Ruolo e immagine della letteratura al giorno d’oggi. Cambiamenti e tendenze

Quali ruoli ricopre e quali funzioni assolve la scrittura letteraria nel frangente storico che stiamo vivendo? La letteratura può ancora reputarsi lo specchio di una società in un tempo definito? E ancora: come è cambiata l’immagine della letteratura nell’era della comunicazione digitale? Quali valenze assume ai nostri giorni il rapporto tra rete, editoria e la tradizionale «repubblica delle lettere»? E come si presenta oggi la dinamica dei processi di circolazione, apprendimento e insegnamento della letteratura?
Tanti e discordanti pareri costellano una riflessione che ha animato un dibattito quanto mai vivace e dalle risultanze inattese. Ai nostri quesiti hanno risposto cinquanta scrittori e critici italiani, nell’ambito delle serie Incontri critici, Scrittori per lo Strega e Femminile plurale, Tutti i contributi sono riuniti nello spazio appositamente dedicato a questa ampia inchiesta.


La visione di Francesco De Sanctis

Francesco De Sanctis scrisse nell’Ottocento che la letteratura di una nazione costituisce una «sintesi organica dell'anima e del pensiero d'un popolo». La sua visione è ancora viva ed attuale, è ancora condivisibile?
Claudia Boscolo, pare sintetizzare le molteplici sfumature di pensiero espresse durante le  conversazioni intrattenute con esponenti del variegato mondo della Letteratura, rispondendo: «Questa domanda è molto importante, perché il pensiero e l’opera di De Sanctis sono ancora oggi rilevanti, ma le condizioni storiche del paese sono radicalmente cambiate. De Sanctis parlava della funzione della letteratura in una Italia che aveva da poco realizzato l’unità nazionale, e che quindi aveva estremo bisogno di una base comune in cui riconoscersi, linguisticamente e culturalmente. Non si può dire lo stesso dell’Italia contemporanea, un paese che vive una lacerazione politica senza precedenti e in cui la dimensione culturale è afflitta da logiche editoriali neo-liberiste che inquinano il dibattito intellettuale e inficiano proprio quella valenza della letteratura come “sintesi organica” di anima e pensiero. Non esiste ora, se mai è esistito (la retorica risorgimentale sta attraversando una fase di ridimensionamento) un popolo italiano, e anche ammesso che si possa ancora parlare di “popolo”, di certo non si riconosce in modo omogeneo in una letteratura nazionale (o nazional-popolare, se vogliamo usare ancora la categoria gramsciana).
Sono invece riconoscibili diversi gruppi sociali, alcuni dei quali interessati a una propria auto-rappresentazione, altri indifferenti alla rappresentazione che di loro viene fornita dagli autori italiani. Prendiamo, ad esempio, la corrente di scrittura ecologista che sta conoscendo attualmente un momento fortunato. Si tratta per lo più di testi divulgativi, incentrati sulla retorica della natura come elemento salvifico e scritti solitamente da autori con un retroterra scientifico. Quale sintesi organica offre questa letteratura? Si rivolge a un ceto medio cittadino che ha scarsa dimestichezza con gli ambienti “naturali” e in generale con l’ecologia militante.
Oppure pensiamo alla produzione che registra il picco massimo di vendite, cioè il romanzo che noi studiosi ancora facciamo ricadere nel sottogenere psicologico, vicende di famiglie borghesi all’interno delle quali avvengono drammi di diversa natura, a volte narrati seguendo alla lettera il precetto calviniano della leggerezza. Tutto ciò in un momento storico in cui andrebbe valorizzata la pesantezza estrema di una società letteralmente al collasso come quella italiana, con un tasso di disoccupazione giovanile drammatico e stipendi ancora troppo bassi in rapporto al costo della vita. Le condizioni nel paese sono mutate in peggio a partire dal percorso normativo che ha notevolmente ridotto le tutele del lavoro, con ripercussioni molto gravi sulla salute mentale dei più giovani che non trovano più un collante con le generazioni precedenti.
Il fatto che l’editoria italiana non svolga più (come faceva nel secondo dopoguerra) la funzione storica di dare voce ad autori che rappresentino davvero lo spirito – notevolmente afflitto – della nazione, e inviti invece il grande pubblico a rifugiarsi in narrazioni di puro intrattenimento va in direzione contraria al pensiero di De Sanctis. Per rispondere alla domanda, il ruolo e la funzione della scrittura oggi dovrebbe essere di rappresentare, attraverso tutti i sottogeneri del romanzo e la produzione poetica, le trasformazioni epocali che stiamo vivendo, invitando i lettori a riflettere criticamente sulla loro condizione e sull’impatto che questo sistema economico sta avendo sulla sopravvivenza della specie e sull’ambiente che la ospita».
 

