Filosofia e finitezza, una via all’Essere. In dialogo con Vittorio Possenti

«Elaborare una filosofia della finitezza non pregiudizialmente arroccata in se stessa è un compito onesto. Portare la persona dinanzi all'esperienza della finitezza e domandare a partire da quella, ecco una strada verso cui ci si può avviare. L'esistenza finita contiene in sé una verità inesauribile, ed è perciò mistero». Il ruolo della ricerca filosofica e della metafisica nella cultura contemporanea, il rapporto tra scienza e fede, religione e politica: sono alcuni dei temi del dialogo che i filosofi romeni Ciprian Vălcan e Alin Tat intrecciano con Vittorio Possenti, noto pensatore italiano.


Professor Possenti, lei ha scritto molto a favore della metafisica. Quale è la sua opinione, la metafisica è morta, come non pochi sostengono?  

La metafisica in realtà non muore mai, la sua morte è apparente e in un certo modo essa rinasce dalle proprie ceneri. Lo spirito umano si pone e si porrà necessariamente problemi metafisici e un grande digiuno in proposito non può che essergli fatale. Oltre 150 anni fa, B. Bauer vaticinava drasticamente: «L’Europa si è distolta per sempre dalla metafisica; ma è vero anche che quest’ultima è stata definitivamente distrutta dalla critica, e che non verrà mai più costruito un sistema metafisico tale da poter tenere un posto nella storia della civiltà». Parole sconsiderate per due motivi: da un lato perché per la metafisica vale quanto osservava con ironia N. Gomez Davila: «La metafisica è stata seppellita talmente tante volte che vien fatto di giudicarla immortale»; e dall’altro perché la stessa modernità va considerata un processo ancipite, tanto di corsa verso il nichilismo e l’antimetafisica, quanto di distanza da essi. Ciò comporta che il pensiero non si volga solo verso il negativo ma lasci aperto lo spazio per la speranza.
La metafisica, dunque, è in difficoltà, ma non è morta: il nostro tempo ne ignora tanto la grandezza quanto la fragilità, ma più la prima che la seconda. Maritain in I gradi del sapere illustra perfettamente questo paradosso. La sua grandezza è di essere un sapere fecondo e necessario che porta su Dio, l’essere e le cose ultime, la sua fragilità sta nel costituire una conoscenza che scopriamo a fatica e che abbiamo in possesso precario e mai completo.
Nonostante tutto, una consistente parte del pensiero del Novecento non ha gettato l’interdetto sulla metafisica, affrontandone i temi in vari modi. Se mai è la pseudo metafisica scientista e il sempre risorgente positivismo a sollevare le maggiori preoccupazioni: essi vogliono rinchiudersi solo nell’empirico ed erigere un pensiero della finitezza, oggi dominato dal complesso tecnoscientifico in cui l’uomo soffoca e corre il rischio di venire assimilato all’animale. Per queste correnti antiumaniste la filosofia è condannata a vegetare, «a meno che non accetti di diventare riflessione sul sapere scientifico, il che sarebbe già molto» (Cl. Lévy Strauss); oppure, mettendosi alla scuola di correnti radicali delle scienze umane, a cercare non di pensare, ma di dissol­vere l'uomo.
Ma se usciamo da queste correnti e allarghiamo lo sguardo, si assiste a una ripresa di temi metafisici nella recente filosofia analitica, nei movimenti verso un new realism, nelle questioni sull’uomo, sul bene e il male, sull’evoluzione; intanto continua il suo cammino la filosofia dell’essere e dell’actus essendi, che stabilisce forse la massima tradizione nella storia della metafisica e quella in cui la dottrina dell’essere ha ricevuto l’elaborazione più potente. Ma anche nelle correnti che si autodefiniscono ‘postmetafisiche’ più che antimetafisiche qualcosa potrebbe muoversi, a patto che si liberino di Kant e del suo interdetto sul noumeno.
Nell’atteggiamento postmetafisico il rapporto alla condizione umana viene inteso entro un pensiero della finitezza. Un tale pensiero, che abbraccia tanti aspetti della filosofia del linguaggio, dell'ermeneutica, dell'e­pistemologia, del pensiero dialogico, della morale, ritiene impossibile ottenere un sapere all'altezza degli oggetti metafisici, e per disporre di un minimo di orientamento e non fare naufragio si abbarbica all’etica e a forme di neoilluminismo.
Ora, elaborare una filosofia della finitezza non pregiudizialmente arroccata in se stessa, è un compito onesto. Portare la persona dinanzi al­l'esperienza della finitezza e do­mandare a partire da quella, ecco una strada verso cui ci si può avviare: lo stupore dinanzi all'esistenza include quello di fronte alla finitezza. L'esistenza finita contiene in sé una verità inesauribile, ed è perciò mistero. La contiene in quanto esisten­za e in quanto finita, e nel primo caso in modo più radicale e originario. Operando il cominciamento dall'esistenza finita non si è ancora pregiudicato nulla, non si è ristretto a priori il ventaglio delle possibilità, potendovi essere un pensiero chiuso e uno aperto del finito. Si può stare nel finito con un atteggiamento fraterno verso quanto vi è incluso, e aperti ad altro, all’eccedenza dell’Infinito. L’essere si dice in molti modi e non vi è alcun motivo perché la mente umana, anche quella di soggetti che aderiscono alla postmetafisica, non trovi un cammino verso l’Essere stesso per se sussistente.

