|
|
Ion Andreescu, il pittore della malinconia. Un testo di Andrei Pleșu
Nato nel 1850 a Bucarest, Ion Andreescu è una delle figure più importanti della pittura romena del secondo Ottocento. Dopo aver frequentato l’Accademia di Belle Arti, fondata e diretta da Theodor Aman, nel 1878 si trasferisce a Parigi, continuando la sua formazione presso l’Accademia Julian, mentre d ’estate dipinge a Barbizon, dove conosce anche Nicolae Grigorescu. Quest’ultimo, considerato il fondatore della pittura romena moderna, si trovava a Parigi già dal 1861, e si era avvicinato all’impressionismo sperimentando la pittura en plein air già dalla seconda metà dello stesso decennio. Nonostante la formazione accademica, l’innegabile influenza della pittura impressionista, e la partecipazione all’attività di pittura en plein air dei Barbissonniers, il percorso artistico di Andreescu si sviluppa in modo completamente autonomo rispetto agli altri artisti della sua generazione. Andreescu muore prematuramente nel 1882 di tubercolosi, senza riconoscimento pubblico del suo talento.
La figura di Ion Andreescu ha ricevuto ai giorni nostri l'attenzione di Andrei Pleșu, che nel suo Pitoresc și melancolie. O analiză a sentimentului naturii în cultura europeană (Humanitas, București 1992), libro in cui viene ripercorsa l’evoluzione della pittura di paesaggio nella storia e nella teoria dell’arte europea, dedica ampio spazio proprio ad Andreescu, l’unico pittore romeno che riceve una trattazione a sé, poiché in tale opera Pleșu riconosce due caratteristiche fondamentali: la malinconia e una percezione della natura che va oltre il semplice dato estetico e fenomenico.
Il fatto assume particolare rilievo se si considera che, complessivamente, Andreescu non ha goduto di una particolare attenzione da parte della bibliografia romena, nonostante sia stato successivamente riconosciuto come uno dei più importanti pittori romeni moderni e sia l’unico pittore romeno ad avere un catalogo ragionato (curato da Radu Bogdan e pubblicato dalle Edizioni Meridiane nel 1969). Il ritratto che ne traccia Pleșu è comunque un’analisi atipica, quasi completamente scevra di informazioni relative alla vita dell’artista (viene menzionata solamente la sua morte prematura) e lontana quindi dai canoni dell’analisi storico-artistica: eppure il testo si presenta come uno dei più suggestivi finora prodotti.
L’elemento più interessante che Andrei Pleșu individua è forse la matericità dei paesaggi di Andreescu, definiti geologizzanti. L’elemento terreno si riverbera, secondo Pleșu, anche nella resa del cielo e degli altri elementi anche umani. «Il terreno, pesante massa organica, è categoricamente la vocazione assoluta di Andreescu, la chiave del suo talento». Andreescu viene quindi inserito nel novero dei «veri» paesaggisti, cioè di coloro che sono riusciti a rendere in pittura il dato tattile della natura: Mantegna, Constable, Corot, Courber, Cézanne. Le opere di Andreescu – essenziali, aride, materiche, ma non per questo meno sentimentali – sono la testimonianza della sua visione della natura. Pleșu ammira il fatto che il paesaggismo di Andreescu non cada nella retorica dell’idillio bucolico, definita – nel testo romeno – «retorica sămănătoristă», con riferimento ad una corrente ideologico-letteraria che si affermò in Romania all’inizio del XX secolo, e che deve il proprio nome alla rivista «Sămănătorul», che accusava la corruzione morale della città contrapponendola alla purezza idilliaca del villaggio patriarcale, considerando i contadini i depositari esclusivi dei valori nazionali. Andrei Pleșu contrappone la pittura di Ion Andreescu a quella di uno dei grandi autori romeni, Nicolae Grigorescu: se in quest’ultimo prevale una visione idillica della Romania rurale, il primo si sforza invece di trovare «l’equivalente plastico di una malinconia che ci è propria». In uno dei passaggi più evocativi del testo di Pleșu, le foreste di Andreescu vengono confrontate con le parole di Nicolae Iorga, diventando l’equivalente visivo del sentimento di un popolo che prende consapevolezza di discendere dai daci sconfitti anziché dai vittoriosi romani.
Di seguito, in traduzione italiana, alcuni passaggi del capitolo «Melancolia lui Andreescu și pământul stigia» in Pitoresc și melancolie di Andrei Pleșu.
