clero. Nonostante i contrasti che essa suscitò all’interno della curia romana, l’organizzazione si diffuse in Europa e specialmente in Francia dove spesso ebbe come fiancheggiatrice l’Action française.
L’altra grande corrente ideologica presa in considerazione è quella gesuitica. L’ordine dei Gesuiti all’interno della Chiesa ha svolto, secondo il parere di Gramsci, una funzione «centrista» rispetto alle tendenze reazionarie degli integralisti e alle istanze democratiche e popolari dei modernisti. Gramsci mette in rilievo, dell’ordine dei Gesuiti, il ruolo intellettuale svolto per assicurare l’egemonia della Chiesa sulla società, la lotta per conquistare spazi sino ad allora preclusi alla diffusione del cristianesimo come l’Asia, l’attività di mediazione tra l’alta cultura, in particolare l’ambito scientifico, e la dottrina ufficiale della Chiesa, senza però mai abbandonare un atteggiamento di intransigente rifiuto del modernismo.
Caratteristica comune alle correnti sin qui prese in esame è il netto rifiuto della modernità percepita dalla Chiesa come un distruttivo attacco alla fede. Tuttavia, il processo storico proseguiva implacabile nella direzione di una continua e costante laicizzazione della società.
Ben presto alcuni gruppi si posero il problema dell’adeguatezza della cultura e degli schemi prevalenti all’interno della Chiesa. Questa riflessione condusse a un movimento di rinnovamento che rifiutava la rigida contrapposizione con il mondo secolare e postulava un nuovo approccio agli urgenti problemi dalle società contemporanee. Questi movimenti che si opponevano all’intransigentismo sorsero in Germania, Francia, Stati Uniti già nel corso della fine dell’Ottocento e trovarono adepti anche in Italia nei primi anni del Novecento. Figure prestigiose come E. Buonaiuti, S. Minocchi, P. G. Genocchi diedero vita al cosiddetto Modernismo, movimento fluido e articolato che avviò il rinnovamento degli studi biblici e storico-religiosi. I frutti di questo rinnovamento non tardarono a riversarsi anche sul terreno politico-sociale grazie all’opera di R. Murri che nella sua rivista Cultura Sociale si fece interprete di istanze di trasformazione in senso democratico-cristiano della presenza dei cattolici nelle istituzioni rappresentative, cercando di sgangiare le organizzazioni cattoliche impegnate nella vita politica dal rigido controllo della gerarchia ecclesiastica. Questo tentativo di adeguare la Chiesa cattolica alla cultura contemporanea produsse ben presto una reazione che culminò nell’enciclica Pascendi del 1907, ove il Modernismo fu accusato di essere una sintesi di tutte le eresie. Pio X in questa enciclica irrigidì le politiche intransigentiste del Vaticano assestandosi su posizioni fortemente antimoderniste. Gramsci guarda con attenzione al Modernismo, considerandolo il movimento cattolico-liberale del Novecento. Egli seguì con interesse crescente il movimento Democrazia Cristiana, fondato da Murri, il quale si diffuse soprattutto tra i contadini, staccando una considerevole parte di essi dalle posizioni conservatrici e avvicinandoli alle battagli sociali e rivendicative del mondo rurale vicino al Partito socialista. Nonostante la forte condanna della gerarchia ecclesiastica, Gramsci ritiene che il movimento modernista abbia operato nel profondo della Chiesa e abbia contribuito al suo rinnovamento attenuando l’influenza delle correnti reazionarie in essa presente, in special modo dei Gesuiti.





Angelo Chielli e Ioana Cristea Drăgulin
(n. 9, settembre 2021, anno XI)