Andrei Oişteanu, «Le droghe nella cultura romena. Storia, religione e letteratura» (I)

Andrei Oişteanu (n. 1948) è stato ricercatore presso l’Istituto di Storia delle Religioni (Academia Română) e professore associato all’Università di Bucarest. I suoi campi di ricerca prediletti sono l’etnologia, l’antropologia culturale, la storia delle religioni e delle mentalità. Autore di importanti monografie e saggi su temi “scottanti” come l’antisemitismo, le droghe o la sessualità nella cultura moderna (alcuni dei quali pubblicati in vari Paesi), è stato tra l’altro insignito dell’onorificenza di Commendatore dell’Ordine della Stella della Solidarietà Italiana conferitagli nel 2005 dal presidente Carlo Azeglio Ciampi.
In italiano sono usciti finora i suoi volumi Il diluvio, il drago e il labirinto. Studi di magia e mitologia europea comparata (Fiorini, Verona 2008) e L’immagine dell’ebreo. Stereotipi antisemiti nella cultura romena e dell’Europa centro-orientale (Belforte, Livorno 2018).



Pubblicato per la prima volta nel 2010, il volume Narcotice în cultura română. Istorie, religie și literatură è giunto nel 2019 alla quarta edizione (riveduta, ampliata e illustrata), pubblicata, unitamente altre opere di Oișteanu, dalla casa editrice Polirom. Di questo lavoro – insignito, peraltro, con il Premio speciale dell’Unione degli Scrittori di Romania e tradotto in tedesco (Rauschgift in der rumänischer Kultur: Geschichte, Religion un Literatur, tr. Julia Richter, Frank&Timme Verlag, Berlin 2013) – abbiamo selezionato e tradotto in italiano alcuni frammenti, pubblicati a partire dal numero corrente (12/2021) della nostra rivista
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Prefazione a
Le droghe nella cultura romena. Storia, religione e letteratura