Come vede il rapporto tra scienza e fede religiosa, è stato superato il modello conflittuale?

Nonostante i tentativi di polemisti arrabbiati che spesso ritengono la religione un insieme di sciocchezze spregevoli, ad un livello di maggiore informazione e di studi seri sono stati fatti passi avanti in merito al nesso tra scienza e fede. Per progredire ulteriormente o per rimediare agli eventuali difetti del dialogo sinora intercorso occorre chiamare in causa la mediazione della filosofia, che sinora non è stata così attiva come sarebbe stato necessario: in genere scienza, che porta esclusivamente sull’empirico, e fede non possono direttamente dialogare tra loro, se non appunto riconoscendo nel discorso filosofico un tessuto comune. Per oltrepassare il conflitto o l’indifferenza reciproca occorre che né scienza, né fede, né filosofia si considerino saperi monocratici, assoluti ed escludenti le altre due forme. I saperi devono dialogare, non scomunicarsi a vicenda, nessuno può assorbire gli altri due. Attualmente il rischio maggiore proviene dallo scientismo che avanza in base all’idea nefasta che solo la scienza conosca e che dalle altre forme non ci si deve attendere nulla. Lo scientismo si fa sostenitore di un’epistemologia a una sola dimensione, di una dottrina della conoscenza che accoglie solo la conoscenza scientifica.
In ogni caso con l’estendersi sempre più accelerato dell’impresa scientifica tendono a crescere i punti di contatto e di intersezione fra scienza, filosofia e fede, e dunque anche le possibilità per un loro dialogo, particolarmente necessario quando teorie scientifiche e dottrine appartenenti all’area della fede sembrano di primo acchito entrare in contrasto. Esemplificando, suggerisco almeno tre ambiti o nuclei tematici:
- aspetti cosmologici: teoria del big bang e creazione; la domanda sul caso e quella sulla finalità; i problemi posti dall’evoluzione;
- aspetti antropologici ‘classici’: il rapporto anima–corpo; il determinismo; 
- aspetti bioetico-antropologici nuovi: neuroscienze; trattamento del cervello;  intelligenza artificiale; statuto dell’embrione; clonazione.
Ora è impensabile affrontare queste grandi questioni senza una loro fondamentale istruzione ontologica e gnoseologica, per cui mettere a contatto diretto scienza e fede/Rivelazione non conduce ad un esito e forse aumenta di molto la confusione. Occorre invece riconoscere che il dialogo fra scienza e fede non può porsi al di fuori dell’ambito generale del realismo, ossia dell’idea che le nostre dottrine scientifiche ci permettono di raggiungere una certa conoscenza delle strutture del mondo fisico, mentre le dottrine filosofiche e teologiche una certa conoscenza dell’essere, del principio, del fine e della fine. La scienza vale nella misura in cui si confronta con gli oggetti fisici, e la fede include una dichiarazione di alto realismo: fides termi­natur non ad enuntiabile sed ad rem. L’atto della fede si rivolge alla realtà stessa creduta, non semplicemente alle formule.
Il modello conflittuale può essere superato lungo varie strade: quella di ammettere preliminarmente che tanto la scienza quanto la fede sono conoscenze e così la metafisica; quello di puntare sul bisogno di unità che vive in noi e che rappresenta un retaggio della nostra natura intellettuale e della ricerca del vero e dell’armonia che ci agita; e infine di capire la differenza e la conciliabilità delle teorie scientifiche e delle dottrine metafisiche. Mentre le teorie scientifiche cercano di interpretare ambiti o regioni di realtà esperibile e verificabile-falsificabile sperimentalmente a partire dalle domande ‘come funziona?’, ‘quali leggi intervengono in questo campo di realtà esperibile?’, le dottrine concernono non il come ma il che cosa, la domanda sull’essenza, ed insieme a questa la domanda sull’essere/esistenza. Le teorie accostano problemi e costruiscono paradigmi, le dottrine si avvicinano all’essere e vertono più sul lato ‘mistero’ che sul lato ‘problema’. In ciascuna di queste fasi vi è l’obiettiva necessità di ricorrere all’apporto conoscitivo e critico della filosofia, in specie della metafisica ontologica (per metafisica ontologica intendo una dottrina dell’essere che include una gnoseologia o dottrina della conoscenza) e della antropologia.