Letteratura tra specchio della società e universalità

La visione di Francesco De Sanctis, con le dovute sfumature, come prevedibile, è condivisa da buona parte dei nostri interlocutori, tra cui Daniela Marcheschi: «Concordo con De Sanctis. La nostra letteratura, ancora tipicamente multilingue (si pensi al fenomeno della poesia dialettale), è lo specchio della multiculturalità costitutiva dell’identità italiana. Ogni italiano ha una identità nazionale, una regionale o delle città/stato di un tempo e, in certi casi, anche di più. Penso, ad esempio, a uno scrittore come Carmine Abate: italiano, calabrese e di cultura e lingua anche arbëreshë, perché discendente degli Albanesi che si sono stanziati nel sud Italia fra il XV e il XVIII secolo. È vissuto a lungo anche in Germania, inoltre.
Per il resto, nel dialogo platonico Fedro (§ LX), Socrate osserva che la scrittura è simile alla pittura. Scrivere significa in origine “incidere” la tavoletta d’argilla con lo stilo, “lasciare dei segni”: una traccia umana, eternare la memoria individuale e collettiva (si veda Jan Assmann). La scrittura come un’altra maniera per dare una rappresentazione visiva del mondo nella letteratura. Quest’ultima, al pari delle altre manifestazioni della cultura umana (la scienza, la filosofia, la biologia ecc.), è appunto un mezzo per acquisire conoscenza di sé e dei propri simili, del sentire umano, per formarsi strumenti di ragionamento diversi da quelli della medicina ad esempio, però necessari, complementari. E soprattutto per esprimere. Un mezzo anche per salvare sé stessi e il mondo, come insegna Dante. La scrittura, ancora, per lasciare una testimonianza indelebile, tramandare il ricordo, costruire così anche l’identità di una nazione.
Oggi che la scuola appare sempre più in difficoltà a dare delle basi in primis di lettura, purtroppo si favorisce una idea debole di scrittura e di letteratura: ripiegata su sé stessa, autoreferenziale, o piena di cliché, tesa principalmente a fini commerciali o di spettacolo. La scrittura nella letteratura dovrebbe invece essere interrogazione sul Bene e il Male, sulla Verità: solo così può interessarci, riguardarci da vicino. Altrimenti perché leggere? Perché farci “incidere” dalle parole e “incidere” con le parole?»
Concetta D’Angeli aggiunge un’ulteriore riflessione: «Non so quanto l’idea dello specchio sia un’immagine convincente e corrispondente a quello che intendo per rispecchiamento. In questa riserva agiscono forse due importanti elementi della mia formazione culturale, e cioè Freud e Marcel Proust. Non posso immaginare uno specchio che prescinda dall’accoglimento delle ombre, delle immagini in prospettiva, della memoria e delle sue chimere, cioè di quella dimensione dell’irrazionale o meglio dell’inconscio che sostanzia la percezione della nostra interiorità ma anche del mondo oggettivo e interviene perfino nei meccanismi della grande storia, nei fenomeni di razzismo, nella misoginia e nell’omofobia collettive, nello scatenare l’aggressività e le guerre. Una tale persuasione mi rende indecifrabile il faccia-a-faccia con la realtà corrente, ho sempre bisogno della messa in prospettiva, un’operazione nella quale il tempo, inteso come passato ma anche come distillatore di ricordi ed emozioni, ha un ruolo essenziale».
A sua volta, Paolo Landi confessa: «I libri che mi piacciono di più sono quelli che riescono a raccontarmi qualcosa del presente che viviamo. Come si sente l’autore e cosa prova non è interessante se non riesce a calarsi in una realtà che il lettore possa riconoscere o che magari non aveva considerato e, quindi, la scopre o la considera con uno sguardo differente».
Sull’aspetto dell’universalità della letteratura si esprime Antonio Limoncelli: «Non esiste più, nel frangente storico che stiamo vivendo, una correlazione tra letteratura e fare, tra strumento e funzione. Gli autori che potrebbero avere un ruolo significativo non interessano più nessuno. Il lettore, sempre più raro, vuole solo intrattenersi e l’editoria, per sopravvivere, deve pubblicare chi paga. Se la letteratura fosse lo specchio della società in cui si sviluppa perderemmo l’universalità delle lettere».
Massimiliano Parente ribadisce: «La letteratura conta quando resiste nel tempo, quando tocca temi universali. Non leggiamo Dostoevskij perché ci parla della situazione della Russia del XIX secolo, e Marcel Proust ha scritto la Recherche durante la Prima Guerra mondiale, della quale nella Recherche non c’è quasi traccia».