Di solito, i libri che descrivono le esperienze con sostanze narcotiche e stupefacenti iniziano in modo piuttosto difensivo, con una sorta di scusa, di giustificazione, un’avvertenza o comunque con la formulazione di alcune riserve da parte del curatore o dell’autore. Autore che, talvolta, si cela dietro uno pseudonimo.
Nel 1821, ad esempio, Thomas De Quincey iniziava le sue confessioni di oppiomane giustificandosi con il «cortese lettore» e scusandosi per essere andato oltre «quel delicato, dignitoso riserbo, che per lo più ci trattiene dall’esporre in pubblico i nostri errori e le nostre debolezze». Seguono pagine intere di tentativi di discolpa: «La mia autoaccusa non porta all’ammissione di una colpa», e «l’infermità e la miseria non significano di necessità una colpa». Ma se anche si trattasse di una colpa, concludeva il romantico inglese, essa sarebbe abbondantemente compensata dal «bene derivante ad altri dal racconto di un’esperienza fatta a così caro prezzo», di dolore e sconfitta personale. De Quincey temeva che le sue confessioni avrebbero portato a uno sconvolgimento della «sensibilità inglese». E questo perché, attraverso le sue Confessioni, egli avrebbe «strappato quel “pietoso velo”» che cela lo spettacolo di chi rivela al mondo le proprie «cicatrici morali» (Confessions of an English Opium-Eater, 1822) [1]. Il poeta romantico inglese adoperò tutte queste giustificazioni e spiegazioni difensive nelle circostanze in cui, in un primo momento, nel 1821, pubblicò anonimamente il suo lavoro su «London Magazine». Solo il testo pubblicato in volume nel 1822 conteneva sulla copertina il nome dell’autore.
A rischiare di essere oltraggiata non era solo la «sensibilità inglese» di quei tempi, ma anche quella «borghese» in generale. Alcuni decenni dopo, Charles Baudelaire esordiva nelle sue confessioni di oppiomane citando proprio alcune delle summenzionate scusanti espresse da Thomas De Quincey. Nell’oppiomania non c’è crimine (spiegava Baudelaire al borghese qualunque), «c’è soltanto debolezza, e una debolezza per di più così facile da scusare!». «Il beneficio che traggono gli altri dagli appunti di un’esperienza comperata a così caro prezzo – concludeva il poeta francese, sulle orme di De Quincey – può largamente compensare la violenza fatta al pudore morale e creare un’eccezione legittima» (Les Paradis artificiels, 1860) [2]. Baudelaire traspose in francese le Confessioni di Thomas De Quincey, ma quel lavoro era stato tradotto (e adattato) fin dal 1828 da uno scrittore francese che aveva protetto la propria identità dietro tre iniziali: A.D.M. In seguito si scoprì che si trattava del giovane poeta romantico Alfred de Musset.
A sua volta, il poeta oppiomane Jean Cocteau, rendendo pubbliche le sue crisi di astinenza e la sofferenza au ralenti, apriva il suo diario di disintossicazione dichiarando di sentirsi come un accusato davanti a un tribunale dell’Inquisizione: «Qui vedo il pubblico ministero che si accinge a prendere la parola. Solo che io non testimonio. Non peroro. Non giudico. Deposito solo prove incriminanti e discolpanti nel dossier del processo all’oppio» (Opium. Journal d’une désintoxication, 1930) [3]. Eppure, alla fine Jean Cocteau diede il suo verdetto nella forma di una semi-indulgenza: fumare oppio non sarebbe necessariamente un crimine. «L’unico crimine è essere superficiali», scrive Cocteau citando un altro poeta amante dell’oppio, Oscar Wilde (De profundis, 1897). 
Talvolta, a mettere le mani avanti non è solo dall’autore, ma anche il curatore. Il beatnik William S. Burroughs si è tutelato pubblicando sotto lo pseudonimo William Lee il romanzo sulla sua vita di morfinomane (Junky. Confessions of an Unredeemed Drug Addict, 1953). Il curatore ha avvertito ugualmente l’esigenza di mettersi al riparo, introducendo persino nel testo (cosa poco usuale) delle note con cui prendeva le distanze dalle affermazioni dell’autore. Ancor di più, dichiarava di farlo per tutelare il lettore: «A tutela del lettore, ho inserito fra parentesi delle note che indicano i passi in cui l’autore si allontana dalle opinioni mediche generalmente accettate o in cui fa altre dichiarazioni prive di fondamento nel tentativo di giustificare le proprie azioni» [4]. Nelle edizioni successive del libro, divenuto nel frattempo un libro di riferimento, i curatori hanno rinunciato sia all’avvertenza che alle note. E l’autore ha abbandonato lo pseudonimo [5].
Ecco pure l’avvertenza di un curatore francese all’inizio di un’antologia letterario-artistica, del 1997, sul tema del fumo: «La presente antologia non costituisce un’apologia del tabacco né un incitamento a usarlo. In realtà, l’utilizzo del tabacco crea danni alla salute dei fumatori e a quella di chi sta loro intorno, ecc.» [6]. Ai nostri giorni, nei libri che riflettono un atteggiamento più aperto sulla «cultura delle droghe», il curatore si sente obbligato a includere nella prefazione al volume un avvertimento categorico sulla legislazione proibitiva in vigore. Troviamo, ad esempio, una simile avvertenza editoriale in un volume sulla cultura psichedelica della cannabis, pubblicato negli Stati Uniti nel 2003: «Negli Stati Uniti d’America, la coltivazione, il possesso e lo spaccio di cannabis sono reati penali punibili con la detenzione. L’editore non intende incoraggiare la coltivazione, il possesso o l’uso della cannabis. La pubblicazione del libro ha una finalità meramente informativa» [7].
Infine, prendiamo anche un campione dalla letteratura romena contemporanea. Radu Paraschivescu ironicamente pone in esergo al suo romanzo Balul fantomelor [Il ballo dei fantasmi] (2000) un testo scritto nell’arido linguaggio del Codice Penale: «La produzione, la detenzione o qualsiasi azione relativa alla circolazione di prodotti o sostanze stupefacenti o tossiche, la coltivazione ai fini della lavorazione delle piante che contengono tali sostanze o la sperimentazione di prodotti o sostanze tossiche, tutto ciò senza alcun diritto, è punito con la reclusione dai tre ai cinque anni e l’interdizione di alcuni diritti» (Cod Penal, art. 312) [8].

