Vasile Pârvan (1882-1927) e Marian Papahagi (1948-1999): vite parallele

Se la storia è, nelle parole diventate banalissime di Cicerone, «magistra vitae», Plutarco ci insegna che le vite degli uomini illustri sono spesso le migliori maestre di storia. L’incidere dei singoli individui sull’andamento della storia è spesso, pour le meilleur ou pour le pire, più importante delle relazioni economiche, militari o socio-politiche del momento. Per quanto riguarda la storia dell’Accademia di Romania, l’istituzione non sarebbe esistita senza la volontà di Pârvan, e non sarebbe ridiventata una vera scuola romena a Roma senza lo sforzo di Marian Papahagi [1].

I settanta anni trascorsi fra la morte di Pârvan e quella di mio padre sono pochi rispetto ai tre secoli che separano Alessandro da Giulio Cesare o Demostene da Cicerone nelle Vite Parallele di Plutarco, ma in un certo senso la frattura culturale fra la Romania del periodo ‘interbellico’ e il dopoguerra comunista è più drammatica dei secoli di continuità culturale che uniscono in un grande discorso coerente quello che oramai chiamiamo l’antichità greco-romana. Ed è proprio l’insegnamento di Plutarco che il comunismo si era impegnato ad obnubilare, creando uno scarto fra gli studiosi del Regno e i neo-intellettuali della repubblica popolare. Il destino di un popolo prigioniero divenne allora anche la sorte delle sue istituzioni, della sua cultura, delle sue personalità.

Ho iniziato citando le parole di Cicerone: ‘historia est magistra vitae’. Spesso però la storia sembra essere piuttosto una grande maestra di ironia. Vasile Pârvan e Marian Papahagi sono stati inginocchiati da una morte prematura, che tolse entrambi alla loro attività, prima che riuscissero a portare a compimento il loro progetto più importante: la costituzione di una vera Scuola Romena a Roma, paragonabile alle prestigiose ed antiche accademie tedesca, francese, inglese, americana. Pârvan morì, in seguito ad una setticemia, nel 1927, prima che venisse avviata la costruzione del palazzo dove or ci troviamo [2]. Il cuore sovra-sollecitato di mio padre cedette in questo medesimo palazzo, qualche giorno prima dell’arrivo a Roma della prima generazione di borsisti “Pârvan”, da lui selezionati cinquanta anni dopo la chiusura della Scuola Romena [3]. Però, le vite di Pârvan e di Papahagi si sono svolte sotto il segno non soltanto del dramma personale, ma anche della rivincita sul tempo, questo accanito nemico dei grandi uomini. Lotta corpo a corpo contro il tempo e suprema ironia della storia: non è forse questo il fato di ogni creatore?

Oltre la brevità delle loro vite - i due si sono spenti nelle pienezza dei loro poteri creativi, Pârvan a 45 anni, Papahagi a 50 -, i due studiosi sono nati in momenti storici del tutto dissimili, ma altamente paradigmatici (nella breve e tumultuosa storia della Romania, i momenti di svolta intervengono purtroppo ad ogni generazione). Pârvan è nato un anno dopo la costituzione del Regno di Romania, e pochi anni dopo la guerra di indipendenza; Marian Papahagi è nato un anno dopo la fine del medesimo Regno, e qualche anno dopo la guerra che si concluse con l’asservimento del paese ai sovietici. Pârvan morì nel 1927, prima della decadenza della Romania; Marian Papahagi morì nel 1999, appena dieci anni dopo la rinascita tanto dolorosa e movimentata del paese, tuttora piena di incertezze.Pârvan lavorò nella Romania diventata prima indipendente, poi grande, conoscendo sì il disagio della Grande Guerra, ma anche il nuovo esordio e l’ambiziosa creazione di istituzioni del Regno. A parte l’intermezzo dovuto al disgelo dei primi anni di Ceaușescu, che gli permise di studiare a Roma fra il 1968-1972, Marian Papahagi fu costretto a lavorare senza grandi prospettive in un paese-prigione, sicché la letteratura e le realtà dell’Italia divennero per lui poco più di un amor de lonh.