Dalla «letteratura nazionale» alla «letteratura globalizzata»


Il critico Filippo La Porta approfondisce l’idea del passaggio dalla «letteratura nazionale» alla «letteratura globalizzata», che caratterizza la contemporaneità, arguendo: «Francamente, oggi lascerei perdere la nazione. La costruzione della nazione è stata un momento emancipativo, in Europa e nell’800, ma ora le nazioni mi sembrano un fatto tribale, legato ai concetti di sangue e suolo, di radici e anima. La nazione è ovunque degenerata in nazionalismo, colonialismo, ecc. La scrittura oggi deve ricordarci che siamo tutti cittadini del mondo, impegnati in una lotta comune non tanto contro la “natura”, come voleva Leopardi, ma contro il limite oscuro della nostra esistenza (malattia, invecchiamento, morte), tentando di renderlo meno drammatico per ciascuno di noi».
A questo proposto si esprime anche Alfredo Palomba: «Teniamo conto che, per quel che vale, De Sanctis compila la sua Storia della letteratura italiana a meno di un decennio dall’unificazione, quando era forse più potente la necessità di sentirsi parte di un popolo che avesse un’anima e un pensiero. Credo che oggi siamo molto più vicini a una forma di letteratura globalizzata, il che io leggo in termini di diversificazione e arricchimento. La società in cui viviamo non è quasi più relegata a confini e identità granitiche, se escludiamo dal conto dichiarazioni xenofobe fuori tempo massimo di cui pure la pubblica informazione è imbevuta. Per quanto riguarda il ruolo della scrittura, penso sia sempre lo stesso attraverso le epoche: per banale che sia, riflette il bisogno dell’uomo di riconoscersi, come singolo e in relazione alla comunità di appartenenza, e raccontarsi, testimoniando il proprio passaggio. Non è altro che l’evoluzione del gesto di lasciare un segno col carbone sulle pareti della propria caverna. Le società cambiano ma il ruolo degli scrittori – degli artisti in generale – resta pressappoco lo stesso».


Il richiamo alla realtà


Dalle risposte dei nostri interlocutori emerge un forte richiamo alla realtà. Ecco, infatti, l’idea di Alberto Garlini: «Credo proprio che la narrativa e la letteratura dovrebbero proprio servire a questo: e cioè a mettere in discussione la fede, la partecipazione emotiva, il narcisismo di massa e a cercare di ricalibrare la narrazione verso una maggiore aderenza alla realtà, nelle sue contraddizioni, ovviamente, mettendo dubbi ovunque, attraverso quelli che, insomma, sono stati i suoi strumenti secolari».
In questa direzione si muove anche il pensiero di Benedetta Palmieri: «C’è però un’idea che mi suggestiona, ed è la diffusione di un approccio personale (quando non direttamente autobiografico) alla scrittura. Un approccio che non credo si debba attribuire a quella parte più deteriore di certo individualismo dei nostri tempi. A me sembra piuttosto il tentativo – in un mondo dai tratti stranianti e sgretolati – di fare appello al nostro primo filtro, al primo aggancio alla realtà, a ciò che possediamo per certo e che meglio possiamo conoscere, ossia noi stessi».