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Sarebbe forse il caso che anche il presente lavoro iniziasse con la formulazione di alcune riserve. Se non delle vere e proprie riserve, alcune spiegazioni sarebbero, credo, benvenute. Più di trent’anni fa, nel 1988, pubblicavo sulla «Revista de istorie și teorie literară» uno studio sull’uso delle piante narcotiche e allucinogene nello spazio carpato-danubiano [9]. Guidato dall’interesse per l’impiego delle piante psicotrope, a fini religiosi e magico-rituali, da parte della popolazione autoctona, ricercavo le testimonianze storiche, etnologiche e storico-religiose sull’argomento, dall’età antica fino all’epoca pre-moderna.
Non occorre insistere sulle ragioni per cui un tema del genere fosse proibito negli anni Ottanta, durante il regime comunista. Sia la religione, «oppio per il popolo» (Karl Marx, 1843), sia l’oppio stesso, erano messi all’indice. Discutere di una cosa vietata era pure vietato. Per non attirare l’attenzione degli organi della censura comunista – rigorosi, coscienziosi, ma anche molto spesso stupidi –, avevo scelto un titolo molto neutro. Un titolo da cui non risultasse che si trattava dell’uso delle droghe da parte degli autoctoni e ancor meno nell’ambito dei rituali magico-religiosi. Sicché, per il titolo non scelsi l’allarmante espressione «piante narcotiche e allucinogene», bensì una dallo stesso valore semantico ma assai meno usuale: «piante psicotrope».
In genere, gli etnologi romeni hanno eluso il tema dell’uso delle droghe nelle società arcaiche e tradizionali. Secondo la propaganda nazional-comunista (in parte anche quella pre- e post-comunista), i Geto-Daci erano uomini giusti, coraggiosi, operosi e morali. Avulsa dal contesto, la nota affermazione di Erodoto («I Geti sono i più valorosi e giusti fra i Traci») era divenuta uno slogan del nazional-comunismo. Le informazioni documentarie sulle fumigazioni con piante stupefacenti, i sacrifici umani, le superstizioni pagane e altri malcostumi e difetti considerati strani dovevano essere occultati o marginalizzati perché rovinavano il profilo morale dell’antenato.
Il tema era tabù non solo a causa di alcune vaghe e sterili mentalità nazional-comuniste, ma anche a causa di un modo inadeguato con cui lo studioso si rapportava al fenomeno in questione. Mi riferisco innanzitutto alla difficoltà dei ricercatori romeni (a volte anche di quelli stranieri) di distaccarsi dalle coordinate etiche della nostra epoca, un’epoca, in verità, profondamente segnata dal flagello della tossicodipendenza. Orbene, nel caso degli studi di antropologia culturale, la disamina delle mentalità arcaiche in base a criteri etici è inadeguata, soprattutto quando vengono impiegati criteri morali contemporanei allo studioso, e non alle mentalità studiate. Semplificando, è come se uno storico delle religioni studiasse, ad esempio, i sacrifici umani praticati da una popolazione antica facendo considerazioni circa l’immoralità dell’uccisione di uomini innocenti. Ciononostante, nel presente saggio non ho abbandonato completamente la prospettiva etica. Essa ha la sua importanza in uno studio di storia delle idee e di evoluzione delle mentalità. Solo che a essere dominante nel corso del libro non è stata la prospettiva morale.
Per quanto riguarda la prima sezione del lavoro, sono convinto che lo studio senza pregiudizi del tema in questione giovi non solo a una migliore conoscenza della botanica popolare e del folclore medico romeno, ma anche alla delucidazione di alcuni aspetti poco noti di magia, mitologia popolare e storia delle religioni nello spazio culturale romeno.