In due epoche diverse, separate così drammaticamente dal comunismo, Marian Papahagi e Vasile Pârvan ebbero comunque la fortuna di studiare nelle migliori scuole, e di forgiarsi un carattere forte, partendo da una innata passione per la verità, per la giustizia e per il sapere. Il rapido avanzamento in carriera di Pârvan è dovuto al suo talento ed alla sua eccezionale acribìa, ma anche alla giusta selezione dei valori operata nell’epoca. Dopo l’infanzia trascorsa in umili paesini e la maturità al liceo di Bârlad, Pârvan studiò presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Bucarest, laureandosi a 22 anni; sei anni più tardi, in seguito al dottorato di ricerca fatto a Jena, Breslau e Berlino, fu assunto come docente e poco dopo divenne ordinario di storia antica ed epigrafia all’Università di Bucarest. Nello stesso anno (1910), fu anche nominato direttore del Museo Nazionale dell’Antichità. Nel 1913, a 31 anni, fu eletto socio dell’Accademia Romena. Dopo la grande guerra, l’oramai sommo archeologo romeno gettò le basi della Scuola Romena a Roma, il cui direttore fu dagli inizi (cioè dal 1922) fino alla sua morte, sopravvenuta cinque anni più tardi.

Del tutto diverso fu il percorso di Marian Papahagi, nato in una famiglia che aveva già dato alla Romania l’accademico Pericle Papahagi (1872-1943) e l’etnologo e dialettologo Tache Papahagi (1892-1977), lui stesso figlio di medici e cresciuto nella città universitaria di Cluj. Benchè avesse studiato a Roma fra il 1968 e il 1972, al suo ritorno in Romania non trovò né una cattedra, né tantomeno la direzione di una prestigiosa istituzione, ma soltanto un umile posto di ricercatore associato (asistent) che avrebbe conservato fino al crollo del comunismo, nel 1989. Costretto a lavorare in un ambiente di decadenza intellettuale e morale, in un paese che scoraggiava il merito e promuoveva l’impostura (situazione dalla quale la Romania fatica a liberarsi ancora oggi), Marian Papahagi dovette sbrigare in solo dieci anni ciò che Pârvan ebbe la possibilità di compiere in venti.

Non è certo questa l’occasione per presentare la prodigiosa attività dei due studiosi, ma vorrei soffermarmi su due momenti delle loro vite, una volta di più parallele e paradigmatiche. I due momenti sono infatti legati a due istituzioni: l’Università di Cluj e l’Accademia di Romania. Nel 1919, Pârvan fu invitato ad inaugurare l’anno accademico all’Università di Cluj, una delle quattro università della Grande Romania. In quella occasione pronunciò il celebre discorso: Datoria vieții noastre, Il dovere della nostra vita [4].

Nel discorso del 1919 [5], Pârvan rimpiangeva la trasformazione delle università in «fucine di cultura» che producono soltanto «docili papagalli intellettuali e gelatinosi moluschi etici» [6]. Bisogna subito precisare che in quell’epoca, la Romania aveva soltanto quattro università di ottima qualità: adesso ne ha circa ottanta, più dell’Italia, della Francia o della Germania. I docenti, accusava Pârvan, non esultano più quando scoprono giovani «anarchici di fronte alle attuali leggi del pensiero», ma coltivano il conformismo intellettuale e la più abietta ubbidienza [7]. In termini molto intransigenti, Pârvan continuava così il suo discorso inaugurale all’Università romena della Dacia Superiore, che era stata appena creata:

Căci dacă e ca noua universitate să nu fie decît încă o uzină de superficialități și inutilități, de nonvalori sociale, culturale, politice, înființarea ei nu e numai absurdă, e și imorală. [8]

Se la nuova università dovrà essere una nuova fabbrica di superficialità e di inutilità, di nonvalori sociali, culturali, politici, crearla sarebbe non solo assurdo, ma addirittura immorale.