La funzione catartica della scrittura

Sulla funzione catartica della scrittura si esprime Simona Moraci: «Attribuisco alla parola, e alla scrittura, un valore catartico. Le emozioni, la memoria, il desiderio, il futuro nella scrittura trovano una forma, una dimensione che apre le porte di universi altri. E in tali universi è possibile vivere, esplorare, raccontare ciò che si è e si prova. La società attuale è ‘veloce’, attraverso linguaggi che scarnificano la parola, si pensi ai social network, in cui l’immagine sovrasta e annichilisce ogni pensiero. Ritengo quindi che la scrittura, la lettura possano avere un valore salvifico, che porti a rallentare, a tornare nel tempo della riflessione e del pensiero».
Maria Rosaria Selo aggiunge: «La scrittura salva la vita, questo è risaputo, ma vero. Per quello che mi riguarda, per la solitudine che appartiene a chi scrive (solitudine necessaria per la stesura di un romanzo), il dialogo interiore è ininterrotto. Chi scrive ha una responsabilità. Le parole possono essere pericolose e la penna può e deve divenire piuma o spada, per scuotere, sensibilizzare o ammansire, rassicurare il lettore. Per fare questo, bisogna sì conoscere se stessi a fondo, avere quel conflitto che ti allarga la visione e insinua dubbi, ma conoscere anche gli altri, essere delicati e sensibili, comprendere, almeno si spera, come va il mondo».
Per Eduardo Savarese, «la scrittura, oggi, mi pare uno dei più formidabili strumenti di consapevolezza dei processi storici che viviamo. Una fonte di interiorizzazione, anche, di processi che, temo, vengono vissuti sempre più velocemente, sempre più come tocchi rapidi sull’epidermide. La scrittura è il segnale di stop per focalizzare e assorbire il significato: l’antidoto all’istantaneità deresponsabilizzante e anestetizzante».
Uno sguardo ‘al contrario’ ce lo offre qui Paolo Landi: «C'è tutto un filone di letteratura che definirei “consolatoria”, destinata a chi crede che un libro possa salvargli la vita, animata da buoni propositi e buone intenzioni che io riconosco dalle quarte di copertina e che evito accuratamente. Penso, al contrario, che la letteratura faccia bene quando fa male».