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Negli ultimi anni ho esteso la ricerca sull’utilizzo delle droghe nello spazio romeno al modo in cui alcuni intellettuali, scrittori e artisti dell’epoca moderna e contemporanea si sono relazionati a varie piante e sostanze psicotrope. I casi sono molteplici e svariati. Dagli eruditi che hanno studiato l’uso dei rimedi stupefacenti in Oriente (Nicolae Milescu Spătarul, Dimitrie Cantemir, J.M. Honigberger, Mircea Eliade) agli scrittori che si sono suicidati utilizzando oppiacei (Daniil Scavinschi, Alexandru Odobescu); dai letterati che hanno fatto uso di droghe per ragioni mediche (il caso di Eminescu e di Odobescu) a coloro che le hanno utilizzate in cerca dei «paradisi artificiali» (Alexandru Macedonski); dai poeti che hanno assunto stupefacenti per nutrire l’immaginazione e stimolare la creatività (Tristan Tzara, Ion Barbu e altri), fino a coloro che hanno usato la carica simbolica dei nomi delle droghe per rafforzare il proprio messaggio poetico (Geo Bogza, Sașa Pană, Victor Brauner); dagli studiosi che hanno sperimentato gli effetti delle sostanze psichedeliche su sé stessi o su altri soggetti, al fine di migliorare le conoscenze neuropsichiatriche (Nicolae Leon, Eduard Pamfil, Gh. Marinescu), fino a quanti hanno studiato l’impiego delle piante psicotrope nel quadro delle manifestazioni religiose e mitico-rituali (Mircea Eliade, I.P. Culianu); dai romanzieri i cui personaggi assumono sostanze stupefacenti (Mateiu Caragiale, Henriette Yvonne Stahl, Mircea Cărtărescu, Alexandru Vakulovski e altri), fino agli scrittori che raccontano e analizzano le proprie esperienze con le droghe (Andrei Codrescu, Alin Fumurescu, Dragoș Bucurenci). Certo, vi sono intellettuali che rientrano non solo in una, ma in due o tre delle categorie sopra menzionate.
E proprio in questo libro sono stato più generoso del solito per quanto riguarda il numero e la lunghezza delle citazioni. L’ho fatto deliberatamente per supplire, sia pure in parte, alla scarsità della bibliografia in lingua romena concernente l’uso delle sostanze stupefacenti. L’ho fatto anche per presentare al lettore le stesse parole e metafore impiegate da quanti, in un modo o un altro, hanno avuto a che fare con le piante e le sostanze psicotrope. Nella descrizione degli effetti delle droghe, il linguaggio è un fattore essenziale.
Nel titolo e nel corso del lavoro ho usato il termine narcotic [droga] in un senso generico, con valenza semantica molto ampia. Praticamente, per «droga» intento qualunque pianta/sostanza attiva che modifichi lo stato psico-mentale (Altered State of Mind o Altered State of Consciousness), dalle più «innocenti» piante stimolanti (tabacco, caffè, tè ecc.) fino alle più potenti sostanze allucinogene e psichedeliche (oppio, mescalina, LSD ecc.). In un lavoro ormai classico (Phantastica.  Die betäubenden und erregenden Genußmittel, Berlino, 1924), il farmacista tedesco Louis Lewin ha classificato le piante e le sostanze psicotrope in base agli effetti che producono. Lewin ha proposto cinque categorie: Euphorica (oppio e derivati: morfina, eroina; cocaina ecc.), Phantastica (peyote – mescalina, Cannabis indica ecc.), Inebriantia (alcol, etere, cloroformo ecc.), Hypnotica (veronal, cloral, bromuro ecc.) ed Excitantia (tabacco, caffè, tè, canfora, betel e così via) [10]. Nonostante i limiti inerenti l’epoca, questa classificazione – mutatis mutandis – è rimasta in buona misura in vigore. A ogni modo, i trattati seri di tossicologia e le enciclopedie di piante e sostanze psicoattive si riferiscono anche agli effetti fausti e infausti dell’alcol, del tabacco, del caffè e del tè. Il fatto che queste droghe siano oggi legali non le rende meno stupefacenti.
In questa nuova edizione del libro ho aumentato il numero di illustrazioni, ho rivisto alcuni capitoli e ho apportato delle aggiunte, talvolta sostanziali. I numeri fra parentesi rinviano alle note bibliografiche finali, quelle indicate in italici e grassetto si riferiscono alle note-commenti.