Pârvan descriveva in immagini profetiche il dovere della generazione uscita dalla Grande Guerra come un’opera di salvezza morale e di purificazione intellettuale:

Oportunisme, tocmeli, reductibilități nouă nu ne sînt permise. Noi sîntem preoții aspri ai unei religii de purificare. Sîntem profeții unui timp, cu mult prea îndepărtat de poftele hămesiților contemporani, dar nouă imediat accesibil prin largul orizont al vederii istoric-filologice. Noi sîntem condamnați să fim ireductibili sau să ne retragem din luptă. Căci asupra noastră apasă răspunderea întregii vieți a națiunei. Sănătatea sufletului ei ne e încredințată nouă. Iar noi sîntem datori să luptăm pentru a-i păstra pînă în eternitate acestă imunitate față de decădere și moarte.

Opportunismo, patteggiamenti, compromessi non ci sono concessi. Noi siamo i sacerdoti severi di una religione di purificazione. Siamo i profeti di un tempo troppo lontano dalle brame degli avidi contemporanei, ma immediatamente accessibile a noi attraverso il vasto orizzonte storico-filologico. Noi siamo condannati ad essere inflessibili o ad abbandonare la lotta. Perchè la responsabilità dell’intera vita della nazione grava su di noi. La salute della sua anima ci è stata affidata. Ed è nostro dovere lottare per preservarle in eterno l’incolumità di fronte al declino e alla morte.

Comprendendo in questo modo il suo compito, Pârvan non poteva che essere consapevole della straziante scelta che aveva davanti, sacrificando in parte la pace della biblioteca o del cantiere archeologico per impegnarsi nella vita istituzionale e pubblica di un paese ancora da inventare:

Opera de purificare ce ne cade nouă, generației actuale, e cu totul ingrată. Nouă ni se cere sacrificarea însăși a sufletului nostru: noi nu vom putea face nimic complet, ci deabia vom curăți drumul pentru alții. Cei ce vor veni după noi ne vor amesteca în același primitivism cu cel al societății în care trăim și nici nu vor bănui tragedia de precursori, chinuiți, batjocoriți, neînțeleși, trădați, care a fost în noi. Putînd lucra, egoist solitar, ca cei mai buni din țările luminate ale Apusului, noi nu vom fi lăsat după noi nimic întreg, nimic armonios, nimic asemănător marei iubiri de gînd care a fost în noi. [9]

L’opera di purificazione che spetta alla generazione attuale è assolutamente ingrata. Ci è richiesto il sacrificio stesso della nostra anima: noi non riusciremo a fare alcunché di compiuto, sennon spianare la via agli altri. Coloro che verranno dopo di noi confonderanno anche noi con il primitivismo della società in cui viviamo senza neppure sospettare la nostra tragedia di essere precursori travagliati e derisi, incompresi e traditi. Con la capacità di lavorare, se egoisticamente solitari, come i nostri simili migliori dei paesi avvanzati dell’Occidente, noi non avremmo tramandato niente di compiuto, di armonioso, di simile al grande amore per il pensiero racchiuso in noi.

Il discorso romantico di Pârvan, che alcuni contemporanei (fra questi i sommi saggisti sincronisti Eugen Lovinescu e Paul Zarifopol) consideravano empio e ridicolo ed accusavano di quello che Maiorescu aveva chiamato «beția de cuvinte» («l’ebbrezza delle parole»), ha trovato però riscontro nell’animo piuttosto temperato di mio padre [10]. Infatti, la severità intransigente e perciò poco gradevole di Pârvan, che corrispondeva alla sua smoderata ambizione e si rispecchiava sul suo viso teso, dalle labbra serrate, e nella sua maniera di vestirsi da pastore protestante, carratterizzava anche l’affabile ed amabile Marian Papahagi. Datoria vieții noastre divenne, punto per punto, il programma intelettuale e morale di mio padre; i suoi echi si fanno sentire fra l’altro nelle interviste raccolte nel volume Rațiuni de a fi [11].

In parole più moderate, ma non meno nette, Marian Papahagi affermava nel 1990, da ministro dell’istruzione superiore, che il mondo accademico ha bisogno «di una aristocrazia della mente» non di principi egualitari e di «democrazia» malintesa [12]. Già dal 1990, quando l’università romena era ancora molto selettiva, Marian Papahagi esprimeva il desiderio di creare grandi scuole postuniversitarie e persino una ‘Università Nazionale di Studi di Eccellenza’, dove potessero insegnare i sommi accademici romeni ed internazionali, e dove le élites studentesche potessero essere davvero messe in una situazione di continua competizione positiva [13].