Letteratura e ruolo sociale al giorno d’oggi

Una delle tendenze più significative dei nostri tempi riguarda l’immagine della letteratura che sembra essersi molto modificata rispetto anche al recente passato. L’attuale panorama culturale è caratterizzato, da una parte, dalla diffusione sempre più ampia degli strumenti di comunicazione digitale e dalle diverse forme che la letteratura può presentare nei blog o in altri luoghi della rete e, dall’altra parte, da una distinzione meno precisa del valore di tutto quello che viene pubblicato. Questo problema legato alla questione assiologica investe anche l’editoria. Ciò significa che la letteratura non ha più il ruolo sociale di formazione o di conoscenza che aveva in passato. A questo si aggiunge l’omologazione della scrittura che ha fatto abbassare la qualità della letteratura stessa.
Giovanni Bitetto ritiene, a questo proposito: «La letteratura al giorno d'oggi vive un'esistenza clandestina. Non ha un vero impatto nella società, è uno strambo hobby per iniziati, come la numismatica o la costruzione di navi in bottiglia. Ciò che c'era di buono nella letteratura è stato sacrificato in nome dello storytelling, quell'algebra di narratologia a buon mercato che standardizza ogni prodotto culturale: un libro di successo non è diverso da una puntata di Masterchef o dal finale di stagione della serie tv di grido. Chi ha a cuore un certo tipo di letteratura non può far altro che mantenere vivo il fuoco, battere strade laterali, nella speranza che scavando nel vicolo cieco un giorno si sbocchi nuovamente sulla via principale».
Andrea Caterini condivide la stessa opinione: «La verità è che oggi viviamo in un tempo senza letteratura. Cosa voglio dire? Che la letteratura non ha alcuna influenza sulla vita sociale. Ma è un discorso troppo complesso, impossibile da esaurire in una risposta».
Matteo Marchesini aggiunge: «Da oltre un secolo non abbiamo più la fiducia ottocentesca nel fatto che la Letteratura rappresenti la Storia; e nemmeno crediamo sul serio che la vicenda di un personaggio rispecchi quella di una società. Si sono spezzate le connessioni di cui – prima della catastrofe della Grande guerra – parlava il Forster di Casa Howard. Oggi la letteratura ha un peso sempre minore nella cultura generale. Questo può deprimere, ma scioglie anche tanti equivoci. La sua ‘irrilevanza’ ci ricorda che la letteratura è il contrario del potere – che è fatta anche per esprimere le verità naturalmente represse o rimosse nei rapporti sociali, nelle rappresentazioni mediatiche, e insomma nelle dimensioni della vita nelle quali si esige da noi un’autorappresentazione coerente e stilizzata – cioè una ‘cattiva letteratura’».
Ornella Spagnulo opera alcune distinzioni sul tema in questione: «Io purtroppo non credo che la letteratura abbia un ruolo politico o sociale. Credo che la letteratura ‘serva’ a quegli individui che ricorrono a lei per non sentirsi soli. Credo che la letteratura prenda diverse strade e che non siano tutte funzionali a qualcosa. Le anime che hanno qualcosa da gridare più forte sono quelle che restano di più. Se prendiamo il caso di Alda Merini, però, possiamo dire che la sua letteratura serve anche ad abbattere lo stigma, il pregiudizio sulla malattia mentale. Per questo, la letteratura prende tante strade quanti sono i suoi autori e le sue autrici. Sono i lettori e le lettrici a tracciare quelle strade e a dare significato e valore ai libri».


La letteratura militante

Parecchi e sfuggenti risultano i mutamenti che coinvolgono l’età coeva. Ebbene, i nostri tempi possono ospitare siffatti propositi di cambiamento sociale attraverso il canale della Letteratura?
Claudia Boscolo ci propone un’ampia prospettiva: «La narrativa italiana contemporanea ha offerto nel primo decennio di questo secolo esempi virtuosi di impegno politico, ma nel secondo decennio la situazione è notevolmente cambiata, soprattutto in concomitanza con il degrado della politica e dell’informazione e la frammentazione di movimenti e di gruppi di appartenenza. Attualmente si registra una situazione paradossale, per cui in un frangente storico in cui sarebbe necessaria la massima compattezza degli intellettuali attorno a tematiche fondamentali come l’ambiente, la migrazione, il lavoro, l’uscita dalla marginalità di gruppi sociali prima invisibili, l’unica priorità sembra quella di costruire piccole conventicole. L'obiettivo di questa sottile e invisibile attività lobbistica è unicamente l’autopromozione presso premi importanti, primo su tutti Lo Strega, che è anche il più ambito per via dell’impressionante incremento delle vendite che fa registrare. Ma sono molto appetibili anche il premio Calvino (per gli esordienti) e il premio Campiello, finanziato da Confindustria Veneta, e quindi sostanzialmente un riconoscimento di valore intellettuale da parte della élite economica più potente del paese. È chiaro che se alcune questioni come la disabilità possono rientrare nella logica di mecenatismo che sottende al riconoscimento del valore letterario oggi predominante in Italia, altre, come il conflitto sociale attualmente in corso non rientrano nell’agenda politica di chi finanzia i premi e quindi rimangono fuori dallo spettro della rappresentazione.
Possiamo quindi affermare che la letteratura italiana oggi rappresenta una nazione? Io sono del parere che questo compito di rimettere la lotta politica al centro delle narrazioni lo sta portando avanti una esigua minoranza di autori ed editori molto coraggiosi, ma che soffrono di scarsissima visibilità. Questo è un problema, perché la comunità di lettori a cui è negato l’accesso alle informazioni editoriali – obliterate dai media – ne esce di fatto penalizzata».
Elisabetta Darida sostiene che «la scrittura continua oggi a esercitare la sua funzione fondamentale non solo di intrattenimento, ma anche di denuncia. Basti pensare al contributo che tanti scrittori hanno portato e portano alla causa della libertà con la loro lotta senza spargimento di sangue per una società democratica e più giusta. Alcuni anche pagando con la prigione o con la vita. Da questo punto di vista, la diffusione delle tecnologie, la maggior facilità di comunicazione con il mondo e la reperibilità anche online di libri facilita il compito della scrittura, che è e resta un’arma potente per indagare l’animo umano e additarne le storture».
Allargando la prospettiva, per Veronica Galletta, «l’atto stesso della scrittura, nel suo essere così superato e allo stesso tempo immortale, è un atto politico. Sempre».