Lei sostiene l’alleanza socratico-mosaica; che cosa essa presuppone?

È un’alleanza, non un conflitto, tra religione/rivelazione (Mosè) e ragione (Socrate), in cui ciascuna delle due parti offre qualcosa. La base di tale alleanza è che la distinzione tra vero e falso valga tanto per Socrate-filosofia quanto per Mosè-fede, ossia che anche la fede appartenga all’ambito della verità. L’alleanza socratico-mosaica significa l’assunto, proprio tanto al pensiero biblico quanto a quello ellenico, che sia possibile rispondere alle domande sull’uomo, la verità, il bene, Dio, che questa ricerca non sia votata al fallimento in partenza, e dal lato del pensiero biblico che quest’ultimo e la religione non siano estranei all’ambito del vero. Su tali basi esistono le condizioni affinché il logos filosofico greco e il logos biblico divenuto Logos/Verbo incarnato, potessero conoscersi ed eventualmente stringere un’alleanza con specifici apporti da entrambe le parti. Sulla scorta di questo contenuto preliminarmente elaborato, dobbiamo far cenno alla concreta realizzazione di tale alleanza che ha forse rappresentato un acquisto per sempre e un punto di svolta nella storia universale, e tratteggiarne alcuni elementi che in parte erano presenti nel ‘mosaismo’ e che emergeranno ulteriormente nella rivelazione neotestamentaria.
Se guardiamo a quest’ultima, il dialogo con l’ellenismo e la filosofia accompagnò la prima diffusione del cristianesimo. Una vera e propria svolta ‘provvidenziale’ avvenne nel progetto evangelizzatore di Paolo quando era a Troade e intendeva volgere ad Oriente. Negli Atti degli Apostoli (16, 6-10) si narra del suo sogno e dell’appello a lui rivolto a passare in Macedonia, come poi accadde. L’inversione da Oriente ad Occidente non poteva essere più netta, e comportò enormi conseguenze. Dopo l’approdo in Macedonia vi è il discorso di Paolo nell’areopago di Atene, e dopo Corinto e, infine, Roma. Il cristianesimo nascente incontrava i luoghi strategici della grecità e romanità e iniziava un rapporto con le relative culture e filosofie mai più interrotto. Il passaggio in Macedonia e gli eventi successivi possono essere considerati l’inizio dell’Europa quale complesso culturale e religioso, ma possono anche essere ritenuti il concreto avvio, specificamente cristiano, dell’alleanza socratico-mosaica. Ciò si verificherà poco dopo ad Atene nel discorso di Paolo che per la sua importanza meriterebbe un ampio commento: qui mi limito ad un solo punto. La prima parte dell’annuncio riguarda Dio creatore, che ha fatto cielo e terra, che ne è signore, che non dimora in templi costruiti da mani d’uomo, e che dà a tutti vita e respiro, e si conclude con il celebre «in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: poiché di lui stirpe noi siamo». L’apostolo, procedendo alla critica del politeismo antico e dell’idolatria secondo un metodo proprio del giudaismo ellenistico, trova in alcuni pensatori