Andreescu e la malinconia
«Andreescu non è un adoratore francescano della natura (nel modo di Grigorescu), ma neanche un cittadino glaciale, privo di ogni nostalgia pastorale. È piuttosto a metà strada, lontano da entrambi gli estremi. È interessato alla natura, e tuttavia lontano da questa. L’interesse di Andreescu per la natura è l’interesse per la natura di una qualsiasi sensibilità daimonica, disposta a mettere tutto in gioco per decifrare il mistero del mondo circostante. La distanza di Andreescu dalla natura è, da una parte, il distacco del genio da ogni cosa e, dall’altra, il distacco dell’uomo consapevole della propria morte imminente. Destinato a scomparire a 32 anni, Andreescu avrà vissuto, certamente, cosciente o meno, sotto la pallida stella di questo limite. La sua esistenza non è stata un passaggio nel mondo, bensì una tangenza con la sua circonferenza, una partenza dal mondo. Il suo amore per la natura non poteva essere, di conseguenza, che quello di un personaggio nato per abbandonarla. L’amore di un malinconico. […] Andreescu è lontano da ogni svenevolezza sentimentale, da ogni sognante tristezza. Fugge da quella retorica dell’idillio bucolico alla quale soccombono spesso le discussioni sul sentimento della natura nel paesaggismo. […]. Ciò che egli può dirci sull’universo visibile non ha la gratuità di un grazioso estetismo, ma la seriosità di un corpo di verità, tanto categoriche come le verità delle scienze naturali, ma di un altro ordine: i limitari di villaggi, i boschi spogli, i gruppi di alberi parlano, per mezzo della loro semplice presenza (resa plasticamente tramite un’austerità del procedimento del tutto inusuale), dei rapporti misteriosi fra il terrestre e il vegetale, fra il vegetale e il celeste, fra i ritmi animali e quelli cosmici. Andreescu medita sulle ipostasi pre-invernali e germinative della natura, sulle essenze collettive dei boschi in contrasto con la solitudine geologica delle rocce, sulla verticalità orgogliosa dell’albero in contrasto con l’infinita orizzontalità della pianura. Lo spazio della plastica di Andreescu ha tutti gli attributi dello spazio metafisico, dello spazio-problema, sulla cui superficie si risolvono, di attimo in attimo, complicate equazioni pitagoriche…
Ma come si costituisce, concretamente, questo spazio? Per rispondere è necessario concederci un breve preambolo tecnico. Di solito, in pittura, secondo una legge che André Lhote aveva chiamato “delle invarianti plastiche”, ma che Adolf von Hildebrandt aveva intuito, in una forma particolare, già alla fine del XIX secolo, non si può optare contemporaneamente per la rappresentazione dei valori ottici e dei valori tattili degli oggetti. I primi presuppongono una visione distaccata, gli altri una visione ravvicinata. Ma, Andreescu, dall’altezza del suo talento, trascende questa legge, offrendoci una spettacolare sintesi di vicinanza e lontananza, di ottico e tattile, di profondità spaziale e densità materiale. Lo spazio della plastica di Andreescu, è stato osservato (da Radu Bogdan, N.d.T.), è spalancato verso orizzonti illimitati. E tuttavia, contrariamente agli impressionisti, non è uno spazio in cui, la luce, concentrandosi, divora le forme. In Andreescu, la lontananza non dissolve la sostanza del mondo, ma anzi la pietrifica. Gli sono caratteristiche: una schiettezza quasi toscana del tocco, una regia estremamente severa del gesto, una coerenza della forma e una condensazione della materia del tutto estranee al paesaggismo contemporaneo, simil-impressionista. Non esiste, nella storia della pittura romena, una combinazione tanto insolita di forme estremamente saturate e spazi estremamente aperti, di consistenze assolute e ineffabile dissoluzione atmosferica come nella pittura di Andreescu. […].
Ma la melanconia non è altro, secondo la nostra definizione, che la simultanea percezione dell’eternità e della deperibilità delle cose, della loro solidità inviolabile unita ad un’estrema fragilità, della loro distanza e, allo stesso tempo, della loro vicinanza al nostro pensiero. Ci sarebbe da parlare anche dei “monocromi” di Andreescu o dell’immobilità quasi soprannaturale dei suoi paesaggi. Questi non sembrano solo registrazioni di uno spettacolo naturale presente, ma, nella stessa misura, suggestioni di un’indicibile assenza, che passa sopra i campi e i boschi come una glaciazione. Indubbiamente, Ion Andreescu è il primo, e forse l’unico nella nostra (romena, N.d.T) storia dell’arte, determinato a trovare l’equivalente plastico di una malinconia che ci è propria almeno quanto i nostri, spesso troppo invocati, doni conviviali. Sappiamo bene che esiste una visione idilliaca della Romania, il cui repertorio si è banalizzato fino all’esasperazione: colli fertili, balli allegri, nostalgia, umanità, ospitalità, senso della misura, buona volontà, Vasile Alecsandri e George Coșbuc, Nicolae Grigorescu e Alexandru Vlahuță, etc. Tutte queste cose sono vere, sono importanti, ma non sono tutto. La Romania di Eminescu, come quella di Alecsandri, è più complessa e più solenne. È una Romania in cui si scherza meno e si fa di più, una Romania in cui non è più possibile incontrare a ogni piè sospinto il mondo da commedia di Ion Luca Caragiale, una Romania con più senso della responsabilità e dell’onore nazionale. In breve, una terra in cui non ci si appella, ancora e ancora, agli antenati latini, secolarmente trionfatori; una terra su cui si distende la memoria degli antenati sconfitti, la malinconia della disfatta. È quella Romania a cui pensava, forse, Nicolae Iorga quando, viaggiando nel 1906 nella zona di Hațeg e percependo una persistente presenza dacica nelle foreste che traversava, si è espresso con queste emozionanti parole: “In nome degli dei pagani a cui vi siete prostrati invano, pace a voi, antenati sconfitti, che avete lasciato un’eredità di sfortune al popolo che discende da voi; al popolo che intorno alla città dell’indomito Decebalo ha vissuto in servitù fino a ieri, per non essere pienamente libero nello spirito neanche oggi, quando vi invoco nel sanguinoso mistero delle vostre foreste».