Marian Papahagi era consapevole, come già lo era stato Pârvan, che la sua generazione aveva il dovere di riformare il paese e particolarmente l’università. Gli incarichi amministrativi, da cui non ricavava alcun piacere, erano per lui un sacrificio che non poteva rifiutare. Ciò nonostante, egli contribuì in seguito (da vice-rettore) a riformare l’Università di Cluj, esortata da Pârvan ottant’anni prima ad essere un laboratorio di eccellenza e di verità. In quanto segretario di stato, Marian Papahagi gettò le basi della legge dell’autonomia universitaria [14], e in seguito creò una cattedra di lingue e letterature romanze a Cluj e, soprattutto, riuscì a rifondare, mezzo secolo dopo la sua chiusura, la Scuola Romena a Roma.

La così breve e tuttavia così intensa attività di Marian Papahagi in quanto direttore dell’Accademia di Romania è nota a tutte le persone qui presenti; questo fatto mi esonera dal dovere di ricordarla adesso [15]. Senza cedere al lirismo profetico di Pârvan, Marian Papahagi esprimeva però altrettanto chiaramente il suo credo universitario ed accademico e la sua disinteressata lotta per la rifondazione delle scuole distrutte dal comunismo:

În general nu îmi prea exprim nemulțumirile, pentru că m-am plictisit de jelania națională care constă în faptul că toată lumea nu are altceva de făcut decît să-i incrimineze și să-i înjure pe toți ceilalți care nu știu să facă nimic. Pe mine mă dezgustă profund acest mod de a aborda lucrurile. Îmi place să încerc să fac eu ce pot și dacă pot și cît pot. Iar dacă nu pot, eu mă retrag. Am anunțat în repetate rînduri că, dacă nu pot reface Școala Română din Roma, eu mă întorc acasă. [16]

Non ho l’abitudine di esprimere i miei dispiaceri perchè sono stufo del lamento nazionale che consiste nel fatto che tutti non hanno altro da fare che incriminare e denigrare tutti gli altri, che non sanno fare niente. Io sono profondamente disgustato da questo modo di affrontare le cose. Mi piace provare a fare ciò che riesco, se e quanto riesco a fare. E se non ci riesco, mi ritiro. Ho ripetutamente dichiarato che, se non riesco a rifondare la Scuola Romena a Roma, torno a casa.

Diviso fra la sua attività di direttore dell’Accademia, di ordinario a Cluj, di professore invitato a Copenhaga, di editore, di autore, Marian Papahagi sentiva che il tempo non aveva più pazienza con lui. Lo confessava al suo amico Dinu Flămând in un’intervista del novembre 1998, due mesi prima che il suo cuore cedesse. Il titolo di quell’intervista assume oggi echi premonitori: «din nefericire pentru mine, timpul meu s-a scurtat îngrozitor de mult» - «sfortunatamente per me, il mio tempo si è spaventosamente ristretto» [17].

Come Pârvan, ma in un’epoca meno felice, Marian Papahagi lottò per la rinascita dell’università e delle scuole superiori del suo paese; come Pârvan, ci riuscì in parte. Ma come Pârvan, si rendeva ben conto che la sua opera sarebbe rimasta incompiuta: «nimic întreg, nimic armonios, nimic asemănător marei iubiri de gînd care a fost în noi» («alcunché di compiuto, di armonioso, di simile al grande amore per il pensiero, racchiuso in noi...»). Infatti, i due grandi lavori di Marian Papahagi, la traduzione della Divina Commedia e un grande libro su Dante rimangono incompiuti, testimoni della tragedia dell’intellettuale romeno, costretto a sbrigare mille cose simultaneamente, come lo notava con rassegnazione anche Pârvan qualche mese prima di morire.

Spetta a noi, giovani e fortunati di vivere in un mondo prospero ed aperto, di continuare la loro opera, e soprattutto di capire che la rinascita morale ed intellettuale della Romania e l’eccellenza delle sue scuole è, più che mai, il vero ed impellente dovere della nostra vita.