e poeti greci gli appigli per allargare l’intesa sul monoteismo contro il politeismo della religione popolare (sotto questo aspetto il discorso paolino fu un successo perché riavviò e rinsaldò l’alleanza socratico-mosaica; un altro elemento positivo fu il fatto che diversi ascoltatori si convertirono al Vangelo. Insuccesso fu invece l’annuncio della resurrezione, che molti rifiutarono: e ciò segna l’ambito in cui quell’alleanza è e deve essere completata e trascesa sotto la guida della rivelazione).
Al passaggio in Macedonia e poi ad Atene ha fatto riferimento Benedetto XVI nel discorso di Regensburg: «L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell’Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la supplica: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (At 16, 6-10) – questa visione può essere interpretata come una ‘condensazione’ della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco». Un avvicinamento iniziato da tempo – come osserva Ratzinger – richiamando la decisiva rivelazione a Mosè del supremo nome di Dio («Io sono», Es 3,14), il distacco dal mito, la nuova conoscenza di Dio nei Salmi e nella letteratura sapienziale, e la traduzione greca dei Settanta cui il discorso di Regensburg attribuisce particolare valore: «Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell’Antico Testamento, realizzata in Alessandria – la “Settanta” – è più di una semplice (da valutare forse in modo addirittura poco positivo) traduzione dal testo ebraico: è, infatti, una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto significato decisivo».
Così operando, il cristianesimo ha portato a pienezza l’alleanza socratico-mosaica avviata per cenni, pochi ma fondamentali, in epoca precristiana, e poi proseguita dai primi ‘filosofi cristiani’ quali Giustino e Clemente alessandrino, e successivamente condotta avanti da Agostino e Tommaso ed altri sino al XX secolo, secondo un metodo che rimane ‘normativo’. Giustino e Clemente misero in relazione la cultura cristiana nascente con quella greco-romana. In particolare Clemente intese la filosofia greca come praeparatio evangelica, ossia strada e cammino per venire preparati a ricevere il Vangelo, sollevando un tema che si riscontra pure in Agostino in rapporto alla filosofia platonica.  Per Clemente il «Testamento» ad uso dei Gentili fu la filosofia: essa giustificava i Greci, i quali secondo l’autore in qualche modo intravedevano le due verità fondamentali su Dio creatore e remuneratore. A questa tesi si contrapponeva allora quella degli gnostici e dei marcioniti, che intendevano la filosofia come sapienza diabolica data dagli angeli decaduti agli uomini: la filosofia o la conoscenza come frutto del serpente.
L’alleanza socratico-mosaica si presenta, dunque, come la base di un dialogo fruttuoso tra scienze, filosofia, religione, in specie in ordine al problema universale della verità e di una gnoseologia non monodimensionale.