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In un testo del 2003, intitolato C’è bisogno ancora di biografie?, Mircea Cărtărescu – sconcertato dalle «biografie standardizzate e falsificate» degli scrittori romeni –, scriveva: «La biografia degli autori era noiosa e difficile da sopportare nelle storie della letteratura classiche non solo a causa dell’accumulo sterile di date, ma anche della sensazione che ti venisse venduta una messinscena, sensazione che ho provato tante volte come alunno mentre ascoltavo lezioni sulla grandiosità olimpica di Odobescu (senza che venisse proferita una parola sul suo suicidio per amore e sulla sua morfinodipendenza)» [11].
Non mi sono proposto, in questa sede, di enfatizzare un certo «biografismo». Non si tratta di esaminare in quale misura ogni particolare biografico dello scrittore sia riflesso nell’opera o l’abbia influenzata. Il consumo di sostanze psicotrope non è solo un semplice «dettaglio biografico». Di norma, le droghe modificano lo stato neuropsichico dello scrittore e, spesso, ne segnano in modo sostanziale vita e opera.
A rendere difficile la documentazione è stata in primo luogo l’eccessiva tabuizzazione del tema dell’utilizzo delle sostanze stupefacenti e la conseguente esiguità di ricerche di questo genere sulla cultura romena. In secondo luogo, le esperienze degli scrittori e degli artisti con le droghe sono state considerate (da essi stessi, ma anche da parenti, amici e talvolta dagli storici della letteratura) alla stregua di segreti più o meno riservati. In queste condizioni, le tracce lasciate sono di solito scarsissime: esse si trovano all’interno di qualche lettera, di una pagina di diario, in un verso smarrito, nei vizi di qualche personaggio e così via.
Nella seconda sezione del libro ho esaminato il fenomeno nella prospettiva della storia della letteratura, della cultura e delle mentalità, e non nell’ottica della morale. Nemmeno il lato giuridico del fenomeno è stato al centro delle mie ricerche. L’aspetto morale mi ha interessato nella misura in cui la prospettiva etica degli scrittori di cui tratto si è modificata nel tempo. Ma non mi sono proposto di incriminare o colpevolizzare questo genere di comportamenti. È un libro di storia della cultura, non un testo da distribuire nelle scuole per scoraggiare il flagello della tossicodipendenza. Non voglio dire che libri del genere non siano necessari; lo sono moltissimo. Solo che il presente lavoro non affronta il tema in tale prospettiva.
Infine, nell’ultima sezione del volume, l’Addenda, ho incluso alcuni testi tematici inediti o meno conosciuti che commento nel corso del libro. Sono testi firmati da Simeon Florea Marian (testo scritto intorno al 1904-1906), Mircea Eliade (1938-1939), Ioan Petru Culianu (1984) e Mircea Cărtărescu (2009).