Letteratura fine a se stessa

E se invece la letteratura fosse chiusa in una bolla ermetica ai tempi? Se fosse fine a se stessa? Alberto Ravasi pensa: «La letteratura è l’unico luogo intellettuale che sfugge in parte a ogni predestinazione sociale, il giornalismo no, l’accademia no, il cinema manco a parlarne. La letteratura non ha centro, non ha padrone, non ha bisogno di niente se non di se stessa e di un abbonamento alla biblioteca, e di conseguenza può produrre l’inaudito, il paradosso, il vero e autentico politicamente scorretto, e qui mi riferisco a scrittori come Trevisan, Permunian, Busi, Moresco, Genna, Falco, non a 'stregati' o 'campiellati' vari».
Sulla stessa scia si pone anche Vanni Santoni: «Condivido la visione di De Santis, e aggiungerei che è pure il sistema nervoso della civiltà. Detto ciò, non credo che si debbano chiedere funzioni alla letteratura: quando ciò accade, si finisce inevitabilmente nell’ideologia, nella didattica o nella pedanteria. L’artista deve essere completamente libero. L’utilità eventuale di ciò che ha prodotto emergerà, se emergerà, da sola, dopo che l'opera è posta in esistenza».
A sua volta, Stefania Mazzone ribadisce: «Parlare di funzione della scrittura può essere estremamente pericoloso. La scrittura, in sé, non ha funzione, anzi, la sua funzione è esattamente l’espressione di uno spazio infunzionale. Spazio ritagliato dai resti, dal margine, come diceva Bela Hook, nel quale il possibile destruttura funzioni e prefigurazioni».


Conclusione


Probabilmente, rasenta i confini di una ricerca labirintica e vana tentare di giungere a una definizione della Letteratura. Già Asor Rosa sottolineò «la polivalenza e l’ ambiguità del fenomeno letterario», sostenendo tuttavia che «non tutto ciò che è scritto è letteratura, per diventarlo, un testo scritto dev’essere mosso da un'intenzionalità precisa e da una conseguente logica strutturante».
Letteratura come Arte, intrecciata semanticamente all’Estetica. Letteratura parente stretta dello spettacolo, prodotto da reclame. Letteratura foriera di godimento estetico, immedesimazione psicologica, spirito critico e conoscitivo. Letteratura che, come scriveva Sartre «si fa nel linguaggio ma non è mai data nel linguaggio; essa è un rapporto fra gli uomini e un appello alla loro libertà».
Ciò che si evince con chiarezza è che, in questa fase storica, anche il mondo letterario è in continuo mutamento, tra le numerosissime possibilità di parola offerte dalla comunicazione digitale e le forme più classiche della «repubblica delle lettere», tra una «democratizzazione» virtuale e una reale sovrapproduzione, tra una grande apertura e una babilonia in fermento, senza escludere i vari condizionamenti. In tutto questo rimane fondamentale quanto espresso da Sartre nella propria autobiografia, Le Mots, pubblicata in Francia dall’editore Gallimard e in Italia da Il Saggiatore: «Ho cominciato la mia vita come senza dubbio la terminerò: tra i libri».




Afrodita Cionchin e Giusy Capone

(n. 7-8, luglio-agosto 2022, anno XI)