Quale è la sua visione su pensiero sociale e laicità, sul rapporto tra religione e politica?

La questione della laicità, più viva che mai, ha molti volti e va assai oltre quella del rapporto Stato-Chiesa. Lo schema di laicità che con alti e bassi sembra farsi strada in vari Paesi europei tra cui l’Italia, punta su nuclei di cooperazione fra coscienza religiosa e coscienza civile, più che sulla sola riaffermazione della diversità, separatezza, e autonoma sovranità dello Stato e della Chiesa. In breve, viene mutando il nesso tra religione e politica, con un allontanamento tendenziale dal liberalismo ottocentesco e novecentesco che riportava la religione a fatto meramente privato, nonché dalla critica della religione di ampi settori dell’illuminismo.
Due frasi di Hayek e Rawls dipingono il cambiamento che è in atto da alcuni decenni. Secondo il primo autore «Diversamente dal razionalismo della Rivoluzione francese, il vero liberalismo non ha da litigare con la religione, ed io posso solo deplorare il militante ed essenzialmente antiliberale spirito antireligioso, che animò tanta parte del liberalismo continentale del XIX secolo». Rawls sostiene che «There is, or need be, no war between religion and democracy. In this respect political liberalism is sharply different from and rejects Enlightement liberalism, which historically attacked ortodox Christianity». Vari anni prima J. Maritain aveva precorso i tempi elaborando non solo il superamento dell’estraneità tra religione e politica, ma pure la necessità di nutrire la sfera pubblica con un’ispirazione religiosa: il messaggio evangelico deve essere presente nel pubblico esercitandovi un’influenza cognitiva, ispirante e motivante. Si tratta di una questione fondamentale che sta assumendo i caratteri di una disputa culturale; si pensi al dibattito sulla Costituzione europea e alle radici cristiane dell’Europa. La posizione maritainiana secondo cui il cristianesimo può rappresentare una forza determinante per la civiltà occidentale del XXI secolo, viene argomentata attraverso un’elaborazione sull’apporto del messaggio evangelico alla persona umana, ai suoi diritti, alla liberazione politica, ed una ricostruzione storica del ruolo giocato dal cristianesimo nella nascita e sviluppo delle istituzioni politiche tipiche delle moderne società occidentali (Cfr. in specie Umanesimo integrale, 1936; I diritti dell’uomo e la legge naturale, 1942, Cristianesimo e democrazia, 1943, L’uomo e lo Stato, 1951).
In anni recenti Habermas ha teorizzato il superamento della reciproca neutralità, suggerendo una mutua traduzione dei messaggi di liberazione della coscienza laica e di quella religiosa, nel senso di andare verso un’intesa tra religione e politica attraverso un processo di doppio apprendimento tra le due parti e un dialogo tra pensiero religioso e pensiero secolare, in cui entrambi hanno autentica legittimità e cercano di rispettarsi vicendevolmente (cfr. J. Habermas, Tra scienza e fede). Occorre dunque ripensare la questione della laicità con una disponibilitàtra ragione secolare e fedi religiose a riconoscersi reciprocamente, e a cercare i beni fondamentali che rendono possibile una vita comune e un bene comune che non sia solo composto di economia.
Il cammino di ricucitura tra sfera pubblica e religione – che parte dalla massima distanza del laicismo francese postrivoluzionario e che si stempera nel liberalismo di Hayek e Rawls sino a giungere al processo di doppio apprendimento di Habermas – dovrebbe proseguire sino all’aperto riconoscimento dell’apporto del discorso biblico alla sfera pubblica (Maritain), includendo una profonda riforma dello schema liberale classico.
Senza pretese di monopolio segnalo l’apporto laicamente articolato della coscienza religiosa cristiana a quella civile per conseguire alcuni obiettivi fondamentali:
a. proteggere non solo i propri diritti e le proprie libertà, ma quelle di tutti, e nel contempo richiamare che la stagione dei diritti è parimenti quella dei doveri. La rivendi­cazione dei soli diritti costituisce un pericolo se non si perce­pisce il nesso tra diritti e doveri. Scrisse Gandhi: «Imparai da mia madre, illetterata ma saggia, che tutti i diritti che devono essere serviti e preservati provengono dal dovere ben adempiuto»[1];
b. proteggere la persona e la sua espressione fondamentale, individuata nella questione della vita nei suoi molteplici aspetti: fame, sete, guerra, embrione, aborto, eutanasia;
c. partecipare alla formazione dell’ordine del giorno delle grandi questioni pubbliche.
A mio avviso le espressioni politicamente più attive delle religioni lanciano oggi una sfida ai potentati del mondo globalizzato su nuclei molto sensibili: la promozione dei diritti umani, delle libertà civili e del rispetto della persona contro l’aggressione che può provenire tanto dall’intolleranza, dalla violenza, dal terrorismo, dalla discriminazione religiosa, quanto su altro piano dall’ideologia del libero mercato presentata come una panacea universale; la messa al bando delle armi nucleari e della guerra; l’affermazione di una bioetica nell’orizzonte della difesa della vita. Accade, dunque, che movimenti sociali e politici a ispirazione religiosa mettano in questione la legittimità e l’autonomia di due importanti sfere secolari: lo Stato col mito della sua assoluta sovranità e il nefasto ʻdirittoʼ di dichiarare guerra (jus ad bellum), e il mercato come realtà intoccabile.

Mi sembra che lei tenti in filosofia un cammino tomista e personalista. Quali sono secondo lei le grandi sfide in merito?