Adrian Papahagi
(n. 10, ottobre 2019, anno IX)




Marian Papahagi all’Accademia di Romania in Roma





* Adrian Papahagi è medievista, dottore di ricerca dell’Università di Paris-Sorbonne (Paris IV), dove ha insegnato la storia dell’inglese fra 1999-2003. Attualmente è professore associato all’Università Babeș-Bolyai di Cluj.

NOTE

1. Il libro di George Lăzărescu, Școala Română din Roma, București: Editura Fundației Culturale Române, 2002 rende conto abbastanza bene della storia della Scuola Romena dagli inizi (1922), nella sede provvisoria, fino alla chiusura durante la guerra (1943). Vi sono ugualmente riprodotti, pp. 123-88, numerosi documenti: lettere ufficiali di Pârvan, dell’ambasciatore romeno in Italia, di altri personaggi che hanno contribuito alla fondazione dell’Accademia. Purtroppo, l’epilogo di sole due pagine (pp. 189-90) contiene numerose inesattezze: ommette il fatto che la Scuola Romena è stata rifondata da Marian Papahagi nel 1998, e lascia fraintendere che l’attività accademica è stata ripresa nel 1966. Fra i molti errori di Lăzărescu, mi lascia perplesso particolarmente l’enumerazione, “în ordine cronologică” degli “eminenții studioși” che hanno diretto l’Accademia, senza alcun tentativo di valutazione della loro attività o di distinzione fra i direttori ed i vice-direttori. Ecco l’elenco di Lăzărescu, con il suo commento sbalorditivo: “După reluarea activității acestui Centru inimos (!) de istorie și spiritualitate românească, din 1966 (!) s-au succedat la preluarea tradiției inițiate sub formă de Anale de o valoare inestimabilă (?!), Ephemeris Daco-romana și Diplomatarium italicum, personalități române din țară care au menținut cu forțe noi harul sacru al poporului nostru (!!!). Aceștia au fost, în ordine cronologică (!), eminenții studioși (!) Alexandru Mircan (?), Mihai Angheluță (?), acad. Prof. Alexandru Balaci, Gheorghe (sic!) Calafeteanu, Alexandru Junescu (!), Mihai Milca (?), Eugen Uricariu (sic!), Gheorghe Mândrescu, Marian Papahagi, acad. prof. Zoe Dumitrescu Bușulenga și Dan Pineta, actualul Director.” (p. 190).
2. La morte di Pârvan suscitò un’immensa commozione fra gli studiosi ed intellettuali romeni. Ne scrissero necrologi gli accademici Emil Racoviță, Ion Bianu, Nicolae Iorga e, fra gli studenti e discepoli di una volta, Al. Busuioceanu, Șt. Bezdechi, Mircea Eliade, George Călinescu. Per ulteriori dettagli, si veda la preggevole biobibliografia di Al. Zub, Vasile Pârvan 1882-1927 - biobibliografie, București: Editura Enciclopedică Română/ Editura Militară, 1975. Sulla vita di Pârvan, cf. Al. Zub, Vasile Pârvan. Efigia cărturarului, Iași: Junimea, 2001 (1a ed. 1974).
3. Alla morte altrettanto inattesa di Marian Papahagi, pubblicarono necrologi i ministri Andrei Marga e Ion Caramitru ed un gran numero di docenti italiani e romeni, cf. «Diminețile la Roma au o prospețime de nebănuit». Dosar Marian Papahagi, Cluj: Biblioteca Apostrof (=Apostrof 10.1), 1999. Per una breve biobibliografia di Marian Papahagi, cf. la voce di Ion Pop in Mircea Zaciu, Marian Papahagi, Aurel Sasu (edd.), Dicționarul esențial al scriitorilor români, București: Albatros, 2000.
4. Se mi è concessa una confidenza, mi ricordo che mio padre mi fece leggere il discorso di Pârvan molti anni fa, quando odiavo a tal punto la mediocrità del mio paese da non vedere l’ora di cominciare i miei Wandersjahre: in quegli anni volevo andare lontano dalla Romania, se possibile in America. Non apprezzai allora il testo di Pârvan: soltanto più tardi compresi che in quel discorso era rinchiuso anche il credo di mio padre. Sarà forse destino che il dovere della vita di Pârvan nel 1919, rimasto dovere della vita di mio padre nel 1989, diventi anche il dovere delle mia vita all’alba del ritorno della Romania in un’ Europa che non crede più nella sua identità?