***
“Nient’altro che cielo e terra” – diceva in una lettera Scarlat Yarka, riguardo a alcuni paesaggi di Andreescu. Lo diceva con ammirazione, ma anche con un po’ di affettuoso dispiacere. Come poteva il pubblico desiderosi di soggetti divertenti essere soddisfatto con così poco? L’osservazione di Yarka esprime un’intuizione più profonda di quanto si potrebbe credere: l’intuizione dell’elementarità del mondo di Andreescu, ovvero della sua concentrazione sugli elementi cardinali; e non su tutti e quattro gli elementi conosciuti, ma solamente su due fra questi: cielo (aria) e terra. Con quelle cominciò, in effetti, la nascita del mondo. Il fuoco non compare mai in Andreescu: né il fuoco metaforico della retorica, del pathos teatrale, né quello – immediato – della luce o del calore. Andreescu non è “caldo” e non è “luminoso”. L’acqua, allo stesso modo, è pochissima nel suo universo. Diversamente dagli impressionisti, che avevano fatto del baluginare dell’acqua un motivo prediletto, Andreescu non accorda alla fluidità che il minimo necessario: alcune macchie – accettate per motivi strettamente composizionali – in Paisajul cu arbori del Museo Brukenthal e alcuni riflessi in Mesteceni la marginea bălții o in După ploaie e, infine – una vera eccezione nella sua pittura –, la trasparenza liquida di La marginea bălții. Per il resto l’acqua non appare più, tranne forse nel bicchiere con i giacinti rosa del periodo iniziale della sua attività artistica… Preferisce più spesso – fatto degno di nota – la variante condensata, solida dell’acqua: la neve (vedi Iarna, Iarna în pădure, Iarna în marginea Barbizonului, Iarna la Barbizon). Essendo, come dicevamo, un artista piuttosto freddo e amante della luce flebile, un artista che non conosce il fascino del romantico “ardore” o dell’atmosfera impressionista, Andreescu è, allo stesso modo, per il suo spontaneo distacco dall’elemento acquatico, un artista arido, interessato più all’ossatura della natura che ai suoi umori liquidi. Quanto al cielo, anche se predomina quantitativamente sulla terra in tutte le opere dell’artista, le rimane esteticamente subordinato; rispetto all’applicazione voluttuosa con cui il pittore costruisce la volumetria del suolo in quadri come Pădure desfrunzită, Pădure de fagi, Interior de pădure, Margine de padure, copaci per colină, il modo in cui tratta il cielo rimane spesso essenziale o, in ogni caso, aspecifico. Scarlet Yarka non avrebbe sbagliato se avesse detto “Nient’altro che terra…”.
Tuttavia nulla è più difficile da comprendere e dipingere della terra e, in generale, delle consistenze della natura. Poiché nulla è più innaturale. La riproduzione della terra è pietra di paragone per ogni paesaggista, così come la comprensione della materia è pietra di paragone del filosofo. […] Qualcuno una volta osservò che nella storia dell’arte esistono relativamente pochi paesaggi montani. In effetti, appaiono in alcuni classicisti dell’area tedesca (in Koch, ad esempio), e poi in alcuni rappresentanti della scuola di Düsseldorf, in Friedrich, o in Cézanne. Lasciamo da parte l’apparizione, già dal Rinascimento, di monti come fondale vago. È tuttavia vero che i monti, come supremo indurimento della terra, portano troppa materia nel paesaggio e chiudono con una certa brutalità l’orizzonte. Intorno a loro tutto sembra mineralizzarsi. La luce invece diventa tagliente e cristallina. I paesaggi montani emanano una glacialità che difficilmente l’immaginazione potrebbe superare e che per un pittore è una sfida estremamente difficile. Il paesaggio geologizzante è solitamente molto ambizioso e le buone riuscite si contano sulle dita: Mantegna, Constable, Corot, Courber, Cézanne, Andreescu.
Il terreno, pesante massa organica, è categoricamente la vocazione assoluta di Andreescu, la chiave del suo talento».
Andrei Pleşu
A cura e traduzione di Anita Paolicchi
(n. 2, febbraio 2016, anno VI)
|
|