Sì, in senso proprio tento di riprendere e aggiornare la grande tradizione della filosofia dell’essere, che incontra nel pensiero filosofico e teologico di Tommaso d’Aquino un punto di vertice e che include il personalismo. Naturalmente il termine ‘personalismo’ è assente in Tommaso (nascerà molti secoli dopo), mentre è presente il concetto di persona che riprende e integra quello elaborato da Boezio. Secondo Tommaso la persona umana è quanto di più perfetto esista nell’universo.
Nel XX secolo l’idea di persona ha rappresentato un nucleo fondamentale del dibattito mondiale ed ha preso un nuovo vigore. Alla persona e al personalismo mi sono volto in varie ricerche e soprattutto nel volume Il Principio Persona (Armando, Roma 2006), che intende richiamare nel titolo le opere di Jonas (Il Principio responsabilità) e di Bloch (Il Principio speranza), indirizzando verso l’universo-persona che include tanto la sfera della responsabilità quanto quella della speranza. Il concetto-realtà di persona è una ‘scoperta’ dei primi secoli del cristianesimo e un dono fatto al mondo intero. Il personalismo in quanto si volge alla realtà universale della persona, appare non solo una scuola uscita dalla filosofia occidentale, ma come l’espressione di una antropologia universale.
Le persone sono volute da Dio per se stesse, sono dei fini in sé. Èla natura stessa delle persone che ne fa fini in sé e degli enti dotati di dignità. Questo carattere non è un asserto indipendente, ma scaturisce dalla natura ragionevole della persona, senza di cui non consisterebbe. La persona è fine perché è un essere spirituale dotato di immortalità, creato ad immagine e somiglianza di Dio, rivestito di dignità e meritevole di rispetto incondizionato. Con ciò entriamo nel terreno dell’etica, della convivenza sociale, della politica.
Per la persona vale la legge che il singolo sta più in alto del genere: è qualcuno, non  qualcosa, e come tale esiste in modo assoluto di fronte all’Assoluto. Essendo la sola creatura nell’universo voluta in vista di se stessa e non di altro, essa è un microcosmo, un’immagine finita e incompiuta dell’Infinito e perciò infinitamente moltiplicabile senza rischio di duplicazioni e ripetizioni.
Le sfide che riguardano la persona sono oggi assai intense e concernono la reale natura dei suoi diritti, il rischio di trasformare mere pretese in diritto, un nuovo rapporto tra diritti e doveri, tra cui i doveri intergenerazionali ed ecologici; le complesse questioni bioetiche (embrione, clonazione, eutanasia, fine-vita, ibrido uomo-animale, etc). Queste ultime non possono essere risolte dall’antropologia materialistica assai diffusa in Occidente, ma solo da quella a base ontologica del personalismo, in cui la persona è un sussistente di natura spirituale. Parimenti importanti sono le questioni sollevate dalle neuroscienze. In linea generale vale la regola primaria che non è possibile affrontare con speranza di successo le grandi questioni morali e antropologiche sollevate dalle scienze umane attuali senza una solida dottrina sull’uomo, che è un prius non un posterius.
Tra i temi da riprendere con particolare attenzione sta quello dell’immortalità della persona, degli indizi di immortalità che si trovano in essa. In una conferenza tenuta all’Università Cattolica di Milano nel marzo 1977 il card. Wojtyla ricorre in maniera originale ad una polarità che appartiene in modo incancellabile alla tradizione più antica della filosofia: la polarità tra transitivo/produttivo e intransitivo/immanente, che egli riferisce al problema della morte ed all’immortalità. Nella ricchezza della praxis umana si disvela la comunione della persona con la verità, il bene, il bello, che supera nettamente la sfera dell’utile e dei prodotti dell’operare umano: questi necessariamente periscono, portando sin dall’origine le stigmate della consumazione. L’intransitivo della disinteressata comunione con i valori è più importante del transitivo; e nell’intransitivo sta deposto un germe di immortalità, nel senso che le impronte intransitive presenti nella cultura umana «sembrano testimoniare sulla personale immortalità dell’uomo proprio sulla base di ciò che in lui è intransitivo»[2].



Intervista realizzata da Ciprian Vălcan e Alin Tat
(n. 9, settembre 2012, anno II)


NOTE

1. Gandhi in AA.VV., Human Rights, Allan Wingate, London s.i.d., p. 18.
2. K. Wojtyla, Perché l’uomo?  Scritti inediti di antropologia e filosofia,  a c. di M. Serretti, Leonardo, Milano 1995, p. 191.