5. «Datoria vieții noastre. Lecție de deschidere a cursurilor de Istoria antică și de Istoria artelor, ținute în semestrul de iarnă MCMXIX-MCMXX la Universitatea din Cluj, cetită în ziua de III noemvrie MCMXIX», in Idei și fome istorice, București: Ed. Cartea Românească, 1920, ripresa in Vasile Pârvan, Scrieri, text stabilit, studiu introductiv și note de Alexandru Zub, București: Ed. Științifică și Enciclopedică, 1981, pp. 376-89, a cui faccio riferimento.
6. Datoria..., p. 377.
7. Ibid.
8. Datoria..., p. 378.
9. Datoria..., pp. 380-81. Questo pensiero ritorna nella corrispondenza di Pârvan fino a poco prima della sua morte. In un lettera a Ion Bianu, scritta a Roma nel gennaio 1927, Pârvan ribadiva: «Fericiți oameni cei de aici: au un lucru de care se ocupă, nu o mie, ca la noi; și de aceea acela unul îl fac bine, în vreme ce noi facem pe toate cele o mie prost.» - «Beati quelli che vivono qui: si occupano di una sola cosa, non di mille, come noi; e per questo, quella cosa la fanno bene, mentre noi facciamo male tutte mille.» (Vasile Pârvan, Corespondență și acte, ediție îngrijită, cu introducere, note și indice de Alexandru Zub, București: Ed. Minerva, 1973, n° 282, p. 253).
10. Cf. E. Lovinescu, Ambianța universitară: Vasile Pârvan, in Memorii. 1900-1916, București, 1930, pp. 76-86, ripreso in Ștefan Lemny, Alexandru Zub et al., Vasile Pârvan interpretat de..., București: Editura Eminescu, 1984, pp. 78-84. Lovinescu valuta in queste parole il volume Idei și forme istorice, dove Pârvan aveva ripreso anche la Datoria...: «[...] cât despre cugetarea lui filosofică, ea este o simplă banalitate, mascată sub o insuportabilă grandilocvență stilistică. Formele istorice și Memoriale reprezintă, de fapt, modele intolerabile de patetism verbal, de beție de cuvinte, locurile comune ale reflecției asupra vieții, învăluite într-o frazeologie bombastică, cu aere inspirate și mistice, ce puteau impresiona pe doamnele și pe tinerii din jurul catedrei lui, dar nu rezistă unei elementare analize a bunului-simț.» (p. 84). Altrettanto pungenti le parole di Paul Zarifopol, Plicticoase fantome, in «Convorbiri literare»67.2 (1934), pp. 107-114, ripreso in Vasile Pârvan interpretat de..., pp. 328-36, dove Pârvan è considerato «un monument obez al beției de cuvinte» (p. 329) e un «oficiant permanent înaintea unui altar al solemnității neîntrerupte» (p. 330). La Datoria... è vista come une collezione di «desăvîrșite banalități [ce] se descoperă prin asemenea monstruos țesut de vorbe goale, prin această umflată paradă verbală» (p. 332).
11. Marian Papahagi, Rațiuni de a fi, ediție îngrijită de Adrian Papahagi, București: Ed. Atlas, 1999.
12. Avem nevoie de o aristocrație a minții, aici nu are ce căuta democrația, intervista di Ovidiu Șimonca apparsa in «Opinia Studențească», luglio 1990; ripresa in Rațiuni..., pp. 237-42, da cui cito.
13. Libera căutare a adevărului, intervista di Ileana Coman apparsa su Azi, 1 settembre 1990; Rațiuni…, p. 254.
14. Cf. Rațiuni de a fi, pp. 273-85: Un proiect respins: Legea autonomiei universitare - 1990.
15. Marian Papahagi espone la sua attività presso l’Accademia nelle interviste raccolte nella seconda sezione di Rațiuni..., pp. 165-214.
16. M-am plictisit de jelania națională, intervista di Sanda Anghelescu, 1998, in Rațiuni..., p. 201.
17. Rațiuni..., pp. 202-14.