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Mi fa piacere menzionare qui, all’inizio del volume, le istituzioni e le persone che mi hanno sostenuto in vari modi nel corso della mia ricerca negli ultimi anni.
Un particolare ringraziamento va all’Istituto di Storia delle Religioni (direttori Andrei Pleșu, 2008-2010, e, in seguito, Dan Berindei, 2010-2018) presso l’Accademia Romena, alla Biblioteca dell’Accademia Romena (capo dipartimento Măriuca Stanciu), al Museo Nazionale d’Arte della Romania, al Museo Nazionale della Letteratura Romena. Ringrazio i detentori di diritti, i collezionisti privati, i musei e gli archivi dalle cui collezioni provengono alcune delle illustrazioni presenti in questo volume.
Ringrazio inoltre i colleghi e gli amici che, in un modo o in un altro, mi hanno sostenuto nel corso della ricerca e della redazione del volume: Mirel Bănică, Octavian Buda (professore di Storia della medicina presso l’Università di Medicina e Farmacia «Carol Davila» di Bucarest), Mircea Cărtărescu, Paul Cernat, Marius Chivu, Eugen Ciurtin, Simona Cioculescu, Andrei Cornea (per la traduzione di alcuni testi dal greco antico), Tereza Culianu-Petrescu (il redattore del libro, per il supporto costante offerto nella preparazione di questo volume), Ioana Diaconescu, Amana Ferro, Șerban Foarță, Dadi Iancu (per il permesso di pubblicare i disegni di Marcel Iancu), Mac Linscott Ricketts, Florin Pădurean (per l’aiuto profuso nell’illustrazione del libro), Dan Petrescu, Carmen Popescu, Mihaela Timuș, Ion Vianu, Ioana Vlasiu, Marian Voicu.






Andrei Oișteanu
Traduzione a cura di Horia Corneliu Cicortaș
(n. 12, dicembre 2021, anno XI)



NOTE

Avvertenza: per le opere straniere citate dall’autore, disponibili in traduzione italiana, i riferimenti bibliografici sono tratti dalle edizioni italiane indicate (N.d.C.).

[1] Thomas De Quincey, Confessioni di un oppiomane, introduzione di Giovanni Giudici, a cura di Filippo Donini, Einaudi, Torino 1990, pp. 3-4.  
[2] Charles Baudelaire, I paradisi artificiali, in Id., Opere, a cura di Giovanni Raboni, Mondadori Milano 1996, p. 597.
[3] Jean Cocteau, Oppio. Diario di una disintossicazione, tr. it. Renata Debenedetti, SE, Milano 2020.
[4] Marcus Boon, The Road of Excess: A History of Writers on Drugs, Harvard University Press, London – Cambridge (Massachusetts), 2002, p. 1.
[5] William S. Burroughs, La scimmia sulla schiena, introd. di Fernanda Pivano, tr. it. di Bruno Oddera, Rizzoli, Milano 1962.
[6] Aa.Vv., Smoking. Anthologie illustrée des plaisirs de fumer, recherche documentaire Thomas Théry, Les Éditions Textuel, Paris 1997, p. 2.
[7] Nick Jones, Spliffs: A Celebration of Cannabis Culture, prefazione di Howard Marks, Black Dog & Leventhal Publishers, New York 2003, p. 4.
[8] Radu Paraschivescu, Balul fantomelor, RAO, București 2000 (seconda edizione: Humanitas, București 2009).
[9] Andrei Oișteanu, Mătrăguna și alte plante psihotrope, «Revista de istorie și teorie literară», n. 3-4, 1988, pp. 134-146. All’inizio degli anni ‘90 ho pubblicato su questo tema due studi in pubblicazioni in lingua francese: L’utilisation des plantes narcotiques et halluginogènes par les Géto-Daces et les Roumains, in «Études et documents balcaniques et Méditerranéenes», vol. 15, Paris, 1990, pp. 104-112; e Plantes narcotiques et halluginogènes dans la société traditionelle roumaine, «Asclepeios. Acta medica empirica», n. 4, Bruxelles 1993, pp. 53-58.
[10] Louis Lewin, Phantastika, 3 voll., presentazione di Daniel S. Worthon, Savelli Editori, Roma 1981 (riproduzione anastatica della prima edizione italiana: Phantastica, trad. Alessandro Clerici, Vallardi, Milano 1928).
[11] Mircea Cărtărescu, Pururi tânăr, înfășurat în pixeli (din periodice), Humanitas, București 2003, pp. 95-99.